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DAC6 e nuovi obblighi di disclosure preventiva: stato dell’arte e spunti operativi per gli intermediari finanziari

9 Novembre 2020

Gloria Camurri e Luca Nobile, Studio Associato consulenza legale tributaria KPMG

Di cosa si parla in questo articolo

Con la Direttiva 2018/822/UE del 25 maggio 2018 (c.d. DAC6), recante modifica della direttiva 2011/16/UE, il Consiglio Europeo ha introdotto nuove disposizioni in materia di scambio automatico di informazioni sui meccanismi transfrontalieri tra l’Amministrazione finanziaria italiana e le altre autorità competenti estere, sia UE che extra-UE con le quali siano in vigore accordi specifici.

La nuova disciplina si inserisce nell’ambito delle iniziative internazionali intraprese sulla base dell’azione 12 del BEPS finalizzate al rafforzamento degli strumenti di contrasto all’evasione e all’elusione fiscale, cercando di intercettare e, dunque, limitare l’utilizzo di meccanismi di pianificazione fiscale aggressiva in ambito internazionale.

Anche se i nuovi obblighi coinvolgono inevitabilmente tutti gli operatori economici, gli effetti, tuttavia, possono essere significativamente più onerosi per alcuni settori, come appare evidente soprattutto se si rivolge l’attenzione agli intermediari finanziari la cui particolare esposizione appare meritevole di alcune specifiche considerazioni, in particolare con riguardo agli hallmark di tipo D.

L’attuazione della Direttiva: il Decreto Legislativo 30 luglio 2020, n. 100

La Direttiva DAC6, entrata in vigore il 25 giugno 2018, avrebbe dovuto essere recepita dagli Stati Membri nei rispettivi ordinamenti domestici entro il 31 dicembre 2019 per permetterne, come originariamente previsto, l’applicazione a partire dal 1° luglio 2020.

Tuttavia, l’Italia, come altri Stati Membri, ne ha differito il recepimento, sfruttando la proroga concessa dal Consiglio Europeo in ragione dell’emergenza legata alla pandemia di Covid-19. Il Decreto di recepimento, difatti, è arrivato solo a fine luglio e si tratta principalmente di una trasposizione degli elementi contenuti nella Direttiva, adottando un approccio non esageratamente severo (come invece è accaduto per Paesi come la Polonia dove l’applicazione è notevolmente più invasiva e le sanzioni notevolmente più aspre) ma esponendo ancora una volta gli addetti al settore, e non solo, ad un adempimento molto complesso nella sua comprensione, senza fornire tutti gli strumenti necessari a garantire un ragionevole affidamento dei destinatari delle norme, intermediari e contribuenti pertinenti, sulla portata dei nuovi obblighi. Peraltro, mancano all’appello quantomeno un decreto del Ministro dell’economia e delle finanze che dovrebbe stabilire “senza modificazioni di natura sostanziale, le regole tecniche per l’applicazione del presente decreto, ivi compresa l’ulteriore specificazione degli elementi distintivi dei meccanismi medesimi […] nonché i criteri in base ai quali verificare quando i suddetti meccanismi sono diretti ad ottenere un vantaggio fiscale” (cfr. art. 5, c. 2 del D.lgs. 100/2020) e un provvedimento del direttore dell’Agenzia delle entrate in cui siano definite le modalità per la compilazione e la trasmissione della comunicazione (cfr. art. 7, c. 5). Ovviamente anche un documento di prassi che aiuti nell’interpretazione della norma sarebbe altrettanto utile, al fine di diradare la coltre di incertezza che avvolge questa disciplina. Vale, quindi, la pena di ripercorrerne brevemente i tratti fondamentali.

