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Approfondimenti

Gli investimenti tramite club deal: un modello in evoluzione

11 Dicembre 2025

Pietro Zanoni, Partner, ADVANT Nctm

Emidio Cacciapuoti, Partner, ADVANT Nctm

Manfredi Luongo, Partner, ADVANT Nctm

Di cosa si parla in questo articolo
M&A

Il presente contributo analizza il tema delle operazioni di investimento tramite club deal, con cui alcuni investitori (il club) si aggregano per investire in un operazione (deal), soffermandosi sui diversi profili societari, fiscali e regolamentari che ne definisco la strutturazione.


1. Il Club Deal: struttura, contratti, forma societaria

Ai fini del presente contributo, la locuzione “club deal” è impiegata in senso volutamente restrittivo per designare quella specifica tipologia di operazione in cui un numero limitato di investitori (il club) sceglie di aggregarsi per apportare congiuntamente il capitale di rischio necessario alla realizzazione di un singolo deal, tipicamente consistente nell’acquisizione di una quota di partecipazione al capitale sociale di una singola società target già individuata.[1] La partecipazione a un investimento collettivo di dimensioni maggiori consente ai singoli investitori (che chiameremo partecipanti) non solo di accedere a operazioni di maggior rilievo, ma anche di distribuire e, quindi, attenuare il profilo di rischio dell’investimento.

La costituzione di un club deal si articola, di regola, attraverso una sequenza di passaggi funzionali al coordinamento degli investitori e alla strutturazione dell’operazione di investimento. Una volta individuata la potenziale società target, i partecipanti procedono tipicamente alla creazione di uno special-purpose investment vehicle, generalmente in forma di società per azioni o di società a responsabilità limitata. Tale veicolo è capitalizzato dai partecipanti, così da dotarlo, in tutto o in parte[2], delle risorse finanziarie necessarie per procedere all’acquisizione della società target e consentirgli di operare quale centro organizzativo e giuridico del club deal.

Tipicamente, i documenti che regolano un club deal comprendono: (i) un accordo di co-investimento volto a disciplinare i termini e le condizioni di apporto di capitali di rischio da parte dei partecipanti; e (ii) i patti sociali (cioè contenuti nello statuto dello special-purpose investment vehicle) e parasociali (cioè contenuti in una scrittura privata) che costituiscono l’insieme delle regole che i partecipanti si danno per disciplinare i vari aspetti del loro rapporto (i.e., corporate governance, diritti patrimoniali, vincoli al trasferimento delle partecipazioni ed exit strategy).

Pur mantenendo questo inquadramento contrattuale, va sottolineato che le pattuizioni tipiche di un club deal sono in continua evoluzione: a oggi non esistono standard definiti come nel settore del private equity, né modelli uniformi di riferimento riguardo al contenuto degli accordi. Ciò nonostante, è possibile individuare alcune direttrici che, in via generale, dovrebbero orientare la disciplina giuridica della costituzione e del funzionamento di un club deal.

Prima di esaminare le principali pattuizioni di governance che regolano tipicamente un club deal, è utile soffermarsi brevemente sulla scelta della forma societaria dello special-purpose investment vehicle, concentrandosi sulle due opzioni più frequenti: la società per azioni e la società a responsabilità limitata.

Oltre alla nota differenza in materia di durata dei patti parasociali — cinque anni per le società per azioni[3] rinnovabili a scadenza e a tempo indeterminato ma con diritto di recesso di ciascun socio paciscente con un preavviso di 180 giorni[4] — la scelta della forma societaria dipende da diversi fattori.

In primo luogo, è evidente come assumano particolare rilievo le considerazioni relative a un futuro evento di exit: i club deal non sono, generalmente, pensati come permanet investors, ma come investimenti di medio o lungo periodo. Se tra le opzioni di disinvestimento si include una possibile quotazione, la società per azioni consente di procedere direttamente, evitando la trasformazione che sarebbe necessaria con una società a responsabilità limitata.

La scelta della forma societaria influenza anche la gestione di eventi straordinari o che possano comunque incidere sull’equilibrio della compagine sociale, come il caso in cui un partecipante diventi inadempiente a taluni obblighi che ha specificatamente assunto o decida di “uscire” dal club. In questo contesto, la società per azioni offre strumenti più flessibili, come l’acquisto di azioni proprie da parte della società stessa, nel rispetto degli articoli 2357 e ss.[5] del codice civile, che possono essere combinati con meccanismi statutari, quali il riscatto delle azioni, garantendo così una protezione reale e più efficace delle partecipazioni e dei diritti dei soci rimanenti.

