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Note

Risoluzione dei contratti di investimento e tutela restitutoria, tra funzione ripristinatoria del rimedio e divieto di ingiustificati arricchimenti: spunti per uno studio delle restituzioni contrattuali, a partire da Cass., 18 febbraio 2025, n. 4133

23 Dicembre 2025

Francesca Corletto, Assegnista di ricerca in Diritto privato, Università degli Studi di Padova

Di cosa si parla in questo articolo

SOMMARIO: Il presente lavoro propone un commento a Cass., 18 febbraio 2025, n. 4133, dove la Suprema Corte si è pronunciata in tema di restituzioni conseguenti alla risoluzione per inadempimento del contratto di investimento in strumenti finanziari, con specifico riguardo al problema della decorrenza temporale dell’obbligo di restituire frutti e interessi. Muovendo dal generale inquadramento del problema delle restituzioni contrattuali, nonché dei principali esiti della riflessione dottrinale in materia, nel presente commento si ripercorre l’evoluzione della posizione della giurisprudenza di legittimità, fino ad arrivare al canone espresso dalla sentenza in commento, che sottopone a revisione l’impostazione tradizionale del problema delle restituzioni contrattuali, mettendo capo ad un orientamento che, senza sconfessare il dato codicistico, riesce a risolvere alcune incongruenze manifestatesi nella prassi.

ABSTRACT: This paper offers a commentary on Cass., 18 febbraio 2025, n. 4133, in which the Supreme Court ruled on the issue of restitution following termination for breach of contract in relation to investment in financial instruments, as regards the effective date of the obligation to return profits and interest. Starting from a general overview of the issue of contractual restitutions, as well as the main outcomes of scholars’ studies on this topic, this commentary traces the evolution of the position of the Supreme Court’s case law, up to the standard expressed in the ruling at stake, which revises the traditional approach to the issue of contractual restitution, leading to an orientation which manages to solve some issues that have arisen in practice, without disavowing the provisions of the Civil Code.


1. Il caso e la questione

Con la sentenza del 18 febbraio 2025, n. 4133[1], la Suprema Corte è tornata a pronunciarsi in tema di restituzioni conseguenti alla risoluzione per inadempimento del contratto di investimento in strumenti finanziari, con specifico riguardo al problema della decorrenza temporale dell’obbligo di restituire frutti e interessi.

La questione giunta al vaglio dei giudici prende le mosse dal ricorso proposto da un istituto di credito per la cassazione della sentenza della Corte d’Appello che, dopo aver ritenuto che entrambi i contratti di acquisto di bond argentini stipulati con alcuni clienti potessero essere dichiarati risolti per violazione degli obblighi informativi gravanti sulla banca intermediaria, aveva condannato gli investitori a restituire, oltre ai titoli detenuti all’esito del concambio a decorrere dal relativo acquisto, le cedole maturate dalla data della domanda; e ciò in applicazione di quanto previsto dall’art. 2033 c.c., che, come noto, accorda al solvens indebiti il diritto di ripetere, oltre a quanto pagato, i frutti e gli interessi «dal giorno del pagamento, se l’accipiens era in mala fede, oppure, se questi era in buona fede, dal giorno della domanda». Ad avviso del giudice del gravame, infatti, gli investitori non potevano che ritenersi in buona fede, dal momento che la banca non aveva fornito la prova della loro mala fede; pertanto, in base alla norma evocata, costoro erano tenuti a restituire solo le cedole maturate in seguito alla data della domanda e non anche quelle maturate fino a quel momento[2]. Chiaramente, tale soluzione presuppone che le cedole percepite dai clienti costituiscano frutti civili ai sensi dell’art. 2033 c.c. Secondo la banca, la Corte d’Appello avrebbe, invece, dovuto disporre, quale effetto della pronunciata risoluzione del contratto, la restituzione, oltre che dei titoli, anche di tutte le somme accreditate agli investitori a titolo di cedole, in quanto oggetto di indebito pagamento.

Si poneva, così, il tema, già oggetto della precedente sentenza dell’8 gennaio 2025, n. 423[3], dei possibili limiti di applicabilità della disciplina della ripetizione d’indebito – con specifico riguardo al rilievo che assume, in essa, lo stato di buona o di mala fede dell’accipiens – alle azioni di impugnativa contrattuale, nonché alle conseguenti restituzioni[4]. Nello specifico, il quesito controverso che allora era stato sottoposto all’attenzione del Collegio, e che il caso in esame ripropone, è se, dato il carattere retroattivo della risoluzione per inadempimento e la funzione ripristinatoria ad essa sottesa, sia razionale applicare la disposizione di cui all’art. 2033 c.c. nella parte in cui commisura l’obbligo di corresponsione di frutti e interessi allo stato di buona o di mala fede dell’accipiens al momento della ricezione della prestazione. Tale interrogativo postula l’esigenza di individuare esattamente l’ambito di incidenza della regola in questione, per verificare se questa sia stata correttamente applicata nel caso concreto.

La Suprema Corte ha accolto il ricorso della banca: richiamandosi all’ampia parte motiva e ai principi di diritto espressi nella sentenza di gennaio, nonché all’orientamento espresso in altra recente pronuncia[5], il Collegio ha escluso che, in caso di caducazione contrattuale, lo stato di buona o di mala fede dell’accipiens possa influire sulla determinazione del dies a quo dell’obbligo di corrispondere frutti e interessi; invero, secondo la Corte, tale obbligo, in più stretta aderenza alla ratio del rimedio azionato, alla funzione ripristinatoria ad esso sottesa, nonché al generale divieto di arricchimenti ingiustificati, dovrebbe decorrere in ogni caso dal momento in cui la prestazione è stata eseguita[6].

Tale orientamento, come affermato dalla Corte stessa, sottende l’adesione alla teoria secondo cui la disciplina dell’indebito oggettivo, nel momento in cui viene utilizzata per regolare le restituzioni contrattuali, non trova applicazione de plano, ma solo nella misura in cui essa risulti compatibile con le peculiarità proprie di queste restituzioni, aventi ad oggetto prestazioni effettuate in esecuzione di un contratto e non mere prestazioni isolate; sicché, in quest’ottica, si è ritenuto congruo disapplicare quei profili di disciplina che risultino incompatibili con dette specificità. Secondo i giudici, infatti, l’applicazione della regola sulla decorrenza dell’obbligo di corrispondere frutti e interessi di cui all’art. 2033 c.c., avrebbe condotto, nel caso di specie, ad un risultato concreto incompatibile sia con il principio della rimessione in pristino proprio della fattispecie risolutoria, sia con il generale divieto di ingiustificati arricchimenti.

Com’è evidente, il quesito affrontato dai giudici, ponendosi al crocevia tra la disciplina del pagamento dell’indebito e quella del contratto e dei suoi rimedi, intercetta il più generale problema delle restituzioni contrattuali: se, cioè, le norme sull’indebito oggettivo – che, per tradizionale opinione, intervengono a regolare dette restituzioni – siano sempre e comunque idonee a far fronte agli specifici problemi che possono sorgere nella fase post-contrattuale, i quali dipendono sia dalla natura del contratto caducato, sia dalla causa che determina il venir meno del vincolo.

Rispetto a questo tema, la sentenza in esame risulta degna di nota non solo per l’approdo finale cui la Corte è giunta, ma anche per le ragioni ad esso sottese, le quali riflettono un rinnovato approccio della giurisprudenza di legittimità all’intera materia delle restituzioni contrattuali, per stessa ammissione della Corte dovuto all’influenza dell’elaborazione dottrinale sul punto. La pronuncia sottopone, infatti, a revisione l’impostazione tradizionale del problema, mettendo capo ad un orientamento che, senza sconfessare il dato codicistico, riesce a risolvere alcune incongruenze manifestatesi nella prassi.

Nelle note che seguiranno, muovendo dal generale inquadramento del problema delle restituzioni contrattuali, nonché dei principali esiti della riflessione dottrinale in materia, si darà conto dell’evoluzione della posizione della giurisprudenza di legittimità, fino ad arrivare all’orientamento espresso dalla sentenza in commento: un orientamento che è dato dalla combinazione dei risultati raggiunti nei due precedenti cui la pronuncia in esame si richiama espressamente.

2. Il problema delle restituzioni contrattuali

Il problema delle restituzioni contrattuali, su cui l’attenzione degli studiosi è focalizzata già da tempo, nasce in seguito ad un difetto di organicità del tessuto normativo. Invero, nel Codice civile non si trova un corpo di regole specificamente dettate per gli obblighi restitutori derivanti da un contratto nato o divenuto inefficace, ma in tutto o in parte eseguito[7]: solo alcune disposizioni situate nel Titolo dedicato al contratto in generale[8], nonché nella disciplina dei singoli contratti[9], fanno riferimento alla fase post-contrattuale e forniscono al riguardo indicazioni parziali, dal significato sistematico non univoco[10].

Alla disorganicità degli addentellati normativi nella disciplina del contratto si contrappone l’analitica regolamentazione degli obblighi restitutori nelle disposizioni dedicate all’istituto del pagamento dell’indebito, le quali, benché concepite con riguardo all’ipotesi di un’isolata prestazione non dovuta, per tradizionale opinione sono chiamate a governare anche le restituzioni contrattuali. Invero, poiché presupposto dell’indebito oggettivo è la non doverosità giuridica dell’obbligo che è stato adempiuto, a gran parte della dottrina è apparsa logica l’applicabilità della relativa disciplina a tutti i casi in cui il contratto è inefficace fin dall’inizio (come nei casi della nullità e della condizione sospensiva non avveratasi) oppure lo diviene retroattivamente (come nei casi dell’annullamento, della rescissione, della risoluzione, del recesso, dell’avverarsi di una condizione risolutiva)[11]. Si è così consolidata l’idea della condictio di derivazione romanistica come mezzo generale di recupero di una prestazione ingiustificatamente ricevuta o ritenuta.

