Il presente contributo analizza le forme di tutela negoziali che il socio di minoranza “forte”, ovvero in grado determinante le scelte societarie, può utilizzare in alternativa al rimedio estremo del recesso dalla società.
1. La nuova minoranza forte
Di recente la Cassazione[1], esprimendosi per la prima volta sulla portata dell’articolo 2437-bis comma 3 c.c., ha rilevato come a “restitui[re] alla minoranza uno spazio di negoziazione” sia la possibilità per il socio – a fronte di una delibera sgradita – di esercitare il diritto di recesso.
Che il recesso sia l’estremo rimedio di tutela della minoranza[2] è un convincimento, oltre che radicato, anche fondato, almeno nella misura in cui si guardi ad una minoranza debole, ossia ad una minoranza che è tale perché priva di strumenti per esercitare un’influenza determinante nell’approvazione delle delibere cardine della vita sociale e la cui massima aspirazione di difesa, in caso di disaccordo con la maggioranza, è la ritirata.
La prassi negoziale ha fatto però emergere un nuovo tipo di minoranza: una minoranza che è in grado di esercitare un sostanziale potere contrattuale (con diverse gradazioni a seconda del caso concreto) e di fissare le condizioni per il proprio ingresso (e permanenza) nella compagine sociale, senza la necessità di detenere la maggioranza del capitale.
Volendo individuare quale tratto caratterizzante della minoranza l’incapacità di essere determinante nelle scelte societarie, allora l’emergente figura della minoranza contrattualmente forte potrebbe perfino perdere la qualifica di minoranza in senso tecnico.
Si pensi al caso di una s.r.l. PMI in cerca, per consolidare o ampliare il proprio business, di nuovi soci che apportino (nel senso più lato del termine) risorse finanziarie o network o strategie industriali. L’ingresso di questi nuovi soci è regolato, secondo prassi, da un accordo volto a disciplinare le modalità e le condizioni di investimento e, in particolare, a garantire un ritorno economico dello stesso.
È in tale contesto elettivo che il socio entrante, pur divenendo titolare di una partecipazione di minoranza rispetto al capitale sociale, è in grado di negoziare una serie di tutele ulteriori e preventive rispetto all’exit.
È chiaro che il ritorno economico dell’investimento può essere garantito in prima battuta con strumenti direttamente finalizzati a tale scopo, quali ad esempio, riparti dei dividendi in misura non proporzionale a favore del socio investitore, postergazione nelle perdite, sistemi di liquidazione preferenziale, clausole di trascinamento o di co-vendita a condizioni particolarmente vantaggiose per il socio di minoranza, fino ad arrivare alla “conduzione” di eventuali iter di trasformazione e quotazione.
Ma accanto a tali presidi possono essere predisposti anche strumenti indirettamente funzionali a garantire il ritorno economico dell’investimento del socio: si tratta di diritti di voice e di governance e di clausole volte ad assicurare la non diluizione della sua partecipazione. E il campo di negoziazione di tali tutele non è destinato, in sé e per sé, a trovare regolamentazione soltanto in accordi di investimento o in patti parasociali, potendo trovare tali meccanismi ingresso anche in sede statutaria.
Proprio questi strumenti statutari di tutela indiretta del socio di minoranza e del suo investimento meritano una riflessione più approfondita.
2. La nomina degli amministratori
È primario interesse del socio investitore poter incidere sulla composizione dell’organo gestorio della società e avere un’influenza nelle decisioni riguardanti determinati ambiti della vita sociale quali operazioni straordinarie o cessioni d’azienda, piani industriali, finanziari e strategici della società, strategie commerciali o di mercato all’interno del quale inquadrare le decisioni imprenditoriali della società.
Da questo punto di vista, l’incidenza del socio di minoranza sulla composizione dell’organo gestorio può realizzarsi mediante strade diverse.