Oggetto della comunicazione

Oggetto della comunicazione è un meccanismo transfrontaliero che coinvolga l’Italia e una o più giurisdizione estere, dove per meccanismo si intende uno schema, accordo o progetto. L’indeterminatezza dell’espressione risponde alla finalità di intercettare la più amplia gamma possibile di fenomeni sino a ricomprendere anche sequenze di atti o fatti giuridici (caratteristica che si evince dalla descrizione dell’hallmark B1). Come si è detto l’operazione deve necessariamente coinvolgere almeno un soggetto residente ai fini fiscali in Italia e uno o più soggetti residenti ai fini fiscali in un altro territorio o residenti contemporaneamente in più giurisdizioni. La norma è estesa anche a soggetti per i quali il meccanismo coinvolge in tutto o in parte l’attività condotta in un altro Paese, sia per il mezzo di una stabile organizzazione, sia nel caso in cui questa attività non ne costituisca una.

L’obbligo di riportabilità del meccanismo, tuttavia, scatta solo in presenza di almeno uno degli elementi distintivi, hallmarks nel linguaggio della direttiva, di cui all’Allegato 1 del Decreto.

Le informazioni da comunicare (secondo le modalità che dovranno essere contenute nel provvedimento dell’Agenzia delle entrate) riguardano

  • l’identificazione degli intermediari e dei contribuenti coinvolti, nonché delle imprese ad esse associate[1];
  • gli elementi distintivi individuati nel meccanismo;
  • una breve descrizione del meccanismo;
  • la data di avvio della sua attuazione;
  • le disposizioni nazionali che ne stabiliscono l’obbligo di comunicazione;
  • il valore del meccanismo;
  • l’identificazione delle giurisdizioni di residenza dei contribuenti coinvolti nonché altre eventuali giurisdizioni potenzialmente interessate dal meccanismo;
  • l’identificazione di ogni altro soggetto potenzialmente interessato dal meccanismo.

Soggetti obbligati alla comunicazione

Destinatari dell’obbligo sono gli intermediari e, al ricorrere di determinate condizioni, il contribuente cioè il soggetto che potenzialmente beneficia degli effetti del meccanismo transfrontaliero.

In via preliminare, il soggetto obbligato è l’intermediario nella duplice definizione fornita dal Decreto e, quindi:

  • colui che elabora, commercializza, organizza o mette a disposizione un meccanismo transfrontaliero o ne gestisce in autonomia l’intera attuazione (c.d. promoter), ovvero
  • colui che svolge un’attività di assistenza o consulenza relativa all’elaborazione, commercializzazione, messa a disposizione del meccanismo, qualora abbia a disposizione le informazioni tali da permetterne una valutazione in termini di sussistenza dei requisiti per la riportabilità (c.d. service provider).

Condizione necessaria è che l’intermediario sia residente ai fini fiscali in Italia, o abbia fornito i servizi per mezzo di una stabile organizzazione sita in Italia, sia costituito, disciplinato, regolamentato o iscritto ad un’associazione professionale secondo la legge italiana.

In via sussidiaria, l’obbligo ricade in capo al contribuente, ossia il soggetto che attua o a favore del quale viene messo a disposizione il meccanismo. In particolare, il contribuente è tenuto alla comunicazione

  • in assenza di intermediario;
  • qualora sussistano delle cause di esonero in capo all’intermediario (e.g. se ha ottenuto le informazioni nell’ambito dell’attività di difesa o rappresentanza del cliente innanzi ad un’autorità giudiziaria, oppure nel caso in cui in conseguenza della comunicazione possa incorrere nell’autoincriminazione);
  • ogniqualvolta non abbia ricevuto la documentazione attestante l’avvenuta comunicazione da parte di altro soggetto obbligato.

Il contribuente è esonerato laddove dimostri che la comunicazione è avvenuta ad opera di altro soggetto all’Agenzia delle entrate o all’autorità competente di un altro Stato Membro o di altre giurisdizioni estere con cui l’Italia abbia in vigore un accordo per lo scambio di informazioni, ovvero qualora dalla comunicazione possa emergere una sua responsabilità penale.

Il contribuente può assumere il ruolo di intermediario (ed essere dunque tenuto alla comunicazione anche se il meccanismo non è da questo attuato o non in suo favore) laddove agisca quale promotore o consulente in favore di altre società del gruppo, come ad esempio accade per le capogruppo che accentrino funzioni come quella fiscale o legale o HR e prestino tali attività a beneficio delle subsidiary estere. In questo caso, l’obbligo ricade in capo alla capogruppo in veste di intermediario in relazione al meccanismo proposto o implementato.