Si comprende, allora, perché la rappresentazione tuttora più diffusa del sistema italiano delle restituzioni contrattuali si incardini sull’applicabilità tendenzialmente generale delle regole sulla ripetizione dell’indebito[12]. Tale impostazione attribuisce all’art. 2033 c.c. il valore di una clausola generale[13], il cui significato può essere apprezzato, in particolare, sotto il profilo della «trasversalità per tipo di rimedio»[14]: ciò significa che gli artt. 2033 ss. c.c. intervengono a regolare la fase post-contrattuale in tutte le ipotesi di radicale inefficacia – originaria o sopravvenuta – del titolo negoziale, determinando, così, un’uniformità di trattamento delle restituzioni contrattuali, sia che conseguano ad una figura di invalidità, sia che conseguano all’esercizio di un’impugnativa contrattuale o di altra causa di scioglimento del vincolo operante in via retroattiva[15]. Tale soluzione è generalmente supportata da tre argomenti: il primo, di carattere testuale, si basa sugli artt. 1422 e 1463 c.c., che espressamente rinviano alla disciplina dell’indebito quale regime atto a regolare le restituzioni conseguenti alla caducazione del contratto[16]; il secondo, di tipo sistematico, riguarda i negozi ab origine inefficaci, i quali ricadrebbero nella fattispecie generale del pagamento dell’indebito[17]; il terzo, di ordine logico, concerne i casi di perdita ex tunc degli effetti e si incentra sul concetto di retroattività, la quale, rendendo sine causa la prestazione eseguita, legittimerebbe l’ingresso alla ripetizione dell’indebito[18].

Da queste premesse si è tratta la conclusione per cui il modello italiano delle restituzioni, al pari di quello francese[19], segue un’impostazione unitaria. Si è parlato, in proposito, di regime restitutorio «autoreferenziale», «neutro» e indifferente rispetto alle cause materiali delle restituzioni, nel senso che, quale che sia questa causa, la conseguenza è sempre e comunque la ripetizione dell’indebito[20].

L’impostazione descritta ha avuto largo seguito in dottrina[21], così come in giurisprudenza, quantomeno se ci si ferma alla lettura delle massime in materia di ripetizione dell’indebito. Numerose decisioni della Suprema Corte si allineano, infatti, all’idea dell’unitarietà della disciplina delle restituzioni contrattuali, ribadendo che «qualora venga acclarata la mancanza di una causa adquirendi – tanto nel caso di nullità, annullamento, risoluzione o rescissione di un contratto, quanto in quello di qualsiasi altra causa che faccia venir meno il vincolo originariamente esistente – l’azione accordata dalla legge per ottenere la restituzione di quanto prestato in esecuzione del contratto stesso è quella di ripetizione dell’indebito oggettivo»[22].

Senonché, l’effettiva applicazione delle norme sull’indebito alle restituzioni contrattuali ha evidenziato come l’estensione di tale regime alla fase post-contrattuale sia un’operazione tutt’altro che semplice e immediata: sussistono, infatti, effettive difficoltà di coordinamento tra gli artt. 2033 ss. c.c. e la disciplina dei rimedi che innescano il meccanismo delle restituzioni[23].

Ciò è quanto si osserva, in particolare, in relazione alla rilevanza che, nelle norme sull’indebito, assume lo stato di buona o di mala fede dell’accipiens[24]: l’articolazione del contenuto dell’obbligazione restitutoria in ragione di tali stati soggettivi è un profilo di disciplina che non risulta immediatamente trasponibile nell’ambito delle restituzioni contrattuali[25]. Le ragioni sono molteplici: anzitutto, non è incontroverso lo stesso significato da attribuire alle nozioni di buona e mala fede nel contesto dell’operazione di scambio, dal momento che gli stati soggettivi prospettabili al momento della nascita o durante la vita del contratto (ad esempio, l’ignoranza o la conoscenza di una causa di invalidità, la fedeltà o l’infedeltà ad un impegno negoziale) sono solo parzialmente riconducibili ai concetti di buona e mala fede[26]; in secondo luogo, nella disciplina del contratto gli stati soggettivi delle parti non sono generalmente valorizzati nello stesso senso in cui lo sono nell’ambito della disciplina dell’indebito; infine, anche a voler intendere le nozioni di buona e di mala fede come ignoranza-conoscenza del carattere indebito della prestazione ricevuta, le parti, nel momento in cui ricevono le prestazioni, spesso non hanno (né possono avere) consapevolezza del loro carattere indebito. Ciò si verifica, in particolare, nel caso della fattispecie risolutoria, posto che nel periodo di costanza del rapporto ciascuna parte ha pieno titolo a ricevere la prestazione[27].

Di qui si pone il quesito circa l’idoneità degli stati di buona o di mala fede dell’accipiens a fungere da criteri di soluzione dei conflitti di interessi che si creano in seguito alla dissoluzione del contratto. La questione postula, a monte, il più generale interrogativo circa l’attitudine delle norme sull’indebito a fornire soluzioni appropriate alle specifiche questioni poste dalle restituzioni contrattuali[28].

La dottrina che si è occupata del tema si articola tra Autori favorevoli all’applicazione della disciplina dell’indebito anche alle restituzioni contrattuali, sia pur con alcuni adattamenti[29], ed Autori che, in ragione delle peculiarità di dette restituzioni, sono, invece, giunti a sostenere la necessità di scorporare da tale disciplina l’intera materia delle restituzioni contrattuali[30] o parte di questa[31].

Anche la giurisprudenza di legittimità, che pure ha mantenuto un atteggiamento molto meno problematizzante rispetto al tema delle restituzioni, non ha risolto in modo univoco il problema del raccordo della disciplina dell’indebito con il regime dei rimedi contrattuali. È quanto si osserva, in particolare, in relazione alla decorrenza degli interessi sui debiti restitutori aventi ad oggetto somme di denaro. In alcune sentenze, ove viene fatto espresso riferimento alla disciplina dell’indebito, la Corte afferma che gli interessi decorrono dal momento della domanda di ripetizione, dovendosi presumere la buona fede dell’accipiens[32]; in altre, il Collegio sembra invece ignorare la disciplina dell’indebito e la conseguente rilevanza dello stato soggettivo dell’accipiens, affermando che gli interessi sui debiti restitutori sono dovuti in ogni caso a decorrere dal momento del pagamento, a prescindere dallo stato soggettivo dell’accipiens[33].

La discontinuità della produzione giurisprudenziale in relazione a questo specifico aspetto sembra dovuta proprio al «rapporto irrisolto» tra la disciplina dell’indebito e il regime dei rimedi contrattuali[34]. Quando la Corte focalizza la sua attenzione sulla prima, si orienta nel senso della decorrenza degli interessi dal momento della domanda di ripetizione, salvo che risulti provata la mala fede dell’accipiens; quando, invece, pone il baricentro del congegno restitutorio nel rimedio che ne costituisce l’antecedente, conclude che gli interessi decorrono dal momento del pagamento.

Fino a pochi anni fa si poteva affermare che questo atteggiamento ondivago dei giudici della nomofilachia non toccasse le pronunce in materia di contratti di investimento, rispetto alle quali la Corte ha mantenuto, quantomeno in relazione alla fattispecie risolutoria, un orientamento coerente con l’impostazione tradizionale del tema delle restituzioni contrattuali. Senonché, come evidenziato dalla pronuncia in commento, anche con riguardo ai contratti del comparto finanziario si è registrato un vero e proprio revirement sotto il profilo attenzionato. Il problema della decorrenza temporale dell’obbligo di restituire frutti e interessi è stato, infatti, risolto in modo diverso da quanto avvenuto in precedenza, ossia prendendo le distanze dalla regola dettata dall’art. 2033 c.c.

Mette conto, a questo punto, evidenziare gli snodi fondamentali dell’iter logico seguito dai giudici, operando, ove occorra, un’opportuna sintesi tra gli argomenti che lo compongono ed esplicitando alcuni passaggi che, ora per eccesso di sintesi, ora perché rinviano alla motivazione espressa in altri precedenti, potrebbero apparire di non immediata comprensione.

3. Le restituzioni conseguenti alla risoluzione dei contratti d’investimento: l’orientamento giurisprudenziale tradizionale

Il punto di partenza del percorso argomentativo seguito dalla Corte è dato dalla ricognizione dell’indirizzo costantemente seguito, fino a pochi anni fa, in materia di risoluzione dei contratti di investimento in valori mobiliari[35], che riflette, da una parte, l’impostazione tradizionale del problema delle restituzioni contrattuali più volte ribadita dai giudici di legittimità[36] e, dall’altra, una determinata qualificazione delle utilità scambiate tra intermediario e cliente nell’operazione di investimento.

In base a tale orientamento, all’accoglimento della domanda di risoluzione del contratto per inadempimento consegue il diritto delle parti alle reciproche restituzioni, alla stregua della disciplina del pagamento dell’indebito[37]. Ciò si afferma in aderenza al principio secondo cui alla risoluzione del contratto consegue sia un effetto liberatorio per le obbligazioni che ancora devono essere adempiute, sia un effetto restitutorio per le prestazioni che siano già state eseguite[38], atteso che, venuto meno il vincolo negoziale, coloro che abbiano ricevuto le prestazioni le detengono senza titolo e sono, perciò, obbligati a restituirle secondo i principi desumibili dalle regole di cui all’art. 2033 c.c.[39].

La norma evocata delinea, anzitutto, un’obbligazione restitutoria principale, avente ad oggetto quanto indebitamente pagato[40], nonché un’obbligazione legale, accessoria a quella principale, che deriva dalla necessità di regolare la sorte dei frutti naturali o civili della res maturati a seguito della solutio, nonché degli interessi decorrenti dallo stesso momento sulla somma indebitamente riscossa, i quali hanno natura compensativa[41]. In continuità logica con la disciplina che conferisce rilievo allo stato di buona o di mala fede del possessore della cosa fruttifera (art. 1148 c.c.), l’art. 2033 c.c. stabilisce il dies a quo dell’obbligo di corrispondere frutti e interessi sulla base dello stato soggettivo in cui versa l’accipiens al momento della ricezione della prestazione indebita; dunque, il solvens ha diritto di ottenere frutti e interessi, a seconda dei casi, dal giorno del pagamento oppure da quello della domanda.