È possibile che lo statuto attribuisca al socio di minoranza il diritto di nominare uno o più amministratori[3], ma si riscontrano nella prassi anche clausole più articolate, che mirano a realizzare forme di co-determinazione nell’individuazione degli amministratori o, quanto meno di alcuni di essi. Così, per un verso, al socio di minoranza può essere attribuito il diritto di indicare un ventaglio di soggetti, tra i quali i soci tutti devono eleggere uno o più o tutti gli amministratori, ovvero, secondo una prospettiva rovesciata, il diritto di nominare uno o più amministratori scegliendoli all’interno di una rosa di soggetti graditi alla (e individuati dalla) maggioranza.
Le previsioni in questione non sono equivalenti e differiscono, in particolar modo, per il regime al quale risulta assoggettata la possibilità di procedere alla revoca dei soggetti così nominati. Secondo l’opinione maggioritaria trova applicazione anche in queste ipotesi la regola generale per cui, pure in assenza di specifica previsione sul punto[4], l’attribuzione del potere di nomina determina specularmente anche l’attribuzione del potere di revoca: pertanto, nel caso in cui sia il socio di minoranza a nominare direttamente un amministratore, (anche[5]) questi lo potrà revocare, a differenza del caso in cui al socio di minoranza sia riservata la sola prerogativa di indicare i nominativi di possibili amministratori “graditi”, restando nelle prerogative del socio di minoranza o dell’assemblea procedere alla relativa nomina.
Anche l’ipotesi della cessazione anticipata dalla carica di uno o più amministratori nominati sulla base di tali previsioni può far sorgere dubbi o incertezze, sicché nella formulazione della clausola è necessario avere l’accortezza di disciplinare espressamente il regime relativo alle eventuali sostituzioni degli amministratori, in modo tale da replicare il sistema dettato per la loro nomina.
Trovandosi nell’ambito delle s.r.l. PMI, sia il diritto di nomina sia il diritto di “designazione” degli amministratori possono assumere le vesti, alternativamente, di diritto particolare o di diritto di categoria[6]. La scelta dell’una o dell’altra tecnica di personalizzazione della posizione del socio di minoranza non è neutra.
Il diritto particolare è un attributo specifico della persona del socio, in linea di principio non destinato a circolare con la sua quota e che, nel momento in cui il socio cessa di essere tale, viene ad estinguersi. Non è esclusa la possibilità di prevedere specifiche deroghe statutarie al regime legale appena descritto, ma va tenuto presente che i margini entro i quali possono ritenersi ammissibili sono discussi[7].
Il diritto di categoria presuppone invece che il capitale della società sia suddiviso in diverse categorie di quote ed è un diritto “incorporato” nella partecipazione, naturalmente in grado di circolare con essa.
La scelta di disciplinare una determinata tutela nell’una o nell’altra forma deve, nella sostanza, essere operata sulla base di due ordini di considerazioni. In primo luogo, la valutazione circa l’importanza, nel concreto contesto dell’operazione, che il diritto in considerazione spetti a uno specifico soggetto in quanto tale e non in quanto detentore di una partecipazione: in tal caso sarà da preferire la via del diritto particolare (tanto più se la scelta operata statutariamente è che esso non circoli con la quota). In secondo luogo, la valutazione in merito alla modalità con cui si intende realizzare il valore della partecipazione, tenendo conto del fatto che il riconoscimento alla partecipazione di diritti di categoria incorporati, in linea di massima, attribuisce alla stessa un maggior valore in caso di scambio. Da questa prospettiva, soprattutto se l’investimento del socio di minoranza si colloca in un’operazione nella quale il maggior valore della partecipazione si prevede che venga riconosciuto nel contesto di una fusione o per effetto della quotazione della società e successivo trasferimento delle quote, ovvero tramite il trasferimento della totalità delle quote, è ragionevole che il socio investitore prediliga una tutela incorporata nella partecipazione, sotto forma di diritto di categoria.
Invero, per garantire al socio di minoranza una rappresentanza nell’organo gestorio vi è anche una terza via, che prescinde dall’attribuzione di diritti ad hoc e interviene statutariamente sulla disciplina delle regole di elezione del consiglio di amministrazione, tenendo ferma la competenza assembleare per la nomina dei relativi componenti.
