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Attualità

Criptovalute: la necessità di chiarezza sul regime fiscale applicabile

21 Maggio 2018

Francesco Maria Renne, commercialista, CUOA Business School

Di cosa si parla in questo articolo

Le “criptovalute” (E-Coin, nel prosieguo) sono entrate ormai a far parte dell’immaginario collettivo: ora come “nuova febbre dell’oro” (come forma di investimento), ora come “capro espiatorio” (per le ingenti oscillazioni, con relative perdite per i possessori di molte di esse e per i paventati rischi di permeabilità ad ipotesi di riciclaggio), ora come “mezzo di pagamento alternativo che sovvertirà il sistema delle banche” (per i rivoluzionari più utopisti).

Invero, forse non sono nessuna delle tre cose (peraltro “etichette” derivanti da un eccesso di semplificazione mediatica, non sempre rispondente alla realtà delle cose), ma certamente il diffondersi del numero dei possessori (e nondimeno, dell’offerta) genera, non solo in Italia, discussioni accese (e non sempre conciliabili) sulle conseguenze pratiche fiscali del loro utilizzo.

In Italia, come noto, l’AdE è sul punto intervenuta con la Risoluzione 72E/2016 e, più recentemente, con risposta all’interpello 956-39/2018 (in questa Rivista) che ha suscitato risalto sulla stampa specializzata. In entrambi i casi, in estrema sintesi, si è pronunciata qualificando le E-Coin come “valute” (e i wallet come “depositi”) ai fini sia dell’assoggettamento agli obblighi RW che, conseguentemente, di quelli relativi all’IVAFE e alle eventuali plusvalenze.

Tale rappresentazione, però, non appare a chi scrive del tutto convincente.

Ai sensi del comma 8bis, art. 17bis, Dlgs 141/2010, “i prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valute virtuali sono tenuti all’iscrizione in una sezione speciale del registro dei cambiavalute”, con conseguenti obblighi antiriciclaggio ai sensi del comma 2, art. 1, lett. ff) e qq), Dlgs 231/2007. Ciò implica, indirettamente, che le E-Coin, pur assimilabili, non sono definite dal Legislatore civilistico mere “valute”, talché non vi sarebbe stata – in quel caso – necessità alcuna di introdurre una sezione speciale se rientrassero tout court nell’alveo dell’oggetto dell’attività dei cambiavalute stessi.

A supporto di quanto affermato, vi è la sentenza n. 195/2017 del Tribunale di Verona (in questa Rivista), che, analizzando un rapporto contrattuale di cambio di valuta reale con «bitcoin», lo qualifica, seppur ai fini della disciplina del Codice del Consumo (Dlgs 206/2005) e non del TUF, come “servizio finanziario” avente ad oggetto lo “strumento finanziario” bitcoin.

Peraltro, va ricordato come il comma 1, art. 1, lett. u), TUF, oltre agli strumenti finanziari tassativamente individuati dal comma 2 del medesimo articolo, definisce “prodotti finanziari” ogni altra forma di investimento di natura finanziaria (con esclusione dei depositi bancari o postali non rappresentati da strumenti finanziari). Secondo gli orientamenti Consob, per “ogni altra forma di investimento di natura finanziaria”, devono intendersi quelle che prevedono (i) un impiego di capitali, (ii) a fronte di un’aspettativa di rendimento e (iii) attraverso l’assunzione di un rischio connesso all’impiego di capitali. È indubbio che una (larga) parte delle E-Coin (non tutte) viene “utilizzata” alle (e quindi sono soggettivamente rinvenibili le) tre condizioni citate.