Ebbene, in base al riferito indirizzo giurisprudenziale, tali regole trovano applicazione de plano e senza deroga alcuna nel caso di specie[42]. Perciò, in seguito alla risoluzione del contratto di investimento, sorgono tra le parti reciproci obblighi restitutori aventi ad oggetto le utilità rispettivamente maturate in seguito all’operazione di investimento. Nello specifico, l’intermediario finanziario deve rimborsare il capitale investito dal cliente, unitamente agli interessi, e il cliente deve restituire all’intermediario i titoli acquistati, nonché il reddito eventualmente prodotto medio tempore dai medesimi sotto forma di cedole, dividendi o altro[43]. E poiché interessi e cedole hanno natura di frutti civili, essi vengono fatti rientrare nell’alveo della regola posta dalla seconda parte dell’art. 2033 c.c., sicché si ritiene che siano dovuti con decorrenza dalla data del pagamento solo nel caso in cui chi lo ha ricevuto era in mala fede, altrimenti da quella della domanda[44].

4. Il nuovo indirizzo: a) il contenuto della regola sulla restituzione di frutti e interessi

Senonché a tale indirizzo si è affiancata una nuova teoria ricostruttiva[45], maturata alla luce delle richiamate riflessioni della dottrina sul tema dell’applicabilità della disciplina dell’indebito alle restituzioni contrattuali. Il riferimento va ai già citati precedenti del 20 giugno 2023 e dell’8 gennaio 2025, ove la Corte ha preso atto del fatto che le restituzioni conseguenti alla caducazione di un contratto, specie se sinallagmatico, possono porre problemi diversi da quelli derivanti dalla ripetizione di prestazioni disancorate dall’operazione di scambio[46], e che le maggiori difficoltà di raccordo tra la disciplina dei rimedi contrattuali e le norme sull’indebito si riscontrano proprio in relazione al profilo della rilevanza assunta, in quest’ultimo ambito, dallo stato soggettivo dell’accipiens.

Il tema merita di essere approfondito, dal momento che qui si annidano i problemi che hanno determinato il revirement della Suprema Corte.

Anzitutto, per stabilire se anche nel caso delle restituzioni contrattuali sia razionale applicare la disposizione di cui all’art. 2033 c.c. nella parte in cui commisura l’obbligo di corresponsione di frutti e interessi allo stato di buona o mala fede dell’accipiens, il Collegio ha ritenuto necessario individuare puntualmente il contenuto e l’ambito applicativo della regola in questione.

Un primo profilo attiene al concetto stesso di buona e di mala fede.

È dato pacifico che, in materia di indebito oggettivo, la buona fede dell’accipiens sia intesa in senso soggettivo, quale requisito di scienza riferito al carattere indebito della prestazione[47]: l’accipiens è in buona fede se non sa che il pagamento non è dovuto.

Tanto premesso, nel momento in cui si tratta di precisare detta nozione con riguardo alla fattispecie risolutoria, la Corte esclude che il giudizio sulla buona o mala fede dell’accipiens possa «per analogia trasformarsi nel giudizio sulla imputabilità all’accipiens del fatto che dà luogo alla risoluzione»[48]. Tale soluzione risulta, infatti, incompatibile con l’accezione in senso soggettivo della buona fede[49]: stabilire una corrispondenza tra l’imputabilità dell’inadempimento e lo stato di mala fede comporterebbe un’ingiustificata conversione della buona-mala fede soggettiva nella buona-mala fede oggettiva, oltre ad un’indebita sovrapposizione di piani tra tutela restitutoria e risarcitoria[50].

E allora, se la buona fede di cui parla l’art. 2033 c.c. è indubbiamente soggettiva[51], e consiste nello stato di ignoranza del carattere non dovuto del pagamento, nel contesto contrattuale tale nozione non può che specificarsi nella condizione di ignoranza dell’inefficacia del titolo e del conseguente obbligo di restituire la prestazione ricevuta[52]. Ne derivano due ordini di conseguenze, con riguardo alla fattispecie risolutoria: da un lato, è plausibile ipotizzare che, nel periodo di costanza del rapporto, chi riceve la prestazione sia in buona fede[53], dal momento che la prestazione, avendo titolo in un contratto valido ed efficace, è in quel frangente dovuta; dall’altro, lo stato di mala fede, cioè di conoscenza dell’obbligo restitutorio, insorgerà normalmente in un momento successivo[54], al più tardi in quello della domanda[55]: in seguito a tale atto del solvens, l’accipiens non può, infatti, disconoscere che il pagamento non è dovuto[56].

Occorre poi chiarire quale sia l’oggetto dell’obbligazione restitutoria accessoria ex art. 2033 c.c. e quali tra le utilità scambiate tra intermediario e cliente vi rientrino: questione che, ancora una volta, è riflesso del problema della trasposizione della disciplina dell’indebito nel contesto post-contrattuale.

Il tema è stato specificamente affrontato nella sentenza dell’8 gennaio 2025, che ha riletto in modo inedito la fattispecie in esame[57].

La Corte ha chiarito che la regola posta dalla seconda parte dell’art. 2033 c.c. non può valere per utilità che, pur avendo natura di frutti o di interessi, sono state ricevute in forza del contratto: queste, infatti, sono oggetto di prestazione contrattuale e, come tali, devono essere integralmente restituite, come previsto dalla prima parte della norma[58].

La regolamentazione dei frutti e degli interessi di cui all’art. 2033 c.c. va, quindi, riferita ai frutti e agli interessi che maturano per legge in relazione al bene o alla somma di denaro oggetto di ripetizione, ossia ai frutti naturali e civili che la res prestata indebitamente abbia prodotto e agli interessi (di natura compensativa) che siano maturati sulla somma indebitamente riscossa[59].

Poste queste precisazioni, il Collegio ha osservato che, nella fattispecie in esame, le somme ricevute dagli investitori a titolo di cedole, pur avendo natura di frutti civili (rectius di utilità ritratte sulla base dei titoli acquistati), rientrano nella previsione di cui alla prima e non alla seconda parte dell’art. 2033 c.c., in quanto sono attribuzioni patrimoniali effettuate in esecuzione di obblighi discendenti dal contratto di investimento. Invero, nel caso della negoziazione per conto proprio e per conto terzi l’intermediario, dopo aver procurato al cliente il prodotto finanziario, provvede ad accreditargli periodicamente le cedole portanti la maturazione dei guadagni dell’investimento[60]. Dunque, poiché la corresponsione delle cedole altro non è che il risultato dell’esecuzione di una prestazione contrattuale, una volta che il contratto di investimento venga meno con effetto ex tunc, tali somme risultano ingiustificatamente ritenute da parte dei clienti, i quali, dunque dovrebbero restituirle integralmente, ai sensi della regola posta dalla prima parte dell’art. 2033 c.c., che accorda al solvens il diritto di ripetere ciò che ha pagato[61].

Il diritto dell’intermediario all’integrale restituzione delle cedole riscosse dall’investitore non è pertanto discutibile, costituendo una diretta conseguenza della pronunciata risoluzione del contratto, in base al combinato disposto degli artt. 1458 e 2033 c.c. Argomentare diversamente significherebbe sovrapporre tra loro le regole contenute nell’art. 2033 c.c., con conseguente compromissione della stessa portata della risoluzione[62].

Deve, pertanto, ritenersi che, in caso di risoluzione di un contratto di acquisto di prodotti finanziari, l’intermediario sia tenuto a restituire all’investitore il capitale ricevuto per l’operazione di investimento e che, corrispettivamente, l’investitore sia tenuto a restituire all’intermediario le somme incassate nel corso del rapporto a titolo di cedole, nonché i titoli laddove ancora in essere.

Tale lettura risulta preferibile rispetto a quella seguita dall’orientamento giurisprudenziale precedente, perché più aderente alla dinamica dell’operazione di investimento, nell’ambito della quale è pacifico che, così come il trasferimento dei titoli, anche la corresponsione delle cedole viene effettuata in esecuzione degli accordi intercorsi tra intermediario e cliente.

5. (Segue) – b) il problema della rilevanza dello stato soggettivo dell’accipiens indebiti

In base alla ricostruzione della Corte, recepita anche dalla sentenza in commento[63], la circostanza relativa alla buona fede dell’accipiens non può incidere sulla restituzione delle cedole, atteso che queste sono frutti civili percepiti in forza del contratto e non maturati per legge in seguito all’acquisto dei titoli.

Tale circostanza viene, però, in rilievo allorché si passi a considerare la diversa questione del calcolo degli interessi sulle somme che le parti devono rispettivamente riconoscersi per effetto della risoluzione del contratto di investimento (rispettivamente, l’intermediario la somma ricevuta a titolo di capitale e il cliente i titoli e le somme portate dalle cedole medio tempore incassate).

Proprio a questo proposito, la Corte ha osservato che l’applicazione letterale dell’art. 2033 c.c., che fa dipendere la decorrenza dell’obbligazione restitutoria accessoria dallo stato soggettivo dell’accipiens, potrebbe condurre ad un disallineamento tra le posizioni delle parti[64].

L’investitore potrebbe, infatti, essere tenuto a restituire l’intero ammontare del rendimento ritratto dai titoli ricevuti, senza essere simmetricamente remunerato con riguardo alla somma pagata per procurarseli. Tale remunerazione si identifica, infatti, negli interessi maturati sul capitale indebitamente versato, i quali sono senz’altro dovuti in base alla regola posta dalla seconda parte dell’art. 2033 c.c., e dunque con decorrenza dalla costituzione in mora, salvo che l’accipiens fosse in mala fede, cioè sapesse di dover restituire la prestazione ricevuta. Si è visto, però, che nel caso della risoluzione del contratto questa condizione è normalmente assente, dal momento che, a tacere della presunzione di buona fede, chi riceve la prestazione la riceve in esecuzione di un contratto che in quel momento è pienamente efficace.