Infine, nella società per azioni, la normativa vigente consente l’emissione di strumenti finanziari partecipativi, obbligazioni convertibili e strumenti ibridi, che rappresentano strumenti molto flessibili anche per la strutturazione di eventuali piani di incentivazione o per “disciplinare” eventuali apporti dei soci; al contrario, nella società a responsabilità limitata, l’emissione di strumenti finanziari di natura partecipativa o ibrida è più circoscritta e soggetta a limiti normativi analizzati anche dalla dottrina[6].

2. La governance e diritti patrimoniali

Per provare a delineare le tipiche pattuizioni di governance di un club deal, è innanzitutto necessario chiarire la logica dell’investimento e i ruoli dei singoli partecipanti all’operazione.

Nella vita di un club deal, pur essendo tutti i partecipanti chiamati a contribuire con le proprie relazioni e capacità professionali, la condivisione dell’investimento e delle competenze non esclude una differenziazione dei ruoli nella gestione del club. È così possibile distinguere, da un lato, una categoria di partecipanti “operativi”, i quali — oltre a fornire capitale di rischio — assumono ruoli gestionali, sia nella attività quotidiana del club sia, in taluni casi, nella gestione della società target, interfacciandosi direttamente con il management o con eventuali soci di minoranza. Dall’altro lato, vi sono i partecipanti “finanziari”, che contribuiscono con capitali di rischio e con competenze o relazioni strategiche, ma non partecipano alla gestione corrente e operativa del club. Ciò nonostante — diversamente da quanto accade in altre strutture — i partecipanti “finanziari” mantengono generalmente un diritto di “voice” e possono scegliere se — e in quale misura — aderire alle diverse opportunità di investimento proposte.

La governance del club deal deve dunque ricercare un equilibrio tra esigenze potenzialmente concorrenti: da un lato, assicurare ai partecipanti “operativi” gli strumenti necessari per un’efficace gestione operativa; dall’altro, evitare che la concentrazione dei poteri in capo a questi ultimi possa pregiudicare la tutela dell’investimento dei partecipanti “finanziari”. Pertanto, occorre garantire a questi ultimi un adeguato livello di protezione rispetto a decisioni strategiche — tra cui, a titolo esemplificativo, l’exit, gli aumenti di capitale potenzialmente diluitivi, le operazioni straordinarie o le modifiche dell’oggetto sociale — nonché il diritto a ricevere un’informativa tempestiva e completa sull’andamento dell’investimento.

Nell’ottica sopra delineata, sia nei patti parasociali sia nello statuto della società — per quanto consentito, secondo la struttura contrattuale sopra delineata — sono introdotti meccanismi specifici volti a riflettere la distinzione funzionale tra partecipanti “operativi” e partecipanti “finanziari”. A livello statutario, per le società a responsabilità limitata, ciò può avvenire tramite l’attribuzione di diritti particolari ai sensi dell’articolo 2468, comma 3, del codice civile, ovvero, mediante la creazione di categorie di quote che incorporano diritti differenti[7]. Analogamente, nelle società per azioni, si può ricorrere alla costituzione di categorie di azioni con diritti differenziati, conformemente all’articolo 2348 del codice civile.

La differenziazione dei diritti tra partecipanti “operativi” e partecipanti “finanziari” rappresenta senza dubbio uno degli aspetti più rilevanti da considerare nella redazione dei patti parasociali e dello statuto. Tale differenziazione riguarda diritti di natura gestoria, patrimoniale e relativi al trasferimento delle partecipazioni.

Per quanto riguarda i diritti di governance, è frequente che ai partecipanti “operativi” venga attribuito il diritto di designare la maggioranza del consiglio di amministrazione, comprensivo delle figure gestionali più rilevanti, come l’amministratore delegato, al fine di assicurare una gestione quotidiana efficiente della società. Al contempo, i partecipanti “finanziari” conservano, in tutto o in parte, il diritto di designare un numero predeterminato di consiglieri, garantendo così un coinvolgimento nelle decisioni strategiche e la possibilità di esercitare veti su determinate materie di competenza del consiglio di amministrazione e ritenute di rilevanza strategica (quali, a titolo esemplificativo, le decisioni che comportino scostamenti significativi dal budget o dal business plan approvato).