Nulla vieta infatti che, come accade nelle società quotate, anche nelle s.r.l. PMI il consiglio di amministrazione sia eletto sulla base di un voto di lista, assicurando alla minoranza l’attribuzione di almeno un seggio in consiglio tramite la l’introduzione di una previsione statutaria secondo cui un componente del consiglio deve essere tratto dalla lista che abbia ottenuto il secondo maggior numero di voti e non sia collegata in alcun modo, neppure indirettamente, con i soci che hanno presentato o votato la lista risultata prima per numero di voti.
E potrebbe accadere di più. Non vi è dubbio che lo statuto di s.r.l. PMI (ma anche non PMI) possa contenere previsioni in deroga al principio (ormai invero solo sussidiario) di correlazione rischio-potere, secondo cui il controllo e l’influenza nella gestione sono proporzionali all’entità dell’investimento e al rischio assunto. Potrebbe pertanto configurarsi statutariamente un sistema di voto di lista per cui la lista di minoranza che abbia ottenuto il maggior numero di voti, purché abbia superato una certa soglia di voti, ottenga un numero di seggi in consiglio superiore a uno, o in proporzione ai voti ricevuti oppure, in ipotesi, un numero di seggi più che proporzionale rispetto ai voti ricevuti, forse fino alla maggioranza dei seggi. E se quest’ultima conclusione può sembrare ardita, a renderla meno eccentrica può contribuire (o forse no?) la considerazione che la “trasformazione” della minoranza in maggioranza mediante articolati meccanismi di attribuzione dei seggi di consiglio sembra essere una eventualità non secondaria della scelta legislativa operata di recente dal legislatore (poi, nei fatti, “temperata” e ridimensionata in via interpretativa), a proposito della composizione del consiglio di amministrazione di società quotate nell’ipotesi in cui la lista presentata dal consiglio uscente abbia ottenuto il maggior numero di voti e le prime due liste di minoranza abbiano conseguito complessivamente più del 20% del totale dei voti espressi[8].
È chiaro che la scelta dell’impostazione basata sul voto di lista e su regole statutarie di attribuzione dei seggi opera su un piano oggettivo e prescinde dalla specifica individuazione del socio di minoranza. La tutela di cui questo viene a godere assume, infatti, carattere “impersonale” e non risulta formalmente legata né al socio personalmente in forma di diritto personale né al medesimo in quanto detentore di partecipazione di specifica categoria. È la titolarità di una certa quota di partecipazione che, sulla base dei meccanismi predisposti, assicura, nei fatti, a chi raggiunga tale soglia di poter concorrere con il proprio voto alla nomina di uno o più amministratori. Da questo punto di vista, è chiaro che la stabilità della compagine sociale assume particolare rilievo, sicché, nel contesto delle negoziazioni per l’ingresso del socio di minoranza “forte”, la scelta di questa tecnica di tutela si deve necessariamente abbinare a meccanismi che, in una certa misura, garantiscano tale stabilità (tra questi, ad esempio, la previsione di un periodo di lock-up).
3. L’ingerenza in materie di rilevanza gestoria
Passando ora a strumenti che possono invece garantire al socio investitore di minoranza una certa incidenza su determinate decisioni in ambito gestorio, può essere previsto che lo stesso socio renda un parere vincolante all’organo amministrativo. Tale strumento risulta tanto più efficace quanto più procedimentalizzato, con la previsione di uno specifico onere a carico degli amministratori di informare il socio di minoranza ogniqualvolta ci si accinge ad assumere una determinata decisione al fine di ottenere dal socio il parere, così che la deliberazione dell’organo gestorio assunta in violazione del procedimento statutariamente previsto risulterebbe viziata[9].