In casi come questo, la concorrente applicazione delle due regole poste dall’art. 2033 c.c., come sopra illustrate, genererebbe uno squilibrio: l’investitore sarebbe, infatti, tenuto a restituire tutte le cedole percepite in forza del contratto, ma avrebbe diritto a ricevere solo una parte degli interessi maturati sulla somma da lui pagata, in quanto l’intermediario sarebbe tenuto a restituirli solo dal momento della costituzione in mora. Di conseguenza, nel tempo che va dal momento in cui il rapporto comincia ad avere attuazione a quello della costituzione in mora, l’intermediario si approprierebbe sia degli interessi sulla somma a lui versata, sia dei rendimenti del titolo negoziato.

La Corte riconosce che un simile inconveniente può prodursi anche nell’ipotesi in cui «sia i frutti che gli interessi siano regolati dall’art. 2033 c.c.»[65], dunque anche ove si aderisca alla tesi secondo cui le somme portate dalle cedole soggiacciono alla regola posta dalla seconda parte dell’art. 2033 c.c. Anche in questo caso, nell’evenienza di opposti esiti dell’accertamento circa lo stato soggettivo dei due accipientes, l’applicazione de plano di tale regola può dare luogo ad una sperequazione fra la posizione dei contraenti[66]. Può, infatti, accadere che, da un lato, l’intermediario sia tenuto a corrispondere gli interessi sin dal momento del pagamento indebito, in ragione di una sua mala fede in ipotesi dimostrata dal cliente e, dall’altro, il cliente non sia tenuto a restituire gli importi corrispondenti alle cedole maturate o ad altri redditi prodotti dagli strumenti finanziari prima della domanda giudiziale, in ragione della sua buona fede o del mancato superamento della relativa presunzione da parte dell’intermediario. Si consideri, peraltro, che, generalmente, è proprio il cliente ad impugnare il contratto concluso con l’intermediario, tipicamente dopo che l’investimento si rivela rovinoso: ciò fa sì che, nella normalità dei casi, non ci siano frutti maturati dopo la domanda che il cliente possa restituire[67]. Non vi è dubbio che, nell’assetto appena descritto, si profila una overcompensation del cliente, il quale ottiene due volte la remunerazione del capitale che gli deve essere restituito. La remunerazione gli deriva, anzitutto, dalla restituzione degli interessi maturati a far data dall’investimento, e, inoltre, dall’ulteriore reddito ricavato dallo stesso capitale, costituito dai frutti prodotti dagli strumenti finanziari con esso acquistati sino al momento della domanda di restituzione dei titoli da parte dell’intermediario, che egli tratterrebbe in virtù della propria buona fede[68].

In entrambi i casi considerati, la situazione di squilibrio tra le posizioni delle parti che viene a crearsi in seguito all’applicazione della regola posta dalla seconda parte dell’art. 2033 c.c. discende dal fatto che la disciplina dell’indebito è concepita con riferimento ad una isolata prestazione non dovuta e non al contratto a prestazioni corrispettive.

6. (Segue) – c) la funzione ripristinatoria dei rimedi demolitori e il divieto di ingiustificati arricchimenti

Consapevole delle criticità che possono discendere da un’applicazione rigida della disciplina dell’indebito alle restituzioni contrattuali, il Collegio ha ritenuto di seguire la proposta ricostruttiva secondo cui, fermo restando che il rinvio alle norme sull’indebito posto in calce a diverse disposizioni costituisce un’indicazione di principio da cui non si può prescindere del tutto, occorre evitare un’applicazione letterale di tali norme, laddove queste dovessero confliggere con le peculiarità proprie del rimedio azionato e delle conseguenti restituzioni. Di qui l’idea di una rilettura della disciplina dell’indebito finalizzata a renderne possibile un’applicazione compatibile con le speciali esigenze delle restituzioni contrattuali, nonché con la ratio dei rimedi ad esse presupposti[69].

Una simile operazione presuppone, da un lato, che non vi sia una netta cesura tra l’esercizio dell’impugnativa negoziale e le restituzioni a questa conseguenti, le quali, anzi, vengono a costituire parte integrante del rimedio che ne costituisce l’antecedente logico; dall’altro, che vi sia una conseguente revisione del modo di pensare alla disciplina dell’indebito quale istituto che interviene a regolare le restituzioni contrattuali: un regime che, anziché rispondere ad una logica autonoma, può adattarsi alla natura e alla funzione del rimedio presupposto[70].

Ebbene, posto che la risoluzione, così come altre cause che determinano la caducazione del contratto, comporta il venir meno del titolo con efficacia ex tunc, la Corte ritiene che la disciplina delle restituzioni contrattuali debba essere coerente con questo aspetto[71]. Con specifico riguardo alla fattispecie risolutoria, diviene, dunque, di centrale importanza chiarire come la retroattività della pronuncia di risoluzione interagisca con la disciplina della ripetizione dell’indebito[72]: a tal proposito, il quesito che si è posto è se le regole stabilite dall’art. 2033 c.c. trovino coniugazione con l’art. 1458 c.c., che dispone che la pronuncia di risoluzione ha carattere retroattivo tra le parti, oppure se subiscano deroghe in ragione di tale peculiarità della fattispecie risolutoria[73].

Il focus del discorso si sposta, quindi, sul carattere della retroattività: aspetto rispetto al quale la dottrina non ha assunto un orientamento univoco. Le immagini teoriche più note si riassumono, da una parte, nella formula della retroattività “in senso forte” e, dall’altra, in quella della retroattività “in senso debole”, con conseguenti diverse ripercussioni in punto di applicabilità della disciplina dell’indebito[74].

In base alla prima ipotesi ricostruttiva, l’enunciato sulla retroattività implica l’idea di un totale azzeramento del rapporto contrattuale ed «avrebbe la forza di autonomamente imporre all’accipiens […] l’obbligo di restituire frutti e interessi sin dal giorno del pagamento»[75], con conseguente irrilevanza degli artt. 1148 e 2033 c.c. Sicché, secondo questa teoria, sarebbe la stessa statuizione risolutoria a determinare, come conseguenza, l’obbligo, per l’accipiens, di restituire, oltre alla prestazione ricevuta, tutti i frutti prodotti dalla cosa o gli interessi maturati sulla somma oggetto della solutio, a nulla rilevando il suo stato di buona o di mala fede al momento della ricezione della prestazione[76].

Viceversa, nella seconda ipotesi[77], la retroattività non implica l’idea di un azzeramento del rapporto contrattuale, ma è intesa come una semplice tecnica giuridica finalizzata a creare una realtà il più possibile vicina a quella che si sarebbe verificata se gli effetti del contratto non si fossero prodotti[78]. In quest’ottica, il congegno della retroattività è ciò che giustifica i reciproci obblighi restitutori tra le parti: una volta risolto il contratto, l’obbligo di restituire quanto ricevuto deriva dal sopravvenuto venir meno del fondamento giustificativo della prestazione[79]. Di qui si individua nella ripetizione dell’indebito il meccanismo che ne consente la rimozione[80].

Anche i precedenti della Corte non restituiscono responsi uniformi sul tema dell’interazione tra retroattività della pronuncia di risoluzione e ripetizione dell’indebito. In alcune pronunce il Collegio ha affermato che le obbligazioni restitutorie che si generano in seguito alla risoluzione del contratto sono governate dalle norme sull’indebito non altrimenti derogate[81]. In altre occasioni, muovendo dal presupposto per cui la risoluzione, salvo il caso dei contratti ad esecuzione continuata e periodica, produce un effetto recuperatorio ex tunc, la Corte ha affermato che gli interessi legali sono dovuti in ogni caso a decorrere dal giorno del pagamento: una soluzione che, pur senza aderirvi ex professo, appare vicina all’idea della retroattività in senso forte[82].

Diversamente da quanto accaduto in precedenza, la pronuncia in esame e, in modo ancor più netto, la sentenza di gennaio ivi richiamata sottendono una determinata nozione di retroattività. La Corte ha, infatti, preso le distanze dalla dottrina della retroattività in senso forte, per aderire alla formula della retroattività in senso debole, ritenuta più coerente con la disciplina positiva della risoluzione per inadempimento[83]. Tale impostazione è condivisibile, atteso che la retroattività ex art. 1458 c.c. non determina la cancellazione dell’intero contratto dalla realtà giuridica, ma solo di quella porzione del suo contenuto da cui deriva il trasferimento o la nascita delle situazioni giuridiche che ne sono l’oggetto, nonché lo scambio di valori economici[84]. Questo concetto di retroattività rende, inoltre, ragione del rilievo secondo cui, nonostante l’art. 1458 c.c. non faccia espresso richiamo agli artt. 2033 ss. c.c. (a differenza dell’art. 1463 c.c.), anche nel caso della risoluzione per inadempimento le restituzioni sono in linea di principio governate dalle norme sull’indebito[85]: l’intervento di detta disciplina sarebbe, infatti, superfluo se la statuizione risolutoria fosse in grado di determinare in via autonoma gli obblighi restitutori, come postulato dalla teoria della retroattività in senso forte. Quanto detto trova conferma nell’affermazione secondo cui «accertata la mancanza di una causa adquirendi, in ragione della risoluzione del contratto per inadempimento, l’azione accordata dalla legge per ottenere la restituzione di quanto prestato in esecuzione del contratto stesso è quella di ripetizione di indebito oggettivo»[86].

In questo quadro concettuale si colloca l’ipotesi di lavoro posta dal caso di specie, cioè la valutazione di congruenza delle regole che informano la disciplina del pagamento dell’indebito rispetto alla funzione recuperatoria sottesa al rimedio azionato.