In alternativa, qualora i partecipanti “finanziari” non abbiano diritto alla designazione di consiglieri, è prassi costituire un comitato consultivo ad hoc, privo di funzioni gestorie, ma con il compito di assicurare adeguati flussi informativi e meccanismi di controllo, coinvolgendo tutti i soci indipendentemente dal loro ruolo nella gestione quotidiana della società.

Sempre sul piano della governance, è comune prevedere quorum assembleari rafforzati, che richiedano il voto favorevole degli investitori “finanziari” per l’approvazione di materie di particolare rilievo, quali aumenti di capitale diluitivi, operazioni straordinarie sul capitale, modifiche dell’oggetto sociale o variazioni dei diritti attribuiti ai partecipanti “finanziari” e, più in generale, di eventuali deliberazioni che possano compromettere il valore dell’investimento. I veti assembleari sono spesso accompagnati da appositi meccanismi anti-diluitivi.

Un ulteriore aspetto di particolare rilevanza – che esula dalle tematiche di governo societario sopra affrontate – riguarda altresì la possibilità di differenziare i diritti patrimoniali spettanti ai partecipanti al club deal al fine di rispondere alle diverse esigenze che possono emergere all’interno della struttura dello stesso, anche in questo caso, in considerazione dei ruoli distinti tra partecipanti “operativi” e partecipanti “finanziari”.

In particolare, tenuto conto del ruolo centrale dei partecipanti “operativi” nella gestione quotidiana del club, è prassi strutturare, secondo le modalità più efficienti dal punto di vista legale e fiscale, appositi meccanismi di incentivazione. Tali strumenti non hanno solamente la funzione di premiare l’impegno gestorio dei partecipanti “operativi”, ma costituiscono anche un efficace strumento di allineamento degli interessi tra tutti i partecipanti, con lo scopo di promuovere la massimizzazione del valore del club deal.

In questo contesto, tenuto conto delle esigenze specifiche del caso, tali meccanismi possono assumere diverse forme, come bonus legati alla performance, piani di stock option o anche il cd. carried interest ai sensi e per gli effetti dell’articolo 60 del decreto legge n. 50 del 24 aprile 2017 (come convertito con Legge n. 96 del 21 giugno 2017) con creazione, a seconda del caso, di appositi meccanismi (anche statutari) di distribuzione non proporzionale dei proventi (cd. waterfall) in caso di eventi di liquidità o distribuzione non proporzionale di dividendi.

3. Trasferimento delle partecipazioni ed Exit

Un ulteriore aspetto di particolare rilievo nella strutturazione di un club deal concerne le regole relative al trasferimento delle partecipazioni, nonché le strategie e i tempi dell’exit.

In via generale, è prassi prevedere un primo periodo di intrasferibilità delle partecipazioni (c.d. lock-up[8]), finalizzato a garantire una fase iniziale di stabilità della compagine sociale, generalmente coincidente con la fase di crescita e consolidamento dell’investimento. Durante tale periodo, i trasferimenti sono consentiti solo in ipotesi specificamente individuate e dettagliatamente disciplinate nei patti parasociali o nello statuto, al fine di preservare l’assetto iniziale del club e la coesione tra i partecipanti.

Decorso il periodo di lock-up, si attivano meccanismi volti a disciplinare l’eventuale trasferimento delle partecipazioni verso terzi non soci, nel rispetto di principi di coordinamento e di tutela degli interessi dei partecipanti. In questo contesto, è comune prevedere un diritto di prelazione, che consenta ai soci (tutti o solo alcuni di essi) di acquisire le partecipazioni in vendita proporzionalmente alla propria quota, evitando così l’ingresso di soggetti estranei senza il consenso della compagine sociale. Contemporaneamente, i partecipanti “operativi” sono spesso titolari di un diritto di drag-along, che permette loro di obbligare gli altri partecipanti, generalmente i partecipanti “finanziari”, a vendere le proprie partecipazioni in caso di ricezione di un’offerta terza conforme a termini e condizioni predeterminate[9]. In parallelo, ai partecipanti “finanziari” è riconosciuto un diritto di tag-along, che consente loro di co-vendere le proprie partecipazioni alle stesse condizioni offerte a un socio “operativo” cedente, garantendo così una tutela patrimoniale effettiva anche ai soggetti non coinvolti nella gestione operativa del club.