Lo standard di conoscenza

Con specifico riferimento alla figura del service provider, la norma subordina l’obbligo di comunicazione alla sussistenza di uno standard minimo di conoscenza. In particolare, è richiesto che tale soggetto sia in possesso delle informazioni e delle competenze necessarie per poter ragionevolmente ritenere il meccanismo come riportabile.

La previsione riflette il differente livello di coinvolgimento che le due figure, promoter e service provider, hanno nell’elaborazione e nell’attuazione del meccanismo. Il service provider, infatti, non essendo il soggetto che ha ideato l’operazione non è detto che sia a conoscenza di tutte le valutazioni e informazioni che hanno guidato la scelta di implementare un determinato meccanismo e, pertanto, di tutte le eventuali implicazioni ai fini della normativa in esame.

La normativa non richiede al service provider di effettuare indagini circa gli aspetti legati al meccanismo che esulino dallo scopo del suo intervento, ma solo di effettuare le proprie valutazioni con riferimento alla conoscenza effettiva che … possiede in relazione alle informazioni prontamente disponibili e al grado di competenza e comprensione necessarie per fornire il servizio[2].. Quindi il service provider sarebbe liberato dall’onere di effettuare una comunicazione laddove, sulla base delle informazioni esistenti e delle competenze coinvolte, il soggetto non abbia un “motivo ragionevole” per considerare il meccanismo rilevante.

Il richiamo del legislatore al “reasonably be expected to know test”[3] non sembra fatto per tranquillizzare gli intermediari, soprattutto quelli che devono gestire e, di conseguenza, analizzare elevati numeri di transazioni, si pensi alle banche ed agli altri operatori del settore finanziario. Resta, sospeso come la proverbiale spada di Damocle, il rischio che gli organi di controllo analizzando ex post le situazioni potenzialmente in perimetro della normativa non tengano in debita considerazione che il set di informazioni in base al quale valutare lo standard di conoscenza del service provider rimane quello che quest’ultimo aveva a disposizione all’epoca che ha visto il suo coinvolgimento nel meccanismo.

I termini per la comunicazione

In relazioni ai termini per effettuare la comunicazione, occorre distinguere tra i diversi periodi intercorsi tra l’entrata in vigore della Direttiva e la data a partire dal quale la normativa entrerà a regime in Italia, ossia il 1° gennaio 2021. In particolare:

  • per i meccanismi la cui prima fase è stata attuata tra il 25 giugno 2018 e il 30 giugno 2020, la scadenza per la comunicazione è il 28 febbraio 2021;
  • per i meccanismi la cui prima fase è stata attuata (o sarà attuata) tra il 1° luglio 2020 e il 31 dicembre 2020, la comunicazione dovrà avvenire entro 30 giorni a decorrere dal 1° gennaio 2021.

A regime, la comunicazione dovrà avvenire entro 30 giorni a decorrere dal giorno seguente a quello in cui l’intermediario ha messo a disposizione il meccanismo o in cui è stata avviata l’attuazione o in cui ha fornito assistenza o consulenza ai fini dell’attuazione del meccanismo. In capo al contribuente, l’obbligo scatta entro 30 giorni a decorrere dal giorno successivo a quello in cui è stato informato dall’intermediario esonerato dell’esistenza dell’obbligo di comunicazione.

Gli elementi distintivi (c.d. hallmark)

Gli elementi distintivi sono quegli indicatori di rischio al ricorrere del quale il legislatore ritiene scatti l’obbligo di comunicare il meccanismo transfrontaliero.

Tali elementi sono raggruppati in cinque categorie

  • A – elementi distintivi generici collegati al criterio del vantaggio principale – tali elementi afferiscono alla regolamentazione dei rapporti contrattuali tra intermediario e contribuente;
  • B – elementi distintivi specifici collegati al criterio del vantaggio principale – tali elementi riguardano operazioni dalla spiccata connotazione di pianificazione fiscale aggressiva;
  • C – elementi distintivi specifici collegati alle operazioni transfrontaliere – tali elementi riguardano le situazioni in cui si crei un disallineamento tra il trattamento fiscale di uno stesso presupposto in due giurisdizioni differenti o tra i valori fiscali ad esso attribuito nelle diverse giurisdizioni;
  • D – elementi distintivi specifici riguardanti lo scambio automatico di informazioni e la titolarità effettiva;
  • E – elementi distintivi specifici relativi ai prezzi di trasferimento – tali elementi devono necessariamente sussistere solo nei casi di rapporti tra soggetti appartenenti al medesimo gruppo e, dunque, soggetti alla disciplina del transfer pricing.