Ebbene, quanto alla regola posta dalla prima parte dell’art. 2033 c.c., nulla quaestio: l’obbligo di restituire quanto è stato oggetto delle reciproche prestazioni, qualunque sia la sua qualificazione giuridica, è coerente con la rimessione in pristino inter partes cui conduce la retroattività ex art. 1458 c.c.: si tratta, infatti, di utilità che le parti, in assenza del contratto, non avrebbero conseguito[87]. Ciò conferma l’obbligo di integrale restituzione delle cedole postulato dalla ricostruzione poc’anzi illustrata.

Viceversa, si è visto come la regola sulla restituzione di frutti e interessi possa condurre, se applicata letteralmente, ad un disallineamento tra i rendimenti di quanto è stato oggetto delle contrapposte prestazioni[88]. Ciò può accadere sia se si ritenga che oggetto dell’obbligazione restitutoria accessoria ex art. 2033 c.c. siano solo gli interessi sulle somme che le parti devono riconoscersi per effetto della risoluzione del contratto di investimento, sia se si ritenga che anche le cedole siano oggetto di tale obbligazione. Invero, in entrambe le ipotesi prese in considerazione, una parte lucra, ai danni dell’altra, un utile che non avrebbe conseguito ove il contratto avesse avuto regolare esecuzione: una conseguenza incompatibile non solo con la ratio della risoluzione per inadempimento, ma anche con il generale divieto di ingiustificati arricchimenti.

È, infatti, evidente che la risoluzione non può attribuire ad alcuna delle parti un vantaggio superiore a quello che le sarebbe derivato dall’esatta esecuzione del contratto: il riconoscimento di un simile beneficio conferirebbe alla ripetizione dell’indebito una connotazione premiale e, simmetricamente, afflittiva che va ben oltre la posizione di vantaggio riconosciuta all’accipiens in buona fede. Senza contare il fatto che la disciplina del pagamento dell’indebito è sempre stata pensata come applicazione particolare del più generale divieto di arricchirsi senza giusta causa[89].

Perciò è apparso opportuno introdurre un correttivo, che consiste nel coniugare l’obbligo di integrale restituzione dei frutti con quello di corrispondere gli interessi a far data dal pagamento della somma oggetto di ripetizione.

Il Collegio ha, così, affermato il principio di diritto secondo cui «la disciplina della ripetizione dell’indebito non può implicare ingiustificati arricchimenti di una parte ai danni dell’altra, onde è escluso che, a fronte dello scambio di un bene fruttifero con una somma di denaro, frutti e interessi non possono avere diversa decorrenza»[90]. Sicché, risolto il contratto per inadempimento, in presenza di un obbligo restitutorio avente ad oggetto titoli e cedole quali attribuzioni patrimoniali dipendenti dalle pattuizioni intercorse tra intermediario e cliente, gli interessi sulla somma capitale corrisposta da quest’ultimo devono essere restituiti a far data dal versamento, a prescindere dallo stato soggettivo dell’intermediario.

Anche ove si ritenga che le cedole costituiscano utilità da corrispondere ai sensi della regola posta dalla seconda parte dell’art. 2033 c.c., il medesimo principio interverrebbe ugualmente a riequilibrare le posizioni dei contraenti nell’ipotesi di sperequazione che si genera ove il cliente risulti in buona fede e l’intermediario in mala fede: entrambe le parti sarebbero, infatti, tenute a restituire, rispettivamente, cedole e interessi dalla data del pagamento.

Ciò, di fatto, si traduce in una disapplicazione della regola posta dalla seconda parte dell’art. 2033 c.c., in quanto gli esiti cui questa conduce, con riferimento al caso in esame, sono in contrasto con la funzione recuperatoria sottesa alla risoluzione per inadempimento, nonché al generale divieto di arricchimento senza causa[91]. Dunque, fermo restando che l’impugnativa negoziale dà luogo a restituzioni in linea di principio governate dalla disciplina dell’indebito, l’applicazione di tale disciplina nel caso concreto non può condurre ad un risultato confliggente con altra norma dell’ordinamento, qual è il generale divieto di arricchimento senza causa.

Può ritenersi, allora, che le restituzioni conseguenti alla risoluzione si uniformino a questo canone: non vi è, infatti, motivo per pensare che la vicenda risolutoria legittimi vantaggi che esulano dall’assetto di interessi immaginato dal legislatore per l’esecuzione del contratto. Tale conclusione poggia sulla ricusazione di soluzioni che, attraverso la riallocazione dei valori economici regolati dal contratto ormai caducato, generino un sistematico arricchimento di una delle parti in danno dell’altra[92]; ricusazione che va ribadita con riguardo all’ipotesi del cumulo, in capo al medesimo contraente, dei rendimenti dei beni negoziati.

La soluzione della Corte è coerente con l’idea della retroattività in senso debole. Invero, tale nozione di retroattività non conduce necessariamente ad un’applicazione de plano della disciplina sull’indebito, né esclude una regola che imponga la reciproca restituzione di frutti e interessi dal momento del pagamento. Ciò che la teoria della retroattività in senso debole impone è di non recepire acriticamente soluzioni che costituiscono l’automatico corollario della finzione del ritorno allo status quo ante[93]; l’evocata prospettiva richiede, cioè, di non fondare la tesi per cui le norme sull’indebito non sono tout court applicabili alle restituzioni conseguenti alla risoluzione di un contratto per inadempimento unicamente sul carattere retroattivo della statuizione risolutoria.

La sentenza in commento si inserisce perfettamente in quest’ordine di idee, perché teorizza una parziale disapplicazione della disciplina dell’indebito sulla base non soltanto della regola della retroattività e della finalità della rimessione in pristino che si accompagnano alla scelta della risoluzione[94], ma anche del generale divieto di ingiustificati arricchimenti, nonché dall’esigenza di ricomporre l’equilibrio sinallagmatico compromesso dall’inadempimento. L’integrale restituzione di frutti e interessi rientra, cioè, in quella operazione ortopedica che ha a necessario presupposto la ricostruzione dell’assetto patrimoniale progettato dal contratto. Peraltro, questo risultato è coerente anche con il criterio accessorium sequitur principali. Dunque, laddove debbano essere restituite le prestazioni principali, lo saranno in linea di principio anche i frutti e gli interessi, fin dall’inizio, da parte di entrambi i contraenti, indipendentemente dallo stato soggettivo e dall’imputabilità dell’inadempimento[95].

Tutto quanto finora detto è racchiuso nel principio secondo cui la disciplina di cui agli artt. 2033 ss. c.c. si applica alle restituzioni contrattuali, ma solo nella misura e nel limite in cui essa sia compatibile con le medesime e con le relative peculiarità, trattandosi di reciproche restituzioni e non di mere prestazioni isolate[96].

7. Osservazioni conclusive. Postilla.

Il caso della risoluzione per inadempimento dei contratti di investimento ha imposto un ripensamento ad ampio raggio del tema delle restituzioni contrattuali: tema più volte frequentato dai giudici di legittimità, tuttavia senza mai addivenire ad una sistematicità dei risultati raggiunti.

Dall’esame analitico della prassi giurisprudenziale emerge, infatti, un quadro frastagliato delle soluzioni effettivamente adottate. Per un verso, si è constatato come molti precedenti in materia di risoluzione per inadempimento siano caratterizzati da uno scarto tra i principi di diritto riportati nelle massime – per i quali all’attivazione di un rimedio demolitorio consegue, di regola, l’attivazione della tutela restitutoria, governata dalle norme sull’indebito – e le soluzioni fornite dai giudici alle singole questioni applicative affrontate, spesso caratterizzate da una totale disapplicazione di tale regime. Per altro verso, nei casi di risoluzione dei contratti di investimento, rispetto ai quali la Corte ha, invece, per lungo tempo seguito un orientamento lineare e coerente con l’impostazione tradizionale del tema delle restituzioni contrattuali, la prassi applicativa ha evidenziato come l’applicazione tout court della disciplina dell’indebito possa rivelarsi problematica.

Tale presa di coscienza è alla base del revirement operato dalla Suprema Corte nella sentenza in commento, che segna l’abbandono dell’idea secondo cui le restituzioni contrattuali costituiscono un’ipotesi particolare di indebito oggettivo in favore della tesi, già seguita da parte della dottrina, secondo cui dette restituzioni presentano peculiarità proprie di cui non si può non tener conto nel momento in cui si tratta di individuare la relativa disciplina.

L’indirizzo inaugurato dal Collegio interessa non soltanto per la sua novità, ma anche per la presenza di un apparato dottrinale capace di giustificare l’inedita impostazione del problema delle restituzioni contrattuali. In particolare, è significativa l’adesione alla teoria della retroattività in senso debole, alla luce della quale risulta possibile non far dipendere la determinazione del dies a quo dell’obbligo di corrispondere frutti e interessi dallo stato soggettivo di buona o mala fede dell’accipiens senza affrancarsi completamente dalla disciplina dell’indebito[97].

Dunque, anche nel nuovo orientamento giurisprudenziale l’istituto del pagamento dell’indebito è quello cui guardare in prima istanza ove si tratti di disciplinare le restituzioni contrattuali, atteso che le norme che regolano i rimedi demolitori vi si richiamano talora espressamente (come nel caso della nullità o della risoluzione per impossibilità sopravvenuta), talora implicitamente (come nel caso della risoluzione per inadempimento).

Si ammette, però che, nel momento in cui viene utilizzata a questo fine, la disciplina dell’indebito non possa sempre essere applicata in modo letterale, ma richieda, talora, degli adattamenti finalizzati a far sì che, anche nella fase post-contrattuale, siano rispettati i due principi cardine della tutela restitutoria, che sono il principio della rimessione in pristino e il divieto di ingiustificati arricchimenti. Si è visto, infatti, che l’applicazione de plano delle regole dettate dall’art. 2033 c.c. non sempre consente di raggiungere tale risultato; e ciò si deve al fatto che la disciplina dell’indebito è stata concepita con riferimento all’ipotesi di isolate prestazioni non dovute e non con riferimento ad uno scambio di prestazioni. Il rispetto dei principi cardine della tutela restitutoria, riconducibili a specifiche norme dell’ordinamento, segna, dunque, il limite e la misura in cui la disciplina dell’indebito può essere disapplicata. La possibilità di introdurre deroghe alla disciplina dell’indebito non è dunque generalizzata, ma soggetta a specifiche e stringenti condizioni. Così circoscritto, il canone della Corte risulta sistematicamente coerente.