All’interno dei meccanismi di trasferimento delle partecipazioni, sono altresì frequenti clausole volte a tutelare il ruolo gestionale dei partecipanti “operativi”. A esempio, qualora un partecipante “operativo” decida di interrompere il proprio impegno nella gestione operativa del club, è opportuno prevedere strumenti che consentano agli altri partecipanti di procedere all’estromissione del socio, attraverso opzioni di acquisto e vendita ai sensi dell’articolo 1331 del codice civile o mediante meccanismi di riscatto delle relative partecipazioni, laddove consentiti dalla forma societaria adottata. Tali meccanismi hanno anche l’evidente effetto di tutelare gli interessi patrimoniali dei partecipanti “finanziari”, evitando che la mancanza di un ruolo operativo attivo possa compromettere la gestione e il valore complessivo dell’investimento.

Venendo ora alla disciplina dell’exit, va evidenziato come, nei club deal, la gestione del processo in tutte le sue fasi, inclusa la definizione stessa di cosa costituisca un evento di exit, sia generalmente caratterizzata da un elevato grado di flessibilità. Tale approccio trova il proprio fondamento nelle peculiarità intrinseche dei club deal: il numero ristretto di partecipanti, la diversità degli orizzonti temporali di investimento e la possibilità di modulare la partecipazione al capitale attraverso deroghe parziali alle regole di trasferimento delle partecipazioni o mediante meccanismi ad hoc che consentano a ciascun partecipante di disinvestire quando necessario; da ultimo, i club deal non prevedono obblighi predefiniti di liquidazione entro un periodo temporale prestabilito.

Per queste ragioni, al di là delle regole generali di trasferimento delle partecipazioni, i club deal sono strutturati in modo da garantire una gestione delle partecipazioni flessibile e adattabile, con tutele specifiche per tutti i partecipanti, in relazione anche agli interessi individuali di ciascuno di essi. Ciò non significa, come già anticipato, che gli investimenti in un club deal siano perpetui o a tempo indeterminato: la logica di investimento rimane (tipicamente) di medio-lungo periodo.

Di conseguenza, l’exit deve essere gestito caso per caso, conformemente agli obiettivi e alle esigenze dei partecipanti, attraverso clausole – sia parasociali sia statutarie – che disciplinino le diverse modalità possibili; tali clausole possono prevedere, a seconda delle circostanze, a titolo esemplificativo, processi di quotazione o vendita delle partecipazioni detenute nella società target con contestuale distribuzione dei proventi. Laddove non vi sia interesse dei partecipanti, vi è anche la possibilità di non prevedere alcuna procedura formale di exit.

4. Considerazioni fiscali in relazione all’Exit

Nel quadro delle operazioni oggetto di analisi, è utile soffermarsi anche sui profili fiscali che normalmente accompagnano la fase di Exit e, nello specifico, sulla cessione, da parte del veicolo societario strutturato come holding, delle partecipazioni detenute nella società target, a cui segue la distribuzione dei proventi realizzati nel contesto della liquidazione della holding.

Questo passaggio rappresenta uno dei momenti più delicati sotto il profilo impositivo, poiché dalla cessione possono derivare effetti fiscali diversi a seconda delle caratteristiche della partecipazione e del regime applicabile (circoscrivendo, in questa sede, l’analisi alle implicazioni in termini di imposte indirette).

Anzitutto, la cessione di partecipazioni costituisce, ai fini IRES, un’operazione fiscalmente realizzativa (mentre non rileva ai fini IRAP), dalla quale può emergere una plusvalenza pienamente imponibile al 24%, salvo che ricorrano i presupposti per l’applicazione del regime della partecipation exemption (PEX)[10], ovvero una minusvalenza ordinariamente deducibile (oppure integralmente indeducibile, qualora risultino soddisfatti i requisiti PEX).

La plusvalenza/minusvalenza fiscalmente rilevante è pari alla differenza tra il corrispettivo, al netto degli oneri accessori di diretta imputazione, e il costo fiscale della partecipazione ceduta.

Qualora ricorrano le condizioni per accedere al regime PEX, la plusvalenza fiscale realizzata concorrerà alla formazione del reddito nei limiti del 5% (ossia con una tassazione effettiva pari all’1,2%).

A seguito della cessione delle partecipazioni, la successiva distribuzione dei proventi derivanti dalla liquidazione della holding assume rilievo fiscale ai sensi dell’articolo 47, comma 7, TUIR.

Tale disposizione qualifica, infatti, come utili “le somme o il valore normale dei beni ricevuti dai soci in caso di recesso, di esclusione, di riscatto e di riduzione del capitale esuberante o di liquidazione anche concorsuale delle società ed enti”, nella misura in cui eccedano il prezzo pagato per l’acquisto o la sottoscrizione delle azioni o quote annullate.