Occorre altresì rilevare che le E-Coin non sono agevolmente classificabili come “valute” sia poiché manca la qualificazione giuridica data dall’emissione da parte di una Banca Centrale e sia poiché le caratteristiche sostanziali proprie di una “moneta”, sotto il profilo economico, sono la sua utilizzabilità come (i) mezzo di scambio, (ii) riserva di valore e (iii) unità di conto. Sotto questo profilo, fermo restando divergenze fra le definizioni americane (SEC) e quelle europee (BCE, EBA, ESMA), le tre caratteristiche citate sono rinvenibili solo in parte, essenzialmente per tre motivi dati dall’eccesso di volatilità (di molte di queste), dalla (ancora) non generale accettazione come mezzo di pagamento e, infine, dalla considerazione che la normativa europea sui mezzi di pagamento (Payment Services Directive) non le considera tali.

Altresì, ricercare appigli di classificazione (per analogia) in ciò che avviene fuori dai confini nazionali – a diversa normativa vigente – è foriero di errori, intanto per la diversa stratificazione della legislazione (i.e. le regole fiscali valutarie italiane e/o la definizione delle basi imponibili non sono affatto “simmetriche”), quanto per il fatto che le conclusioni sono del tutto antitetiche (i.e. in Germania, BaFin le considera strumenti finanziari; negli USA, SEC pare propendere più per valute; FINMA, in Svizzera – e ESMA in Europa, anche – le definisce diversamente al variare del loro scopo iniziale).

In estrema sintesi, detto che la tesi della qualificazione come “meri” strumenti di pagamento non convince (giuridicamente, prima ancora che fiscalmente) le questioni diventano (a) se “tutte” le E-Coin siano “valute” e (b) se “tutte” siano in ogni caso “detenute all’estero”. Fin troppo facile rispondere “no” ad entrambi i punti, vista la classificazione sostanziale prima riportata, mentre (ben) più difficile è rispondere affermando quale trattamento fiscale sia il più corretto, al variare delle singole tipologie di E-Coin e al variare dei singoli diversi obblighi fiscali da prendere in considerazione.

Occorre (rectius, occorrerebbe) infatti, nelle more di un eventuale intervento legislativo ad hoc, interpretare “costruzioni innovative” con “schemi giuridici” tradizionali che però diano risposte non incongruenti tra loro in tutte queste “casistiche”: 1. tassazione dei loro proventi (e trattamento delle eventuali perdite) per una persona fisica; 2. obblighi di monitoraggio RW; 3. assoggettabilità o meno (e con che modalità e quale base imponibile) ad IVAFE (e imposta di bollo sulle attività finanziaria); 4. assoggettabilità (o meno) ad imposta sulle successioni (e sulle donazioni), al supero delle (attuali) franchigie; 5. trattamento in bilancio per possessori imprese; 6. assoggettabilità (o meno) ad Irap.

Preliminarmente, se – a seguito di quanto sin qui esposto – appare intuitivo definire le “utility token” (E-Coin che danno diritto a determinati beni/servizi) quali semplici “mezzi di pagamento” e le “securities token” (E-Coin speculative e/o che danno diritti patrimoniali su società emittenti e/o target) quali veri e propri prodotti finanziari, occorre invece approfondire l’inquadramento delle “currency token” (E-Coin di pagamento “puri”). Queste ultime, a ben vedere, potrebbero rientrare nella categoria degli strumenti di pagamento ovvero in quella delle valute – se “taggati” (cioè vincolate ad 1 E-Coin per 1 unità valutaria “reale”, quindi potenzialmente rimborsabili) a una valuta cd. fiat – mentre potrebbero rientrare in quella delle valute o in quella dei prodotti finanziari – ove non “taggate” – qualora fosse prevalente nella loro detenzione l’intento (soggettivo) speculativo.

A parere di chi scrive, non appare condivisibile l’assimilazione a “valute” tout court per “tutte” le E-Coin, posta la classificazione sostanziale rinvenibile, ma nemmeno la si condivide per quelle del gruppo “currency token”. Dubbia è infatti l’assimilazione dei wallet a depositi di conto corrente e oggettivamente impraticabile la normativa fiscale propria delle valute (prelevamenti e conversioni – anche fra diverse E-Coin senza conversione temporanea in valuta Fiat – equiparati a cessioni rilevanti fiscalmente; riferibilità ad un cambio ufficiale indefinito; soglie di rilevanza quantitativa di giacenza, etc.) per il contribuente che volesse adeguarsi a siffatta impostazione.