La prima distinzione è tra quelli generici, ossia quelli senza una specifica connotazione fiscale (tipo A), o specifici, ossia fortemente caratterizzati sotto il profilo fiscale (tipo B, C, D ed E).

Altra fondamentale distinzione è il collegamento con il criterio del vantaggio principale che è richiesto per gli hallmark di tipo A, B, C.1.b.i., C.1.c e C.1.d. In questi casi, oltre al ricorrere della specifica circostanza indicata, è necessario che il principale vantaggio, o uno dei principali vantaggi, che un soggetto si può ragionevolmente attendere dall’attuazione del meccanismo transfrontaliero sia di natura fiscale.

Il criterio del vantaggio principale

Come anticipato, il criterio del vantaggio principale è un indicatore che deve sussistere simultaneamente ad alcuni degli hallmark perché scatti l’obbligo di riportabilità.

Tale criterio presuppone la valutazione e misurazione dei vantaggi derivanti dall’attuazione di un meccanismo al fine di verificare che, laddove emerga un vantaggio di tipo fiscale, questo rappresenti quello preponderante o comunque uno dei principali.

Anche tale aspetto, come gli elementi distintivi, sarà oggetto di un Decreto che dovrebbe fornire dei chiarimenti in merito alla misurazione dello stesso, nonché alla misurazione degli eventuali altri vantaggi raggiunti al fine di poter attribuirgli un valore utile per la comparazione. Inoltre, tale valutazione appare assai complessa laddove uno o più vantaggi, tra cui quello fiscale, possano riguardare diversi soggetti e/o diverse giurisdizioni. Difatti, potrebbe porsi il caso di un vantaggio ripartito tra più partecipanti o di un meccanismo che in una determinata giurisdizione comporti un vantaggio di tipo fiscale e in un’altra questo sia solo residuale o addirittura inesistente.

Viene naturale confrontare il criterio del vantaggio principale con la previsione recata dal comma 3 dell’articolo 10-bis della legge 212/2000 che però opera in un certo senso al contrario perché individua le circostanze che consentono di escludere che le scelte operate dal contribuente siano finalizzate esclusivamente o principalmente al conseguimento di un vantaggio di natura fiscale. Inoltre, nel caso della norma anti-abuso, il giudizio risulta essere di carattere qualitativo senza il ricorso a modelli di valutazione di carattere matematico che potrebbero presentare non pochi problemi applicativi nella pratica. Basti pensare alla possibile difficoltà di quantificare in termini economici vantaggi di natura organizzativa (ad esempio la razionalizzazione dell’assetto di un gruppo societario) o in ogni caso vantaggi diversi da quelli di natura fiscale che, al contrario, sono sempre facilmente individuabili e visibili sotto forma di risparmio di imposta.

Gli aspetti sanzionatori

L’art. 12 del Decreto individua le sanzioni applicabili nei casi di omessa o incompleta/inesatta comunicazione. La sanzioni di riferimento individuata è quella recata dall’art. 10, c. 1 del D.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, per la violazione degli obblighi degli operatori finanziari che prevede una sanzione amministrativa da euro 2.000 a euro 21.000.

Nello specifico, nei casi di omessa comunicazione, tale sanzione è aumentata delle metà e ammonta, quindi, ad un importo compreso tra euro 3.000 ed euro 31.500; nel caso di comunicazione incompleta o inesatta la sanzione base è ridotta della metà, ossia da euro 1.000 ad euro 10.500. Difficile al momento stabilire se e come queste previsioni siano suscettibili di coordinamento con la disciplina generale in materia di ravvedimento operoso che la stessa Agenzia delle Entrate nella Circolare ha più volte sostenuto essere applicabile a qualsiasi tipologia di violazioni aventi natura tributaria (ad esempio, nelle circolari n. 9/2002 e n. 180/1998).