In alternativa può prevedersi che tali materie di rilevanza gestoria siano sottratte alla competenza dell’organo amministrativo e attratte nella competenza dei soci, per poi prevedere forme di coinvolgimento “rafforzato” del socio di minoranza nella decisione da assumere in tale sede. In alternativa, a un risultato analogo si potrebbe giungere attribuendo al socio di minoranza il potere di richiedere, a prescindere dalla quota di cui risulta titolare, la devoluzione all’assemblea (o comunque alla decisione dei soci) di una delibera che rientrerebbe nella competenza dell’organo amministrativo, salva la necessità, in questo caso, che il socio sia stabilmente informato sulla gestione della società e possa, quindi, tempestivamente esercitare siffatta prerogativa.
Con riguardo alle modalità con le quali al socio può essere riconosciuto un effettivo spazio di manovra in sede assembleare (o comunque nella decisione da parte dei soci), la prima possibilità appare quella di riconoscere al medesimo un potere di veto.
Va sottolineato che entrambe le configurazioni dei riferiti diritti di “ingerirsi nella gestione”, potrebbero esporre il socio che nel concreto li ha esercitati ad una responsabilità solidale con gli amministratori ai sensi dell’art. 2476, comma 8, c.c., che rende responsabili i soci che hanno intenzionalmente deciso o autorizzato il compimento di atti dannosi per la società, i soci o i terzi. Vanno quindi ponderati attentamente gli strumenti negoziali, per evitare che un meccanismo introdotto a tutela del socio di minoranza lo esponga poi in concreto a un potenziale rischio di responsabilità.
Tanto il parere vincolante al consiglio quanto il diritto di veto in assemblea possono essere conformati come diritto particolare del socio o come diritto di categoria, con le differenze che già si sono segnalate con riguardo alle conseguenze che la circolazione della quota è destinata a produrre sui diritti amministrativi riconosciuti e all’incidenza di questa circostanza sul valore di scambio della quota.
Al socio investitore (o alla sua partecipazione) potrebbe anche essere attribuito, a valle dello spostamento alla competenza assembleare di determinate materie di particolare rilevanza gestoria, un diritto di voto maggiorato su tali argomenti (anche, eventualmente, nella forma di diritto particolare non perenne ma a scadenza, così da fornire una tutela all’investitore ma nei limiti di un periodo entro il quale si presume dovrebbe realizzarsi l’investimento).
Se paiono sostanzialmente superati i dubbi circa la legittimità di un diritto di categoria di voto maggiorato, anche alla luce della massima notarile[10] che si è espressa sul punto (la quale si è spinta ad affermare che al voto maggiorato nelle s.r.l. PMI non si applicano i limiti imposti alle s.p.a. dall’art. 2351 commi 2 e 4 c.c. e dall’art. 127-quinquies T.U.F.), permangono, almeno secondo alcuni[11], dubbi circa la legittima configurabilità del voto maggiorato come diritto particolare del socio, dubbi discendenti nella specie dalla (postulata) inderogabilità dell’art. 2479 comma 5 c.c.[12].
In ogni caso, è chiaro che il ricorso a questa tecnica ripropone, in termini ancora più marcati, il problema della responsabilità solidale del socio di minoranza con gli amministratori ex art. 2476, comma 8, c.c., in considerazione del contributo “maggiorato” fornito alla decisione assunta in merito alla scelta gestoria.
Resta anche aperta la possibilità – sempre sul presupposto del trasferimento della relativa competenza nella sfera decisionale dei soci – di procedere, in maniera analoga a quanto visto a proposito delle tecniche di elezione dell’organo amministrativo, attraverso una tutela “di fatto” della posizione individuale di un determinato socio. L’incidenza del socio investitore su alcune decisioni sociali (anche funzionale alla tutela del ritorno economico dell’investimento del socio di minoranza) può essere realizzata, infatti, senza ricorso all’attribuzione di diritti ad hoc, ma mediante la previsione di quorum rafforzati sulle materie di interesse, così che determinate scelte non possano comunque essere assunte senza il coinvolgimento e il consenso della minoranza .
