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Giurisprudenza

Confermata l’impugnabilità del diniego di autotutela in sede tributaria, ma solo per vizi propri. Inibito, invece, qualsiasi sindacato sulla fondatezza della questione, anche se fondato su un giudicato di assoluzione in sede penale

24 Novembre 2015

Stefano Loconte, Professore a contratto di Diritto Tributario e Diritto dei Trust, Università degli Studi LUM “Jean Monnet” di Casamassima, Gabriella Antonaci, Avvocato, Loconte & Partners

Cassazione Civile, Sez. V, 20 novembre 2015, n. 23765

Il giudicato di assoluzione in sede penale non può essere posto a fondamento della richiesta di annullamento in autotutela in sede tributaria, dal momento che la richiesta di annullamento di un atto impositivo in via di autotutela può essere avanzata solo per eccepire vizi propri del procedimento di autotutela, giammai per sindacare la fondatezza o meno della pretesa tributaria divenuta definitiva.

Questa è la conclusione cui giunge la Corte di Cassazione con la sentenza 20 novembre 2015, n. 23765, che ribadisce un principio già noto ed acclarato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.

Nel caso di specie, un contribuente, assolto in sede penale, aveva proposto ricorso tributario avverso il diniego dell’Amministrazione finanziaria di annullare in via di autotutela due avvisi di accertamento divenuti nel frattempo definitivi per mancata impugnazione, rivendicando le proprie ragioni sul giudicato penale di assoluzione nelle more intervenuto.

Rigettato il ricorso in primo grado, l’appello del contribuente veniva invece accolto dai giudici di seconde cure, secondo cui, nel caso di specie, a carico del contribuente vi sarebbe un’obbligazione tributaria in totale assenza di alcuni redditi da sottoporre a tassazione, in ragione delle “prove acquisite nel processo penale”, sulle quali il giudice tributario può fondare il proprio giudizio e dal cui esame era desumibile “con certezza oggettiva” che “sia in sede civile che in sede penale il contribuente non disponeva delle fonti di reddito accertate da parte dell’Ufficio tributario per una serie di raggiri e comportamenti fraudolenti, posti in essere da altri nei suoi confronti”.

A fronte del ricorso per cassazione presentato dall’Agenzia delle Entrate, i giudici della Suprema Corte hanno, in primo luogo, ripercorso le sentenze della Cassazione sul tema.

In primis, è stata ribadita la diretta impugnabilità del diniego di autotutela dinanzi al giudice tributario, benchè quest’ultimo non fosse ricompreso nel novero degli atti impugnabili di cui all’art. 19 del D. Lgs. n. 546/1992[1].

Ma soprattutto è sulla sostanza dell’impugnazione che si sofferma la Suprema Corte, ribadendo il principio, già pacificamente accolto dalla Suprema Corte in altri arresti giurisprudenziali[2], secondo cui l’impugnazione del diniego di autotutela attiene solo ed esclusivamente ai vizi propri dello stesso, dovendo riguardare, “ancor prima dell’esistenza dell’obbligazione tributaria, il corretto esercizio del potere discrezionale dell’Amministrazione, nei limiti e nei modi in cui esso è suscettibile di controllo giurisdizionale, che non può mai comportare la sostituzione del giudice all’Amministrazione in valutazioni discrezionali, né l’adozione dell’atto di autotutela da parte del giudice tributario, ma solo la verifica della legittimità del rifiuto di autotutela, in relazione alle ragioni di rilevante interesse generale che consentono di procedere all’annullamento o alla revoca degli atti illegittimi o infondati”.

Da tale presupposto si deduce pertanto che il sindacato che si richiede al giudice con l’impugnazione del diniego di autotutela si esplica nei limiti di un controllo inteso a verificare che l’esercizio di detto potere sia avvenuto correttamente. Trattasi dunque, di un sindacato sulla legittimità del rifiuto e non sulla fondatezza della pretesa tributaria, che comporterebbe al giudice dell’opposizione un illegittimo sconfinamento nella sfera delle valutazioni autonome rimesse dall’ordinamento alla Pubblica Amministrazione, e un’inammissibile sostituzione alla stessa nel giudizio di discrezionalità.

Sulla base di tali corollari i giudici di legittimità, nel dare ragione dalla tesi erariale, sulla scorta di quello che è ormai un principio pacifico nella giurisprudenza della Suprema Corte, giungono alla conclusione che i giudici della CTR sarebbero incorsi in un errore “di palmare evidenza” “nel ritenere che il diniego di tutelaopposto nella specie dall’amministrazione al resistente fosse da essa sindacabile puramente e semplicemente, ad onta del fatto che il contribuente avesse impugnato detto atto non già in ragione di un vizio intrinseco che ne inficiasse la legittimità, bensì per far valere le ragioni assolutorie che, tanto in sede civile che in sede penale, l’avevano scagionato da ogni addebito e dalle quali auspicava che potesse esserne riconosciuta l’efficacia anche dal giudice tributario in rapporto ad un pregresso provvedimento impositivo divenuto da tempo definitivo”.