Il trattamento fiscale di tali somme varia a seconda che il socio percipiente sia una persona giuridica ovvero una persona fisica. Nel seguito, ci limiteremo ad analizzare le implicazioni per i soci persone fisiche non imprenditori e per i soci società di capitali.

In particolare, laddove il percipiente sia un soggetto IRES, occorre distinguere l’importo corrisposto a titolo di utili – che in quanto tale configura un dividendo – da quello corrisposto a titolo di restituzione del capitale e delle riserve di capitale. Anche tali proventi non sono oggetto di tassazione ai fini IRAP.

Nella sostanza, la distribuzione dei proventi, in capo ai soggetti IRES, beneficia dell’esclusione dal reddito imponibile nella misura del 95%, con un’imposizione effettiva pari all’1,2%[11].

Diversamente, qualora i proventi siano corrisposti a una persona fisica non imprenditore, la holding è tenuta ad applicare una ritenuta del 26% a titolo d’imposta[12].

Si segnala, per completezza di analisi, che la bozza della legge di bilancio per il 2026 prospetta un intervento di rilievo sul regime di tassazione dei dividendi percepiti dai soggetti IRES.

In base alle bozze in circolazione, a decorrere dall’1 gennaio 2026, l’attuale regime di tassazione del 5% dei dividendi (i.e. tassazione effettiva dei dividendi all’1,2%) troverà applicazione soltanto in presenza di una partecipazione non inferiore al 10%[13] del capitale sociale della società erogante.

In tale contesto, i soggetti IRES cui tale norma troverà applicazione, assoggetteranno integralmente a IRES (24%) i dividendi ricevuti.

Infine, come anticipato nei paragrafi precedenti, nelle operazioni strutturate in forma di club deal assumono un ruolo rilevante i meccanismi di incentivazione dedicati ai soci “operativi”. Tali strumenti non mirano soltanto a valorizzare il contributo gestionale offerto da questi soggetti nell’ambito dell’investimento collettivo, ma perseguono anche l’obiettivo, altrettanto essenziale, di allinearne gli interessi economici con quelli dei soci a carattere più propriamente “finanziario”.

In questo contesto, diviene opportuno soffermarsi brevemente sulla disciplina fiscale degli strumenti incentivanti, che costituisce ormai un modello ampiamente utilizzato nella prassi.

La cornice normativa di riferimento è rappresentata dall’articolo 60 del decreto legge 24 aprile 2017, n. 50, che ha introdotto una disciplina fiscale specifica per i “proventi derivanti dalla partecipazione, diretta o indiretta, a società, enti o organismi di investimento collettivo del risparmio, percepiti da dipendenti ed amministratori di tali società, enti od organismi di investimento collettivo di risparmio ovvero di soggetti ad essi legati da un rapporto diretto o indiretto di controllo o gestione, se relativi ad azioni, quote o altri strumenti finanziari aventi diritti patrimoniali rafforzati…”.

La norma mira ad agevolare – in presenza di determinate condizioni – il trattamento fiscale di tali proventi, distinguendoli dai compensi ordinariamente riconducibili ai rapporti di lavoro, riconoscendo agli stessi una qualificazione più coerente con la logica partecipativa sottostante all’investimento.

Più precisamente, al verificarsi di determinate condizioni[14], i rendimenti connessi a tali proventi – configurandosi come una forma di remunerazione della partecipazione al capitale di rischio – sono in ogni caso” qualificati come redditi di capitale o redditi diversi.

Tale qualificazione comporta una tassazione con un’aliquota del 26%, anziché con le aliquote progressive IRPEF (con tassazione marginale massima di circa il 45,6%) applicabili in caso di qualificazione di tali proventi quali reddito di lavoro. La natura finanziaria del reddito comporta, altresì, che lo stesso non sia soggetto a contributi previdenziali, normalmente applicabili ai redditi di lavoro.

Nel loro complesso, le dinamiche fiscali che caratterizzano le operazioni di club deal e, in particolare, le fasi di disinvestimento e distribuzione dei proventi, evidenziano come la struttura giuridica e finanziaria dell’investimento incida in modo determinante sulla qualificazione e sul trattamento tributario dei relativi flussi. La cessione delle partecipazioni da parte della holding, la successiva liquidazione dei proventi ai soci e l’eventuale impiego di meccanismi incentivanti in favore dei soci “operativi” costituiscono momenti tra loro strettamente interconnessi, nei quali assume un ruolo decisivo la corretta applicazione della normativa fiscale.