Pure in questo caso, come si è rilevato a proposito del voto di lista con meccanismo di attribuzione dei seggi favorevole alla minoranza, la scelta si mostra soddisfacente nella misura in cui la compagine della società resti stabile e chiusa. In caso di trasferimenti delle quote e mutamento degli assetti della ripartizione del capitale sociale, infatti, si accentuerebbe un rischio di ingovernabilità – che è comunque sussistente nel momento in cui si introducono quorum rafforzati ma – a fronte del premio dato ad una minoranza che non è più rappresentata dal socio investitore per cui tale “premio” era originariamente stato concepito.
4. Le tutele anti-diluizione
Passando ora all’analisi del profilo dell’anti-diluizione della partecipazione del socio di minoranza, si rileva che i diritti direttamente funzionali a garantire il ritorno economico dell’investimento, quali a titolo d’esempio, meccanismi di liquidation preference, dividendi maggiorati, clausole di drag e tag particolarmente favorevoli, sono (almeno potenzialmente e secondo varie declinazioni) legati alla misura della partecipazione del socio investitore. In linea generale, dunque è chiaro l’interesse del socio di minoranza a mantenere invariata la misura della propria partecipazione.
Nel caso in cui il capitale sociale della s.r.l. PMI sia suddiviso in categorie e al socio investitore siano attribuite partecipazioni di una categoria, in ipotesi dotata dei diritti sopradescritti si manifesta una esigenza del tutto analoga: è interesse del socio di minoranza che tali diritti non siano “condivisi” con altri soggetti che dovessero entrare nella compagine sociale, così rimanendo concentrati in capo al “socio investitore”.
Per raggiungere tale fine è possibile prevedere nello statuto che i soci di una categoria non possano sottoscrivere tutti gli aumenti di capitale ma soltanto quelli che prevedono l’emissione di partecipazioni della propria categoria. Ciò porta necessariamente a confrontarsi col fatto che, ogniqualvolta l’aumento di capitale non sia offerto a tutti i soci proporzionalmente alla partecipazione già detenuta, il socio cui è preclusa la sottoscrizione e che non abbia espresso il proprio consenso a tale aumento di capitale ha diritto di recesso[13].
Si potrebbe ovviare a questo problema con una previsione di diverso tipo. Potrebbe introdursi nello statuto una clausola di “consolidamento”, in forza della quale anche se la società, nell’ambito di aumenti di capitale a pagamento, dovesse emettere nuove partecipazioni “non qualificate” (senza quindi precisare se si tratti di partecipazioni di una o di un’altra categoria), tali partecipazioni verrebbero poi ad assumere automaticamente, al momento della sottoscrizione, la medesima natura della partecipazione già detenuta dal socio sottoscrittore. In questo modo si elimina, da un lato, il rischio che i soci di maggioranza (si potrebbe dire, i soggetti originariamente “finanziati”) vengano in seguito ad ottenere i privilegi dei soci di minoranza finanziatori mediante la sottoscrizione di partecipazioni della categoria tipica dei predetti e, dall’altro, il rischio, essendo offerto l’aumento di capitale indistintamente e proporzionalmente a tutti i soci, che qualcuno eserciti il recesso (almeno per tale ragione).
Sarebbe legittima anche una clausola statutaria di tipo diverso[14] che, in caso di aumenti di capitale a pagamento, con o senza diritto di opzione, allo scopo di tutelare due interessi potenzialmente contrapposti (: da un lato, quello della maggioranza ad essere libera di deliberare aumenti di capitale ulteriori – rispetto a quello che ha originato l’ingresso del socio investitore – al prezzo che ritiene più opportuno; dall’altro, quello del socio di minoranza a mantenere intatto il valore della partecipazione, anche a prescindere dalla partecipazione al nuovo aumento di capitale), preveda l’obbligo di assegnare gratuitamente una determinata frazione di quote di nuova emissione a favore dei titolari di una categoria di quote (o a favore di uno o più singoli soci), allorché detti aumenti di capitale siano deliberati a un prezzo inferiore all’importo stabilito dalla clausola stessa. In questo modo si eviterebbe la diluizione del valore delle quote della categoria protetta dalla clausola anti-diluizione anche qualora i relativi titolari non partecipassero ai nuovi aumenti.