E ancora sussistono dubbi, quanto meno a livello normativo, sulla possibile applicazione delle sanzioni accessorie, così come previsto dall’art. 12, c. 4, D.lgs. n. 471/1997, che, con riferimento al caso di recidiva nelle violazioni di cui all’art. 10, prevede che l’autore delle violazioni sia interdetto dalle cariche di amministratore della banca, società o ente per un periodo da tre a sei mesi.

In questo caso, è evidente che oltre all’esborso finanziario l’applicazione della sanzione accessoria potrebbe rendere gli operatori maggiormente sensibili nei confronti dell’adempimento, comportando un effetto anche in termini reputazionali.

Ulteriore aspetto su cui ancora non esiste un chiaro orientamento è la possibilità di applicare il cumulo giuridico ex art. 12 del D.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 che prevede, in caso di violazioni formali della medesima disposizione commesse con più atti od omissioni, l’applicazione della sanzione che dovrebbe infliggersi per la sanzione più grave aumentata da un quarto al doppio.

La particolare esposizione degli intermediari finanziari: gli hallmarks di tipo D1

La portata degli oneri che scaturiscono dal quadro (ancora incompleto) normativo che si è cercato di descrivere nei suoi tratti essenziali, è molto significativa per tutti gli operatori, sia che ricadano nelle due categorie di intermediari, sia che rivestano il ruolo di contribuente pertinente, e per tutti comporta la necessità dotarsi di apposite procedure per assicurare un adeguato livello di compliance ai nuovi obblighi. Tuttavia, la disciplina individua una categoria di elementi distintivi, quelli di tipo D, che risultano indirizzati in modo pressoché esclusivo agli intermediari finanziari e che hanno già dato luogo ad un consistente numero di problemi sia di carattere interpretativo sia gestionale a quanti si sono misurati con il difficile compito di selezionare le operazioni da valutare ai fini della comunicazione in scadenza al 28 febbraio dell’anno prossimo. Il considerando n. 5 della Direttiva dopo aver ricordato “come taluni intermediari finanziari e altri fornitori di consulenza finanziaria sembrino aver aiutato attivamente i loro clienti a nascondere denaro offshore” postula la necessità di favorire, “quantomeno in termini di informazioni sui conti finanziari”, l’istituzione di un quadro finanziario che risponda ad elevati standard di trasparenza all’interno dell’Unione.

Per raggiungere questo obiettivo l’hallmark D si propone di intercettare i meccanismi che possano compromettere l’assolvimento degli obblighi di comunicazione finalizzato allo scambio automatico di informazioni sui conti finanziari, cioè in definitiva il ricorso a transazioni che consentano di eludere le regole previste nell’ambito del Common Reporting Standard (CRS). Quindi le istituzioni finanziarie vengono ora chiamate al non facile compito di individuare le situazioni che potrebbero perseguire l’effetto di evitare la comunicazione alle autorità fiscali delle informazioni rilevanti fini CRS, in pratica le situazioni “sospette” perché potenzialmente suscettibili di realizzare la finalità di eludere tali obblighi. Diversamente da quanto previsto in ambito CRS, che, semplificando, si può dire sia rivolto alla raccolta di informazioni in una prospettiva statica, la disponibilità di un’attività finanziaria esistente ad una certa data da parte di un certo soggetto, la DAC 6 focalizza l’attenzione sulla dimensione dinamica del fenomeno e di conseguenza diventano rilevanti anche le transazioni ed i movimenti che determinano modifiche nella titolarità giuridica o nella disponibilità economica delle attività finanziarie. Infatti, la normativa individua come situazioni potenzialmente “pericolose” l’utilizzo di tipologie di investimenti che non rientrino nella definizione di conto finanziario (oppure che non appaiono come tali pur avendo caratteristiche sostanzialmente simili a quelle di un conto finanziario) o il trasferimento di conti o attività finanziarie in giurisdizioni che non sono vincolate dal CRS. L’individuazione del potenziale elusivo di situazioni di questo genere richiede l’implementazione di un processo valutativo articolato su più piani che, tra l’altro, dovrebbe tenere conto del significativo sfalsamento temporale tra gli adempimenti CRS, una volta all’anno, e quello previsto dalla DAC 6, entro trenta giorni dal verificarsi delle condizioni che innescano l’obbligo di comunicazione, circostanza che richiede all’intermediario di valutare oggi un effetto elusivo che si produrrà a distanza di tempo.