In conclusione, la complessità delle operazioni esaminate conferma la necessità di un approccio integrato, che combini competenze societarie, fiscali e finanziarie. Solo attraverso una corretta strutturazione delle operazioni, accompagnata da un’attenta analisi degli effetti tributari, è possibile garantire la coerenza complessiva del progetto di investimento e, al contempo, la stabilità e la prevedibilità del carico impositivo per tutti i soggetti coinvolti.

5. Profili regolamentari e riserva di attività nelle operazioni di club deal

Nell’inquadrare la struttura e il funzionamento dei club deal, è opportuno soffermarsi anche su alcuni profili di natura regolamentare che, pur non costituendo l’elemento caratterizzante di tali iniziative, assumono rilievo nella misura in cui possono incidere sulla qualificazione dell’operazione e sul perimetro dell’attività esercitata dal veicolo di investimento.

Come noto, la disciplina europea e domestica in materia di gestione collettiva del risparmio — quale risultante dalla Direttiva 2011/61/UE (AIFMD), dalle guidelines dell’ESMA sui concetti chiave della direttiva e dal Regolamento sulla Gestione Collettiva del Risparmio della Banca d’Italia — individua una riserva di attività in capo ai soggetti autorizzati (SGR, SICAF e SICAV). Tale riserva si applica quando un’iniziativa presenti congiuntamente i tratti tipici degli organismi di investimento collettivo: (i) la raccolta di capitale presso una pluralità di investitori; (ii) l’investimento secondo una politica predeterminata; (iii) la gestione discrezionale e autonoma di tale patrimonio da parte di un soggetto diverso dagli investitori; e (iv) la condivisione dei risultati economici dell’investimento.

Nella configurazione tipica, il club deal si colloca al di fuori di questo perimetro. Gli investitori costituiscono un veicolo societario per un’operazione specifica, partecipano alle decisioni strategiche, non demandano la gestione a un soggetto distinto e non aderiscono a una politica di investimento predefinita e replicabile. L’operazione ha dunque natura intrinsecamente societaria e non si sostanzia in una forma di gestione collettiva del patrimonio di terzi.

Ciò detto, non mancano aree di potenziale sovrapposizione rispetto all’attività riservata, laddove la struttura d’investimento di alcune iniziative — pur presentate come club deal o come family office — potrebbero, di fatto, svolgere attività riconducibili alla gestione collettiva del risparmio, in particolare quando l’operazione è promossa da un soggetto o da un team di professionisti che origina sistematicamente nuove iniziative, individua e struttura autonomamente le opportunità di investimento e aggrega investitori non riconducibili a un gruppo preesistente. In tali casi, la struttura potrebbe avvicinarsi funzionalmente a un fondo di investimento “chiuso” a singola operazione o, più in generale, a un modello di gestione professionale del capitale, pur non essendone formalmente qualificabile come tale.

Ulteriori elementi di complessità emergono in relazione ai family office e alla nozione di “gruppo preesistente”, rilevante ai fini dell’esclusione dall’applicazione dell’AIFMD. Le guidelines ESMA adottano una nozione piuttosto ristretta di gruppo familiare, mentre il Regolamento della Banca d’Italia estende tale perimetro sino al quarto grado, includendo affini, conviventi e soggetti fiscalmente a carico. Tale divergenza può rendere meno nitida la distinzione rispetto a iniziative che coinvolgono più nuclei familiari o investitori uniti da legami personali o professionali, ma non da un’appartenenza univoca e stabile al medesimo gruppo familiare.

Alla luce di tali considerazioni, appare opportuno strutturare i club deal secondo alcune direttrici che ne confermino la natura societaria e li mantengano al di fuori dell’ambito riservato della gestione collettiva del risparmio: (a) la riferibilità dell’iniziativa a una singola operazione, senza adozione di una politica di investimento replicabile; (b) la partecipazione degli investitori alle decisioni di investimento e alle scelte strategiche; (c) l’assenza di un soggetto gestore esterno dotato di autonomia discrezionale; (d) la composizione chiusa e predeterminata del gruppo dei partecipanti; e (e) la chiara qualificazione del veicolo come holding di partecipazioni e non come strumento di investimento finanziario continuativo.

6. Considerazioni finali

In conclusione, la strutturazione della governance di un club deal, le regole di trasferimento delle sue partecipazioni, unitamente alla redazione dei relativi documenti di riferimento – primi fra tutti patti parasociali e statuto – deve essere concepita in maniera tale da rispondere in modo coerente ed efficace alle esigenze patrimoniali, negoziali e organizzative dei partecipanti.