Tale clausola non farebbe altro che predeterminare all’interno dello statuto un’ipotesi di necessaria sottoscrizione non proporzionale degli aumenti di capitale, il che implica naturalmente il rispetto della relativa disciplina legale e quindi, in particolare, la necessità che l’ammontare totale dei conferimenti effettuati dai sottoscrittori diversi dai titolari della categoria protetta sia almeno pari all’ammontare dell’aumento di capitale effettivamente sottoscritto.
Secondo la dottrina maggioritaria[15] le delibere di aumento di capitale che prevedono attribuzioni di partecipazioni non proporzionali ai conferimenti devono necessariamente essere approvate, oltre che con le maggioranze ordinarie, da chi ne è potenzialmente pregiudicato, ossia dai “conferenti in più”.
Non vi sono ragioni che spingono a ritenere che la clausola statutaria anti-diluizione richieda per la sua introduzione maggioranze più alte o diverse da quelle ordinariamente previste per le modifiche statutarie, posto che il presidio per i soci potenzialmente pregiudicati dall’effetto dell’operare della clausola è garantito in sede di approvazione della delibera di aumento di capitale[16]. In particolare, non pare di potersi discostare dalla necessaria approvazione da parte dei soci chiamati a “conferire in più” rispetto al regime proporzionale.
Nel caso di specie, quindi, un’eventuale delibera di aumento con emissione di partecipazioni ad un valore inferiore alla soglia individuata dovrebbe necessariamente essere approvata dall’unanimità dei soci non protetti dalla clausola, e, dunque, dei soci diversi dal socio investitore di minoranza.
La clausola anti-diluizione, a ben vedere, offre così ai soci protetti un presidio che opera a due livelli: da un lato, rendendo meno agevole l’assunzione di un delibera di un aumento sotto-soglia (aggiungendo per tali aumenti di capitale, al quorum quantitativo ordinario di approvazione della delibera, il quorum qualitativo dell’unanimità dei soci non protetti); dall’altro, prevedendo, in caso di superamento dei quorum, l’attribuzione non proporzionale di partecipazioni a favore dei soci protetti.
Non va sottovalutato, però, il rischio che può presentare per la società una previsione statutaria dal contenuto che si è descritto: ostacolare l’approvvigionamento di nuove risorse finanziarie mediante raccolta di capitale di rischio, rendendo gli aumenti di capitale necessariamente più costosi di quanto potrebbero essere in assenza di clausola anti-diluizione.
5. Conclusioni
In ultima analisi, a protezione del socio investitore, anche se di minoranza, è ben possibile optare per le più varie tutele negoziali che rafforzino e anticipino i presidi rispetto al rimedio estremo del recesso. Tali strumenti si mostrano preziosi per riequilibrare posizioni fisiologicamente asimmetriche e garantire un’effettiva protezione dell’interesse al ritorno economico dell’investimento.
La loro formulazione, tuttavia, richiede una calibrata ponderazione: ogni meccanismo di salvaguardia deve essere dosato con misura, in primis, in funzione del risultato che si vuole perseguire e del contesto societario di riferimento, posto che presidi e sistemi eccessivamente sbilanciati rischiano di tradursi in effetti indesideratamente distorsivi dell’assetto gestionale. Nella ponderazione delle tutele non può mancare, inoltre, una visione prospettica, che consenta di valorizzare tali strumenti come veicoli di sviluppo e non li degradi a fattori di irrigidimento e conflitto all’interno della compagine.