La possibilità di disapplicare, sia pur parzialmente, le regole poste dall’art. 2033 c.c. mette in discussione il carattere monolitico dell’indebito oggettivo, segnando un decisivo cambiamento di prospettiva nel modo di pensare alla disciplina dell’istituto: un regime che, anziché rispondere ad una logica autonoma, può essere modulato in ragione dello specifico contesto di utilizzo. Ciò consente di pensare alle restituzioni contrattuali come parte del rimedio che ne costituisce l’antecedente logico. Ci si avvicina, così, ad una prospettiva rimediale, nel senso più proprio del termine, ossia quello per cui il rimedio è espressione di una regola di flessibilità del contratto, diretta a «ricomporre l’ordine contrattuale, sia in senso positivo che negativo e cioè sia nel senso di recuperarne gli effetti […] come di evitare che il contratto dissolto lasci sul campo arricchimenti ingiustificati»[98].

Infine, i principi affermati dalla Corte sono di fondamentale importanza anche perché appaiono applicabili anche ai casi in cui si discuta di ripetizione di prestazioni indebite in quanto ab origine prive di causa per effetto della nullità del contratto[99]. Ed allora non si può non accennare, in chiusura al presente lavoro, al problema che può profilarsi a mente del diverso regime restitutorio già da tempo prospettato dalle Sezioni Unite della Corte per l’ipotesi del contratto di investimento nullo. Si tratta, infatti, di un regime restitutorio unilaterale, che confligge con il canone enucleato nella pronuncia in commento poiché esclude in radice la possibilità per l’intermediario di agire per la ripetizione dell’indebito[100]. Il contrasto tra i due orientamenti giurisprudenziali comporta evidenti criticità: non solo rimedi demolitori che comportano entrambi la caducazione del contratto con effetto ex tunc sarebbero diversamente disciplinati in punto di restituzioni, ma, addirittura, alla nullità del contratto di investimento sarebbero riconducibili due regimi restitutori sensibilmente diversi tra loro. Ulteriori valutazioni nel merito del problema richiederebbero considerazioni di portata tale da rendere inevitabile il rinvio alla riflessione futura. Appare, però, fin d’ora evidente che, grazie agli approdi raggiunti dalla Suprema Corte nelle pronunce esaminate, il dibattito in materia di restituzioni contrattuali conoscerà ulteriori e significativi sviluppi.

 

[1] Cass., 18 febbraio 2025, n. 4133, in www.dirittobancario.it.

[2] App. Ancona, 21 giugno 2019, n. 1043, in DeJure.

[3] Cass., 8 gennaio 2025, n. 423, in DeJure.

[4] Cfr. Cass., 8 gennaio, 2025, cit., § 7; Cass., 18 febbraio 2025, cit., § 3.4.

[5] Cass., 20 giugno 2023, n. 17572, in DeJure, cui la sentenza in commento fa espresso richiamo al § 3.2.

[6] Cfr. Cass., 18 febbraio 2025, cit., § 3.4.

[7] E. Bargelli, Sinallagma rovesciato e ripetizione dell’indebito. L’impossibilità della restitutio in integrum nella prassi giurisprudenziale, in Riv. dir. civ., 2008, I, 87.

[8] Si tratta, anzitutto, degli artt. 1445, 1458 e 1452 c.c., che regolano gli effetti, rispettivamente, dell’annullamento, della risoluzione per inadempimento e della rescissione del contratto nei confronti dei terzi; a tali disposizioni si aggiungono l’art. 1360 c.c. e l’art. 1458, co. 1, c.c., che prevedono la retroattività dell’operare della condizione e della risoluzione per inadempimento nei contratti ad esecuzione istantanea o differita, nonché la regola contraria in quelli ad esecuzione continuata o periodica. Infine, l’art. 1422 c.c., in tema di nullità, e l’art. 1463 c.c., in tema di risoluzione per impossibilità sopravvenuta, contengono un espresso richiamo alla disciplina della ripetizione dell’indebito.

[9] È il caso degli artt. 1479, co. 2, 1492 e 1493 c.c. (compravendita), 1590 c.c. (locazione), 1671 e 1672 c.c. (appalto), 1751 c.c. (agenzia), 1774 c.c. (deposito), 1809 c.c. (comodato), 1892, co. 3, c.c. (assicurazione), 2126 c.c. (contratto di lavoro subordinato), 2231 c.c. (contratto d’opera professionale) e 807 c.c. (donazione).

[10] E. Bargelli, Sinallagma rovesciato, cit., 88. Cfr. anche Cass., ord., 8 gennaio 2025, cit., § 8.

[11] Cfr. E. Bargelli, op. loc. ult. cit.; M. Dellacasa, Restituzioni e regime dei rimedi contrattuali: un’analisi critica del diritto applicato, in Contr. Impr., 2018, 1121.

[12] E. Bargelli, Il sinallagma rovesciato, Milano, 2010, 128.

[13] E. Moscati, Del pagamento dell’indebito, sub artt. 2028-2042, in Comm. c.c. Scialoja Branca, Libro Quarto, Delle Obbligazioni, Bologna-Roma, 1982, 119.

[14] E. Bargelli, Il sinallagma rovesciato, cit., 138.

[15] E. Bargelli, Sinallagma rovesciato, cit., 89; Ead., Il sinallagma rovesciato, cit., 138, ove ulteriori riferimenti.

[16] Cass., 8 gennaio 2025, cit., § 8. In dottrina v., E. Moscati, Caducazione degli effetti del contratto e pretese di restituzioni, in Riv. dir. civ., 2007, I, 441, 444; A. Di Majo, Il regime delle restituzioni contrattuali nel diritto comparato ed europeo, in Eur. dir. priv., 2001, 531 ss.

[17] Si v. U. Breccia, La ripetizione dell’indebito, Milano, 1974, 229.

[18] Cfr. A. Belfiore, Risoluzione per inadempimento e obbligazioni restitutorie, in Scritti in onore di Giuseppe Auletta, II, Milano, 1988, 247; E. Moscati, Del pagamento dell’indebito, cit., 146.

[19] Si v. E. Moscati, Caducazione degli effetti del contratto, cit., 438, 444. Per un’analisi del modello delle restituzioni nel code civil riformato, v. G. Terlizzi, Le restituzioni nel diritto francese, in Le restituzioni contrattuali, P. Gallo e G. Magri (a cura di), Torino, 2024, 165 ss.

[20] A. Di Majo, Il regime delle restituzioni contrattuali, cit., 543; E. Moscati, Caducazione degli effetti del contratto, cit., 438-439.

[21] La letteratura in materia è vastissima; basti qui citare P. Rescigno, voce Ripetizione dell’indebito, in Novissimo Dig., XV, Torino, 1968, 1223 ss.; U. Breccia, La ripetizione dell’indebito, cit., 243 ss.; Id., voce Indebito (ripetizione dell’), in Enc. Giur., XVI, Roma, 1989, n. 2.2., 4; E. Moscati, Del pagamento dell’indebito, cit., 137 ss.; Id., Caducazione degli effetti del contratto, cit., 435 ss.; E. Bargelli, Il sinallagma rovesciato, cit., 141, nt. 52, ove ulteriori riferimenti.

[22] Si v., ex multis: Cass. 15 gennaio 2018, n. 715, in DeJure; Cass. 6 giugno 2017, n. 14013, ivi; Cass. 7 febbraio 2011, n. 2956, ivi; Cass. 15 aprile 2010, n. 9052, ivi.

[23] E. Moscati, Caducazione degli effetti del contratto, cit., 444 ss.

[24] Nella disciplina del pagamento dell’indebito buona e mala fede sono impiegate non solo per stabilire la decorrenza dell’obbligo di corrispondere frutti e interessi (art. 2033), ma anche per definire l’obbligo restitutorio in caso di perimento o deterioramento della cosa ricevuta indebitamente (art. 2037) e per tracciare le conseguenze giuridiche che si determinano in caso di alienazione della stessa (art. 2038).

[25] Si v. L. Guerrini, Le restituzioni contrattuali, Torino, 2012, 12 ss.; A. Di Majo, La tutela civile dei diritti, Milano, 2003, 349; Id., Restituzioni e responsabilità nelle obbligazioni e nei contratti, in Riv. critica dir. priv., 1994, 309 ss.; A. D’Adda, Gli obblighi conseguenti alla pronuncia di risoluzione del contratto per inadempimento tra restituzioni e risarcimento, in Riv. dir. civ., 2000, II, 537 ss.

[26] E. Bargelli, Il sinallagma rovesciato, cit., 151 ss.

[27] A. Di Majo, Restituzioni e responsabilità, cit., 291 ss.; Id., Il regime delle restituzioni contrattuali, cit., 546 ss.

[28] Cfr. E. Bargelli, Il sinallagma rovesciato, cit., 147-148; P. Gallo e G. Magri (a cura di), Le restituzioni contrattuali, cit., passim.

[29] P. Rescigno, op. cit., 1224-1228; U. Breccia, La ripetizione dell’indebito, cit., 39 ss., 229-245; S. Delle Monache, Il negozio immorale tra negazione dei rimedi restitutori e tutela proprietaria, Padova, 1997, 119; C. Castronovo, La risoluzione del contratto dalla prospettiva del diritto italiano, in Eur. dir. priv., 1999, 809 ss.; A. D’Adda, op. cit., 529 ss.; V. Roppo, Il contratto, Milano, 2001, 949; E. Moscati, Caducazione degli effetti del contratto, cit., 435 ss., 441, 476; E. Bargelli, Sinallagma rovesciato, cit., 87 ss., 101; Ead., Il sinallagma rovesciato, cit., 137, 145, 271, 472; R. Sacco e G. De Nova, Il contratto, 3a ed., Torino, 2004, II, 671; R. Omodei-Salè, Il rischio del perimento fortuito nella vendita di cosa viziata, Padova, 2004, 68, 73 ss.