Nell’ottica di massimizzare il valore complessivo dell’operazione, tali strumenti devono consentire un bilanciamento interessi eterogenei, tutelando al contempo il ruolo e le responsabilità di ciascun partecipante e permettendo che le decisioni strategiche e operative siano prese nel rispetto delle peculiarità del singolo caso e in conformità ai requisiti e alle limitazioni di natura regolamentare.

 

[1] Restano pertanto escluse dall’analisi le iniziative che – seppur comunemente denominate con la medesima locuzione – prevedono la costituzione di un veicolo societario che, fungendo da investment holding, sia destinato a realizzare una pluralità di acquisizioni mediante l’impiego dei capitali che un pool di investitori, nell’ambito di un sistema di hard o soft commitment, mette a disposizione di un management team.

[2]Nella prassi, ai fini di capitalizzare il soggetto acquirente della società target, di frequente, accanto all’investimento in equity (diretto o indiretto) dei partecipanti al club deal, è fatto ricorso anche alla leva finanziaria (ivi incluso tramite strutturazione di una tipica operazione di leveraged buy out) nonché, in taluni casi, al reinvestimento dei soci fondatori della società target (va tuttavia precisato che tale reinvestimento non è mai effettuato direttamente nel veicolo del club deal, ma piuttosto nella società target stessa o, eventualmente, in un veicolo partecipativo ad hoc controllato dal club deal).

[3] La durata dei patti parasociali si riduce a tre anni per le società quotate o per le società che controllano una società quotata.

[4] Per quanto riguarda la durata dei patti parasociali nelle società a responsabilità limitata, la dottrina si è domandata se, stante il silenzio del legislatore, debba trovare applicazione analogica la disciplina di durata prevista in materia di società per azioni. Scartata l’applicazione della disciplina analogica dettata per le società per azioni (si veda G. LOMABARDI, I patti parasociali nelle società non quotate e la riforma del diritto societario, in Giur Comm., 2003, I, p. 267), si fa riferimento al generale principio di autonomia negoziale ex articolo 1322 del codice civile e, dunque, i patti parasociali relativi a società responsabilità limitata di durata ultra-quinquennale sono legittimi se la loro durata non contrasti con i principi generali dell’ordinamento e con norme aventi carattere imperativo (Cfr. Cass. 18 luglio 2007 n. 15963).

[5] Sull’ammissibilità dell’acquisto di quote proprie da parte di s.r.l. PMI si veda la Massima n. 179 – 27 novembre 2018 “Acquisto di quote proprie da parte di s.r.l. PMI” del Consiglio Notarile di Milano e, ancora, M. MALTONI, La Srl start-up innovativa, in Le nuove Srl. Aspetti sistematici e soluzioni operativeQuaderni della Fondazione del Notariato, 1/2014, 107, p. 192.

[6] Si veda O. Cagnasso, S.r.l. aperta, in Nuove leggi civ. comm., 2020, 1208 ss, in part. 1209.

[7] Cfr. Massima n. 171 – 27 novembre 2018 “Nozione di categorie di quote di s.r.l. PMI” del Consiglio Notarile di Milano.

[8] In merito alla durata di un patto di intrasferibilità (lock-up) bisogna precisare che laddove afferiscano a s.r.l. e abbiano natura sociale, l’art. 2469, c. 2, cod. civ. stabilisce che, “qualora l’atto costitutivo preveda l’intrasferibilità delle partecipazioni […], il socio o i suoi eredi possono esercitare il diritto di recesso ai sensi dell’articolo 2473” e “l’atto costitutivo può stabilire un termine, non superiore a due anni dalla costituzione della società o dalla sottoscrizione della partecipazione, prima del quale il recesso non [possa] essere esercitato”; sennonché, con la massima n. 152, la commissione società del consiglio notarile di Milano ha affermato la legittimità della “clausola statutaria che, in presenza di un divieto temporaneo di trasferimento di quote di s.r.l. per un periodo superiore ai due anni, escluda espressamente la facoltà di recesso per l’intero periodo di intrasferibilità, purché il termine apposto al divieto di trasferimento, tenuto conto dell’oggetto sociale e della durata della società, non sia tale da rendere il divieto assoluto e non temporaneo”. Per quel che riguarda i patti di lock-up che afferiscono a s.p.a. chiuse, il vincolo di intrasferibilità non può durare più di cinque anni, sia che esso abbia natura sociale (stante l’art. 2355-bis cod. civ.), sia che esso abbia natura parasociale (stante l’art. 2341-bis, lettera b), cod. civ.).