In definitiva, ad avviso della Corte, se il contribuente non impugna nei termini di legge un avviso di accertamento, con conseguente cristallizzazione della pretesa tributaria, non potrà successivamente nel ricorso avverso il diniego di autotutela sollevare doglianze attinenti al merito della pretesa, neppure se queste si fondano su un giudicato penale di assoluzione in relazione ai medesimi fatti oggetto di pretesa tributaria, atteso che il giudice può annullare il diniego di autotutela solo ed esclusivamente qualora rilevi l’esistenza di un interesse di rilevanza generale dell’amministrazione alla rimozione dell’atto.

 


[1] In particolare, secondo Cass., SS.UU. 7388/07, “la giurisdizione tributaria è divenuta, nell’ambito suo proprio, una giurisdizione a carattere generale, competente ogni qual volta si faccia questione di uno specifico rapporto tributario o di sanzioni inflitte da uffici tributari, dal cui ambito restano così escluse solo le controversie in cui non è direttamente coinvolto un rapporto tributario, ma viene impugnato un atto di carattere generale o si chiede il rimborso di una somma indebitamente versata a titolo di tributo, della quale l’Amministrazione riconosce pacificamente la spettanza al contribuente”. Ancora in termini più espliciti, Cass., SS.UU., 16776/05, secondo cui il carattere generale della giurisdizione tributaria “comporta la devoluzione alle commissioni tributarie anche delle controversie relative agli atti di esercizio dell’autotutela tributaria, non assumendo alcun rilievo la natura discrezionale di tali provvedimenti, in quanto l’art. 103 Cost. non prevede una riserva assoluta di giurisdizione in favore del giudice amministrativo per la tutela degli interessi legittimi, ferma restando la necessità di una verifica da parte del giudice tributario in ordine alla riconducibilità dell’atto impugnato alle categorie indicate dall’art. 19 del D. Lgs. 31.12.1992, che non attiene alla giurisdizione, ma alla proponibilità della domanda”.

[2] Il riferimento è a Cass., SS.UU., 7388/2007, secondo cui “Indipendentemente dalla natura e contenuto dell’atto impugnato, laddove il rapporto controverso verta in materia di tributi di qualunque genere e specie la cognizione è affidata alla giurisdizione delle Commissioni tributarie “ratione materiae”. L’allargamento della giurisdizione tributaria include – attesa l’insussistenza di una riserva assoluta al giudice amministrativo della tutela degli interessi legittimi – il sindacato del giudice circa il corretto esercizio del potere discrezionale dell’Amministrazione finanziaria prima ancora dell’esistenza dell’obbligazione tributaria. Nel caso di specie, il giudice tributario investito del rifiuto dell’Amministrazione finanziaria di adottare un provvedimento di annullamento in autotutela di un avviso di liquidazione ha facoltà di giudicare sulla legittimità di tale rifiuto ma non sulla fondatezza della pretesa fiscale che costituirebbe indebita sostituzione della funzione giurisdizionale a quella amministrativa”. Ancora, secondo Cass., SS.UU., 9669/2009, “Nel giudizio instaurato contro il rifiuto di esercizio di autotutela può esercitarsi un sindacato solo sulla legittimità di rifiuto e non sulla fondatezza della pretesa tributaria”. Nello stesso senso, Cass., 19740/2012, secondo cui “Avverso il provvedimento di diniego relativo a un atto impositivo divenuto definitivo non è esperibile un’autonoma e ulteriore tutela giurisdizionale; può solo esercitarsi un sindacato sulla legittimità del rifiuto e non sulla fondatezza della pretesa tributaria ormai cristallizzata”. Ancora, Cass., 3442/2015, secondo cui “In tema di contenzioso tributario, il sindacato giurisdizionale sull’impugnato diniego, espresso o tacito, di procedere ad un annullamento in autotutela può riguardare soltanto eventuali profili di illegittimità del rifiuto dell’Amministrazione, in relazione alle ragioni di rilevante interesse generale che giustificano l’esercizio di tale potere, e non la fondatezza della pretesa tributaria, atteso che, altrimenti, si avrebbe un’indebita sostituzione del giudice nell’attività amministrativa o un’inammissibile controversia sulla legittimità di un atto impositivo ormai definitivo” e, infine, Cass., 25524/2014, secondo cui “In tema di accertamento tributario, il contribuente che ricorra all’Amministrazione Finanziaria al fine di ottenere dalla stessa, il ritiro in via di autotutela, di un avviso di accertamento, non può limitarsi a dedurre eventuali vizi dell’atto, la cui deduzione deve ritenersi definitivamente preclusa, dovendo, piuttosto, prospettare l’esistenza di un interesse di rilevanza generale dell’Amministrazione, alla rimozione dell’atto medesimo. L’eventuale diniego opposto dall’Amministrazione al ritiro in autotutela, può essere impugnato dal contribuente soltanto per dedurre eventuali vizi di illegittimità del rifiuto ma non per contestare la fondatezza della pretesa tributaria”.


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