Come primo effetto gli intermediari finanziari saranno costretti a una complessa analisi dello stock di operazioni implementate nel periodo di applicazione della norma precedente alla sua entrata a regime, cioè come già ricordato dal 25 giugno 2018 al 31 dicembre 2020. La prima ovvia considerazione è che l’analisi delle transazioni effettuate in un arco temporale superiore ai due anni per un intermediario finanziario costituisce un impegno considerevole già sotto il profilo quantitativo pur tenendo conto della circostanza che le operazioni che non presentano una dimensione internazionale ma hanno implicazioni esclusivamente domestiche sono escluse dal perimetro della normativa. Quindi il primo obiettivo sarà quello di delimitare quanto più possibile l’ambito delle transazioni da sottoporre ad osservazione, attraverso affinamenti progressivi che consentano di isolare solo quelle operazioni che presentano quegli indici di anomalia che le rendono potenzialmente rilevanti ai fini dell’hallmark D, in una parola “sospette”. Anche se le informazioni necessarie ad individuare le operazioni “sospette” sono sicuramente già presenti e archiviate nei database della banca (i.e. informazioni anagrafiche sui clienti, classificazione degli strumenti finanziari ai fini CRS etc.), sarà presumibilmente necessario utilizzarle e combinarle tra loro in modo innovativo, ad esempio per individuare trasferimenti di attività finanziarie da parte di soggetti residenti in giurisdizioni aderenti verso conti classificati come non finanziari ai fini CRS che restano comunque nella disponibilità dell’ordinante. Fissati in questo modo a livello concettuale i criteri per l’estrazione delle operazioni che presentano gli indici di anomalia, la fase successiva dovrebbe essere la loro trasformazione in un linguaggio di interrogazione informatico utilizzabile in una query di selezione. Con l’opportuno impiego di adeguati strumenti informatici i criteri di selezione potrebbero essere applicati in maniera automatica agli archivi delle operazioni della clientela per estrarne solo quelle che dovranno essere sottoposte, anche sulla base dello standard di conoscenza, ad un più approfondito giudizio sulla sussistenza di eventuali obblighi di riportabilità. Giunti a questo punto, però, risulta problematico affidare il resto del processo di valutazione ad automatismi più o meno informatizzati e diventa nuovamente centrale il ruolo dell’intermediario che deve giudicare se sussista oppure no un rischio effettivo di aggiramento degli obblighi in materia di CRS, decisione che deve tenere in conto una serie di fattori la cui valutazione sembra difficilmente delegabile ad un algoritmo. Per fare un esempio banale un trasferimento di attività finanziarie verso un intermediario residente in una giurisdizione non aderente al CRS rappresenta un indicatore di anomalia che merita di essere analizzato e che può essere estratto in modo automatico attraverso l’opportuno utilizzo di strumenti informatici. Ma per la successiva valutazione del grado di “pericolosità” della transazione ai fini della DAC 6 dovranno essere correttamente individuati i requisiti soggettivi e oggettivi che soddisfano il c.d. standard di conoscenza, attività che, almeno per ora, rende indispensabile la partecipazione del fattore umano al processo di valutazione.

 


[1] Per impresa associata si intende un soggetto che

  • esercita un’influenza dominante nella gestione di un altro soggetto;
  • detiene una partecipazione superiore al 25% del capitale o del patrimonio di un altro soggetto;
  • detiene più del 25% dei diritti di voto esercitabili nell’assemblea ordinaria di un altro soggetto;
  • ha diritto ad almeno il 25% degli utili di un altro soggetto

[2] Vedasi relazione illustrativa al D.L.gs 100/2020.

[3] Ibidem.

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