[9] Uno dei temi più dibattuto in materia di drag-along è l’equa valorizzazione che deve essere garantita ai soci trascinati. A tal proposito, si veda, tra le altre, Massima H.I.19 del Consiglio Notarile del Triveneto. I Notai delle Tre Venezie considerando la clausola di drag-along (statutariamente prevista) quale patto sociale volto a regolare una forma di disinvestimento collettivo, ritengono che dovrà essere previsto il diritto dei soci di minoranza di ricevere un importo, a fronte della cessione della partecipazione, almeno pari al valore di liquidazione della stessa determinato secondo le norme applicabili (art. 2437-ter cod. civ. per le società per azioni, art. 2473 cod. civ. per le società a responsabilità limitata).

[10] Di seguito, si sintetizzano i requisiti per l’applicazione del regime PEX di cui all’art. 87, TUIR:

  1. ininterrotto possesso della partecipazione dal primo giorno del dodicesimo mese precedente quello dell’avvenuta cessione, considerando cedute per prime le azioni o quote acquisite in data più recente;
  2. classificazione della partecipazione nella categoria delle immobilizzazioni finanziarie nel primo bilancio chiuso durante il periodo di possesso;
  3. residenza fiscale o localizzazione dell’impresa o ente partecipato in Stati o territori diversi da quelli a regime fiscale privilegiato individuati in base ai criteri di cui all’articolo 47-bis, comma 1, TUIR o, alternativamente, la dimostrazione, anche a seguito dell’esercizio dell’interpello di cui al medesimo articolo, della sussistenza della condizione di cui al comma 2, lettera b), del medesimo articolo […];
  4. esercizio da parte della società partecipata di un’impresa commerciale secondo la definizione di cui all’articolo 55 […].

[11] Trova applicazione il combinato disposto degli articoli 47, comma 7, 86, comma 5-bis e 89, comma 2, TUIR. Ai dividendi erogati a soggetti residenti in Stati a fiscalità privilegiata si applica, invece, la ritenuta a titolo di imposta nella misura del 26% sull’intero dividendo.

[12] Articolo 27, comma 1, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600.

[13] Si noti che è ancora oggetto di definizione la soglia di rilevanza e/o l’inserimento di ulteriori previsioni normative per l’applicazione/disapplicazione di tale disciplina).

[14] Al fine di beneficiare della disciplina di cui all’articolo 60, tale disposizione prevede il ricorrere dei seguenti requisiti:

  1. investimento minimo: l’investimento complessivo di tutti i beneficiari del piano di incentivazione deve essere pari ad almeno l’1% del valore del patrimonio netto effettivo della società;
  2. rendimento minimo per gli investitori: i proventi devono essere corrisposti ai beneficiari solo dopo che tutti gli investitori hanno ricevuto un importo pari al capitale investito e un rendimento minimo previsto dallo statuto della società ovvero dal regolamento del fondo (c.d. “hurdle rate”);
  3. holding period: le azioni, le quote o gli strumenti finanziari devono essere detenuti dai beneficiari per almeno cinque anni (a eccezione del caso in cui si verifichi antecedentemente un cambio di controllo, circostanza in cui il requisito dell’holding period si considera soddisfatto).
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Approfondimenti
Società

Gli investimenti tramite club deal: un modello in evoluzione

11 Dicembre 2025

Pietro Zanoni, Partner, ADVANT Nctm

Emidio Cacciapuoti, Partner, ADVANT Nctm

Manfredi Luongo, Partner, ADVANT Nctm

Il contributo analizza il tema delle operazioni di investimento tramite club deal, con cui alcuni investitori (il club) si aggregano per investire in un operazione (deal), soffermandosi sui diversi profili societari, fiscali e regolamentari che ne definisco la strutturazione.
Attualità
Fiscalità finanziaria

Regime fiscale degli importi da equalizzazione nel settore dei fondi alternativi

5 Settembre 2023

Emidio Cacciapuoti, Partner, McDermott Will & Emery

Davide Massiglia, Counsel, McDermott Will & Emery

Il contributo analizza la Risposta dell’Agenzia delle Entrate n. 420 del 25 agosto 2023 sul regime fiscale degli importi da “equalizzazione” ricevuti dagli investitori nel contesto dei fondi di investimento alternativi.
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