[30] G. Stolfi, Teoria del negozio giuridico, Padova, 1961, 71; P. Barcellona, Note critiche in tema di rapporti fra negozio e giusta causa dell’attribuzione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1965, 11 ss.; A. M. Bruni, Contributo allo studio dei rapporti tra azione di caducazione contrattuale e ripetizione dell’indebito, in Riv. trim dir. proc. civ., 1987, 173; P. Gallo, L’arricchimento senza causa, Padova, 1990, 225-362; A. Di Majo, Restituzioni e responsabilità, cit., 291; Id., Il regime delle restituzioni contrattuali, cit., 531; Id., La tutela civile dei diritti, cit., 351; M. Dellacasa, op. cit., 1120 ss.; A. Nicolussi, Le restituzioni de iure condendo, in Eur. dir. priv., 2012; L. Guerrini, op. cit., 23 ss.

[31] Si v. C. Argiroffi, Ripetizione di cosa determinata e acquisto a domino della proprietà, Milano, 1980, 147 ss., nonché A. Luminoso, Risoluzione per inadempimento, sub artt. 1453-1454, in Comm. c.c. Scialoja Branca, Libro IV, Delle Obbligazioni, Bologna-Roma, 1990, 167 ss., 204 ss., 234 ss., 405 ss., il quale ritiene che tale disciplina non debba applicarsi alle restituzioni conseguenti alla risoluzione del contratto.

[32] Cass., 21 ottobre 2011, n. 21917, in DeJure; Cass., 15 ottobre 2007, n. 21587, in Vita notar., 2008, 121; Cass., 2 agosto 2006, n. 17558, in Rep. Foro it., 2006, Contratto in genere, n. 626.

[33] Cass., 16 marzo 2017, n. 6844, in Notariato, 2017, 272; Cass., 5 novembre 2015, n. 22664, in DeJure; Cass., 18 settembre 2014, n. 19654, ivi.

[34] M. Dellacasa, op. cit., 1148.

[35] Si v., in particolare, Cass., 30 gennaio 2019, n. 2661, in DeJure; tale indirizzo, già enunciato con riguardo all’azione di nullità da Cass., 16 marzo 2018, n. 6664, ivi, è stato successivamente ripreso da Cass., 27 agosto 2020, n. 17948, ivi.

[36] Si v. supra, § 2, nt. 24.

[37] Cass., 30 gennaio 2019, cit., § 7.2.

[38] Si v. anche Cass., 20 marzo 2018, n. 6911, in DeJure e Cass., 14 settembre 2004, ivi.

[39] Cass. 16 marzo 2018, cit., § 6.3, ove ulteriori richiami in giurisprudenza.

[40] Recita l’art. 2033 c.c. che «chi ha eseguito un pagamento non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha pagato».

[41] Cass. Sez. Un., 9 marzo 2009, cit.

[42] Cfr. Cass., 30 gennaio 2019, cit., § 7.2, nonché, con riguardo all’azione di nullità ex art. 23 t.u.f., già Cass., 16 marzo 2018, cit. § 6.3.

[43] Cfr. Cass., 30 gennaio 2019, cit., § 7.2; Cass., 16 marzo 2018, cit., § 6.3.

[44] Cass., 30 gennaio 2019, cit., § 7.2; Cass., 27 agosto 2020, cit., § 3; conformi: Cass., 16 marzo 2018, cit., § 6.3; Cass. 20 marzo 2018, n. 6911, in DeJure; nonché Cass. 14 settembre 2004, n. 18518, ivi. In dottrina, M. Maggiolo, Servizi e attività di investimento. Prestatori e prestazione, in Tratt. Cicu-Messineo, Milano, 2012, 510.

[45] Si tratta dell’indirizzo espresso per la prima volta da Cass., 20 giugno 2023, cit., §§ 8-8.2.3.

[46] Invero, l’espressione «sinallagma rovesciato», discendente dalla locuzione «contrat synallagmatique renversé» o «contrat à l’enverse», è stata impiegata per evidenziare la peculiarità delle questioni che l’istituto della ripetizione dell’indebito pone quando interagisce con tale tipologia contrattuale: v. E. Bargelli, Sinallagma rovesciato, cit., 101.

[47] Cass., 8 gennaio 2025, cit., § 13; Cass. 7 maggio 2024, n. 12362, in DeJure; Cass. 26 ottobre 2020, n. 23448, ivi.

[48] M. Libertini, voce Interessi, in Enc. Dir., XXII, Milano, 1972, 115. Di simile avviso è E. Moscati, Del pagamento dell’indebito, cit., 117, per il quale deve ritenersi in mala fede l’accipiens cui sia imputabile il fatto che ha dato luogo allo scioglimento del vincolo.

[49] Cass., 8 gennaio 2025, cit., § 14. Così, in dottrina, C. Castronovo, op. cit., 807 ss.; A. di Majo, Il regime delle restituzioni, cit., 548; A. Luminoso, Obbligazioni restitutorie e risarcimento del danno nella risoluzione, in Giur. comm., 1990, I, 35.

[50] C. Castronovo, op. cit., 807-809.

[51] Il fatto che la buona fede sia soggettiva implica che essa è presunta, e che, quindi, chi invoca la mala fede altrui deve provarla: tale prova deve avere per oggetto la consapevolezza, da parte dell’accipiens, del fatto che il pagamento non era dovuto oppure una sua colpa grave nell’esserne inconsapevole.

[52] Cfr. Cass., 18 febbraio 2025, cit., § 3.4; Cass., 8 gennaio 2025, cit., § 15. In dottrina cfr. E. Bargelli, Il sinallagma rovesciato, cit., 152, e C. Castronovo, op. cit., spec. 810-812, per il quale il criterio che fa leva sulla distinzione tra non conoscenza e conoscenza dell’obbligo di restituire, adottato dall’art. 2038 c.c. per regolare la fattispecie dell’alienazione della cosa ricevuta indebitamente, è l’unico al quale si può fare capo per disciplinare le restituzioni da risoluzione.

[53] M. Maggiolo, op. cit., 514.

[54] Cass., 8 gennaio 2025, cit., § 15, ove si porta l’esempio del mutuo oneroso, rispetto al quale è escluso che, a fronte dell’intercorsa risoluzione, il mutuante sia esonerato, in quanto in buona fede al momento del pagamento, dal restituire gli interessi ricevuti prima della proposizione della domanda.

[55] In base a Cass., Sez. Un., 13 giugno 2019, n. 15895, in DeJure, l’espressione «dal giorno della domanda», contenuta nell’art. 2033 c.c., comprende anche gli atti stragiudiziali aventi valore di costituzione in mora ex art. 1219 c.c.: è, infatti, incontestabile che l’accipiens acquisti consapevolezza dell’obbligo di restituzione fin dal momento in cui il solvens gliene faccia richiesta stragiudiziale.

[56] Cass., 8 gennaio 2025, cit., § 16.

[57] L’indirizzo inaugurato si è consolidato in numerose pronunce successive: oltre a Cass., 18 febbraio 2025, cit., si v. Cass., 14 febbraio 2025, n. 3762, in DeJure; Cass., 29 aprile 2025, n. 11239, ivi; Cass., 22 ottobre 2025, n. 28215, ivi; Cass., 3 novembre 2025, n. 29023, ivi; nonché, in tema di nullità del contratto di investimento, Cass., 22 gennaio 2025, n. 1614, ivi; Cass., 14 febbraio 2025, n. 3761, ivi.

[58] Cass., 8 gennaio 2025, cit., § 12: «per le prestazioni contrattuali, quale che sia la qualificazione giuridica di ciò che ne costituisce oggetto (e quindi anche se si tratti di frutti o interessi contrattualmente dovuti), opera di regola […] l’obbligo restitutorio discendente dall’effetto retroattivo della risoluzione».

[59] Cfr. Cass., 8 gennaio 2025, cit., § 12; Cass., 14 febbraio 2025, n. 3761, cit., § 4.1.3; Cass., 14 febbraio 2025, n. 3762, cit., § 5.1.

[60] Si v. Cass, 8 gennaio 2025, cit., § 20.

[61] Stessa cosa vale nel caso di nullità del contratto di investimento, in base a quanto riferito da Cass., 22 gennaio 2025, cit., e da Cass., 14 febbraio 2025, n. 3761, cit., § 4.1.4.

[62] Cfr. Cass., 8 gennaio 2025, cit., § 12 e Cass., 29 aprile 2025, cit., § 7.

[63] Cfr. Cass., 18 febbraio 2025, cit., § 3.4, ove si riporta il seguente principio di diritto: «In caso di risoluzione del contratto per inadempimento, la regola posta dall’art. 2033 c.c. in tema di ripetizione dell’indebito quanto alla spettanza di frutti e interessi non riguarda i frutti e gli interessi previsti dal contratto, che, ove recepiti, costituiscono attribuzioni patrimoniali integralmente passibili di restituzione in ragione della retroattività della risoluzione prevista dall’art. 1458 c.c., ma i frutti e gli interessi che maturano per legge in relazione al bene o alla somma di denaro oggetto di ripetizione».

[64] Cfr. Cass., 8 gennaio 2025, cit., §12.

[65] Cass., 8 gennaio 2025, cit., §12.

[66] Simili considerazioni si rinvengono in E. Bargelli, Il sinallagma rovesciato, cit., 176-180.

[67] M. Maggiolo, op. cit., 514.

[68] M. Maggiolo, op. cit., 515.

[69] Cass., 18 febbraio 2025, cit., § 3.3.

[70] L’ipotesi è già stata avanzata in dottrina: cfr. M. Dellacasa, op. cit., 1123-1124; E. Bargelli, Il sinallagma rovesciato, cit., 419 ss. e 449 ss., e L. Guerrini, op. cit., 74 ss. e 161 ss.