Da tali presupposti, ne discende che – salvo che per le utility token – le E-Coin rientrerebbero nella definizione di “altri investimenti di natura finanziaria” quali prodotti finanziari, ai sensi della già citata previsione del TUF. Talché, ciò renderebbe applicabile “de plano” la ratio originaria del monitoraggio valutario (RW) – in quanto classificabili quali “altre attività suscettibili di generare reddito” – qualora (e solo se) fossero detenute all’estero tramite exchanger o provider di portafogli virtuali esteri ovvero tramite diretta partecipazione a ICO estera, la nazionalità dei quali appare determinante per la valutazione del requisito di “quale territorialità”.

Esistono del resto, nella fiscalità della finanza, dei precedenti logico-interpretativi, costituiti dal sovrapporsi del principio della prevalenza della sostanza sulla forma (le operazioni di pronti contro termine sono contabilizzate senza movimentazione del magazzino titoli delle banche, pur rappresentando due passaggi di proprietà – uno a pronti ed uno a termine, con tanto di assolvimento del bollo – tra la banca e il cliente stesso, che invero subisce invece la tassazione come reddito di capitale sul differenziale complessivo dell’operazione) e della ratio originale del monitoraggio degli investimenti esteri (è il caso delle polizze assicurative estere vendute in regime di libera prestazione di servizi, soggette per presunzione ad RW in mancanza di collocamento e di incasso/riscatto tramite canalizzazione con intermediario finanziario italiano). Tali esempi, per analogia interpretativa, si ritengono applicabili alle E-Coin, dove la “sostanza” (intento speculativo) prevale sulla forma (valuta presunta) e ove però manchi la canalizzazione (organizzata e consapevole, cioè che agisca in qualità di eventuale sostituto d’imposta) tramite intermediario finanziario italiano.

Sotto il profilo della tassazione in capo a una persona fisica, questa avverrebbe così “per cassa” quale “capital gain” ma, stante l’attuale previsione normativa, non ne sarebbe ammessa (ad oggi) la deducibilità di eventuali perdite in conto capitale. Ancora, a seguito di questa tesi, qualora condivisa, si ritiene dubbia l’applicabilità delle regole proporzionali Ivafe poiché mancherebbe la simmetrica applicabilità di analoga imposta di bollo sui medesimi “prodotti finanziari E-Coin” detenuti in Italia (rectius, tramite exchanger o provider ovvero ICO italiani).

Parallelamente, sarebbe legittima (anche fiscalmente) la successione ereditaria delle E-Coin, cui si applicherebbero le regole previste per i prodotti finanziari, tassabili solo al superamento delle franchigie attuali.

Infine, sempre seguendo l’ipotesi interpretativa individuata, qualora il possessore fosse un soggetto impresa, i proventi (e le perdite) derivanti dalle E-Coin non sarebbero tassabili (e, rispettivamente, deducibili) ai fini Irap, in quanto componenti di natura finanziaria (e, solo ad onor di elencazione, costituirebbero “operazioni esenti” ai fini della normativa IVA).

Per concludere, senza la pretesa della ragione a priori, proprio data la complessità del tema e la portata innovativa (anche semplicemente tassonomica e di inquadramento giuridico) che determina il diffondersi di questi strumenti, si ritiene che un più attento dibattito in dottrina e una maggior attenzione del Legislatore (che auspicabilmente dovrebbe intervenire sollecitamente al fine di evitare inutili contenziosi) siano necessari per addivenire ad una maggior chiarezza normativa e ad una maggior consapevolezza degli operatori e dei contribuenti stessi.

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