[71] Cass., 18 febbraio 2025, § 3.3.: «se il contratto cade, la regola è quella delle reciproche restituzioni sulla base delle stesse nozioni di nullità, annullabilità, risoluzione, rescissione o condizione, le quali comportano l’inefficacia ex tunc, occorrendo dunque in questa prospettiva evitare un’applicazione letterale e asistematica della disciplina sul pagamento indebito».

[72] Tale passaggio è indicato chiaramente in Cass., 8 gennaio 2025, cit., § 9, da cui si cita. Che il fulcro del problema delle restituzioni sia dato proprio dall’interazione tra il carattere retroattivo della risoluzione e la disciplina dell’indebito emerge anche dalle considerazioni di G. Amadio, La fattispecie risolutoria, in Lezioni di diritto civile, Torino, 2024, 63 ss.; v. anche Id., La risoluzione per inadempimento: considerazioni generali, in V. Roppo, Tratt. del contratto, V, Rimedi – 2, Milano, 2022, 13.

[73] Cfr. Cass., 8 gennaio 2025, cit., § 9.

[74] Cfr. A. Belfiore, voce Risoluzione del contratto per inadempimento, in Enc. Dir., XL, Milano, 1989, 1328, nonché Id., Risoluzione per inadempimento e obbligazioni restitutorie, in Scritti in onore di Giuseppe Auletta, II, Milano, 1988, 243 ss.

[75] A. Belfiore, voce Risoluzione del contratto per inadempimento, cit., 1328.

[76] Si v. A. Belfiore, Risoluzione per inadempimento, cit., 276 ss.

[77] È la tesi più seguita in dottrina: si v. M. Libertini, op. cit., 115; R. Sacco, Il contratto, in Tratt. Vassalli, VI, t. 2, Milano, 1975, 944 ss.; E. Moscati, Pagamento dell’indebito, cit., 117 nt. 43, 118 ss.; U. Breccia, Il pagamento dell’indebito, in Tratt. Rescigno, Obbligazioni e contratti, IX, t. 1, Torino, 1984, 774 ss.; A.M. Bruni, op. cit., 182 ss.

[78] E. Bargelli, Il sinallagma rovesciato, cit., 340.

[79] E. Roppo, Il contratto, cit., 949; R. Sacco e G. De Nova, Il contratto, cit., 669.

[80] Cfr. A. Belfiore, Risoluzione per inadempimento e obbligazioni restitutorie, cit., 246.

[81] Cfr. Cass. 20 marzo 2018, n. 6911; Cass. 14 settembre 2004, n. 18518; Cass. 27 ottobre 2008 n. 25847; Cass. 2 agosto 2006, n. 17558, ove si è affermato che, se l’obbligo restitutorio ha per oggetto somme di denaro, l’accipiens è tenuto a restituirle assieme agli interessi calcolati dal giorno della domanda di risoluzione, salvo che fosse in mala fede.

[82] Così, in tema di compravendita: Cass. 16 marzo 2017, n. 6844, in DeJure; Cass. 5 novembre 2015, n. 22664ivi; Cass. 19 ottobre 2015, n. 21120, ivi; Cass. 18 settembre 2014, n. 19659, ivi; Cass. 22 febbraio 2008, n. 4604, ivi.

[83] Cass., 8 gennaio 2025, cit., § 11.

[84] Cfr. E. Bargelli, Il sinallagma rovesciato, cit., 357-358.

[85] Non avrebbe senso immaginare che la risoluzione per inadempimento e quella per impossibilità sopravvenuta siano diversamente governate quanto agli obblighi restitutori, tanto più che l’art. 1458 c.c. implicitamente li configura allorché prevede che la risoluzione abbia, di regola, effetto retroattivo tra le parti, effetto da cui discende il venir meno dell’attribuzione patrimoniale e, quindi, il delinearsi del “pagamento non dovuto” di cui all’art. 2033 c.c.: cfr. Cass., 8 gennaio 2025, cit., §§ 8 e 11, nonché Cass. 18 febbraio 2025, cit., § 3.3.

[86] Cfr. Cass., 18 febbraio 2025, cit., § 3.4; Cass., 8 gennaio 2025, cit., § 19.

[87] Cfr. Cass., 8 gennaio 2025, cit., § 12: «Il coordinamento tra l’art. 1458 c.c. e l’art. 2033 c.c. impone, allora, una prima conclusione. Per le prestazioni contrattuali, qualunque sia la qualificazione giuridica di ciò che ne costituisce oggetto […], opera, di regola, l’obbligo restitutorio discendente dall’effetto retroattivo della risoluzione».

[88] Cass., 8 gennaio 2025, cit., § 17.

[89] L’inserimento dell’istituto nella categoria dei quasi-contratti nel codice previgente si spiegava in ragione del fatto che la formula del quasi-contratto sottendeva il principio dell’equivalenza dei sacrifici per le sfere patrimoniali implicate nello spostamento di beni: cfr. P. Rescigno, op. cit., 1225.

[90] Cass., 18 febbraio 2025, cit., §§ 3.3 e 3.4, nonché Cass., 8 gennaio 2025, cit., § 19. Tale principio è sostenuto altresì dalla previsione di cui all’art. 1499 c.c., dalla quale si ricava l’argomento secondo cui, salvo diversa pattuizione, un contraente non può godere, per lo stesso arco di tempo, dei frutti del bene dedotto in contratto e degli interessi sulla somma corrisposta per conseguirlo.

[91] Si tratta della soluzione già prospettata in dottrina da C. Castronovo, op. cit., 809 ss. A. Luminoso, op. cit., 503; A. Belfiore, Risoluzione per inadempimento e obbligazioni restitutorie, cit., 330; E. Bargelli, Il sinallagma rovesciato, cit., 406 ss.; D. Carusi, Le obbligazioni nascenti dalla legge, Napoli, 2005, 192 ss.; G. Villa, Danno e risarcimento contrattuale, 950 ss.; M. Dellacasa e F. Addis, Inattuazione e risoluzione: i rimedi, 385; M. Dellacasa, op. cit., 1148, per il quale tale soluzione è coerente con l’efficacia retroattiva tra le parti che accomuna sia i rimedi che reagiscono a un vizio genetico del contratto, sia la risoluzione per inadempimento, ove le restituzioni concorrono con il risarcimento del danno a proteggere l’interesse positivo del contraente deluso e, dunque, tendono a evitare che questi venga a trovarsi in una situazione deteriore rispetto a quella che si sarebbe verificata qualora il contratto fosse stato esattamente eseguito.

[92] L’esclusione del diritto delle parti di conseguire profitti ingiustificati in ragione della caducazione del contratto si ricava anche da Cass., 12 febbraio 2019, n. 3971, in DeJure, nonché, da ultimo, Cass., 16 dicembre 2024, n. 32696, ivi: va infatti letta in tal senso l’affermazione secondo cui, in caso di nullità del contratto di locazione, ciascuna delle parti ha diritto di ripetere la prestazione eseguita, ma chi abbia già usufruito del godimento della res non può ottenere la restituzione di quanto versato a titolo di corrispettivo per tale godimento.

[93] E. Bargelli, Il sinallagma rovesciato, cit., 360-361.

[94] Cfr. Cass., 18 febbraio 2025, cit., § 3.3. In dottrina, si v. E. Bargelli, Il sinallagma rovesciato, cit., 407, spec. nt. 225, ove ulteriori riferimenti.

[95] Cfr. E. Bargelli, Il sinallagma rovesciato, cit., 408-409.

[96] Cass., 18 febbraio 2025, cit., § 3.3: «In sintesi, pertanto, nelle ipotesi di caducazione del negozio la disciplina del pagamento dell’indebito si applica […], ma il rinvio può essere in via interpretativa inteso come “in quanto compatibile”, trattandosi di reciproche restituzioni e non di mere prestazioni isolate».

[97] Anche la teoria della retroattività forte ha quale corollario un regime restitutorio che implica l’integrale restituzione non solo delle prestazioni eseguite in forza del contratto, ma anche dei frutti e degli interessi maturati in seguito alla solutio fin dal giorno del pagamento. In questo caso, però, ciò dipende dal totale affrancamento dalla disciplina dell’indebito che tale teoria predica; aspetto che, tuttavia, non collima con la disciplina positiva della risoluzione per inadempimento, come illustrato sopra al par. 6. Associa la soluzione della restituzione bilaterale ed integrale dei frutti e degli interessi, fin dall’origine, alla prospettiva della retroattività forte A. Belfiore, Risoluzione per inadempimento e obbligazioni restitutorie, cit., 261 ss.

[98] A. Di Majo, Il regime delle restituzioni contrattuali, cit., 534.

[99] Cfr. Cass., 22 gennaio 2025, cit., nonché da Cass., 14 febbraio 2025, cit., § 4.1.2.

[100] Cass., Sez. Un., 4 novembre 2019, n. 28314, in Foro it., 2020, 3, I, c. 934, ove la Corte ha affermato che il carattere relativo e protettivo della nullità in parola deve riflettersi in un altrettanto relativo rimedio restitutorio, nel senso che solo il cliente e non l’intermediario sarebbe legittimato ad attivarlo. Tale soluzione ha riscosso forti critiche in dottrina: si v. A. Dalmartello, Conseguenze del giudizio di vessatorietà. Dalla post-vessatorietà alla condictio indebiti di protezione, in questa Rivista, 2023, ; Id., La nullità di protezione ex art. 23 t.u.f. tra uso selettivo e buona fede del cliente, in Nuova giur. comm., 2020, II, 32 ss.; S. Monticelli, La nullità selettiva secondo il canone delle Sezioni Unite: un responso fuori partitura, ivi, II, 163 ss.; M. Maggiolo, op. cit., 510; G. Passagnoli, Analisi di un falso principio: nullità speciali e restituzione unilaterale, in Persona e mercato, 2021, 262 ss.; nonché, volendo, F. Corletto, Il problema della «nullità selettiva» tra fattispecie contrattuale e sistema delle invalidità negoziali, in Nuova giur. comm., 2024, II, 943 ss.

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