[1] Cfr. Cass. Civ. Sez. I, 05 giugno 2025, n. 15087, che ha espresso il principio di diritto secondo cui il recesso del socio è un negozio giuridico unilaterale recettizio risolutivamente (e non sospensivamente) condizionato all’intervento nel periodo di novanta giorni della revoca della delibera che lo ha legittimato. La pronuncia fa emergere la tutela ambivalente che il recesso accorda: essa si realizza sia se si perfeziona lo scioglimento unilaterale del rapporto sociale, sia se tale scioglimento viene retroattivamente rimosso con la revoca della delibera legittimante il recesso.
[2] Per un’ampia disamina dell’istituto nel contesto della s.r.l., cfr. Frigeni, Il diritto di recesso, in Le società a responsabilità limitata, I, a cura di Ibba-Marasà, Milano, 2020, 1149 ss.
[3] È chiaro che l’amministratore così nominato non può comunque in nessun caso perseguire interessi diversi e potenzialmente in conflitto con quello sociale e attinenti alla sfera del socio col diritto di nomina. Ogni istruzione eventualmente impartita dal socio nominante, per tale ragione, non è comunque dotata di efficacia o valenza sociale.
[4] Donativi, I diritti particolari dei soci, in Le società a responsabilità limitata, I, a cura di Ibba-Marasà, Milano, 2020, 1028 ss., ove diversi riferimenti.
[5] Seguendo l’impostazione suggerita tra gli altri da Donativi, nt. 3, secondo cui in caso di nomina dell’amministratore da parte di un socio, a questi compete in via esclusiva il diritto di revoca ad nutum, mentre il diritto di revoca per giusta causa (per lo meno in senso soggettivo) compete in via concorrente al socio nominante e all’assembla. Più discutibile è la posizione secondo cui, in caso di revoca senza giusta causa di un amministratore da parte del socio nominante, l’amministratore ha diritto di richiedere l’indennizzo per la cessazione anticipata del rapporto esclusivamente alla società e non anche al socio titolare del diritto particolare di nomina e revoca. Resta aperto, in questo caso, il tema della possibile rivalsa della società nei confronti del socio che abbia esercitato il potere di revoca in assenza di giusta causa.
[6] Nelle s.r.l. prive della qualifica di PMI, non essendo possibile suddividere il capitale in categorie dotate di diritti diversi, l’unica via resta quella di attribuire a soci di minoranza diritti particolari, adottando alcune accortezze nel disciplinare il regime circolatorio degli stessi, come meglio indicato nella nota seguente.
[7] È possibile che lo statuto preveda la successione automatica dell’acquirente della quota del socio nei particolari diritti o in parte di essi (così Consiglio Notarile di Milano, Massima n. 39, 19 novembre 2004) oppure la trasferibilità dei diritti particolari all’avente causa del socio, a discrezione di quest’ultimo, o di altro socio, anche prescindendo dall’entità della quota trasferita (così Comitato Interregionale dei Consigli Notarili delle Tre Venezie, Massima I.I.10 – 1°pubbl. 9/2004). Per Santagata, sub 2468, in S.r.l. Commentario, a cura di Dolmetta – Presti, Milano, 2011, 305, qualsiasi modifica soggettiva del titolare del diritto particolare, anche se statutariamente “autorizzata”, richiederebbe in ogni caso il consenso unanime dei soci. È anche possibile che l’atto costitutivo individui il titolare del diritto particolare per relationem e non nominativamente, con l’effetto che l’avente causa del socio originariamente titolare del diritto particolare, a patto che sia in possesso dei requisiti e delle qualità richieste dalla clausola statutaria per l’attribuzione del diritto particolare, lo acquisisca automaticamente, non a titolo derivativo, bensì a titolo originario.
[8] Il richiamo è all’art. 147-ter.1 T.U.F., introdotto dall’art. 12 della legge 5 marzo 2024, n. 21 (c.d. Legge Capitali). Per quanto qui interessa, la lettera della norma dispone che, nel caso sopra individuato, ossia qualora la lista presentata dal consiglio di amministrazione uscente abbia ottenuto il maggior numero di voti e le prime due liste di minoranza abbiano conseguito complessivamente più del 20% del totale dei voti espressi, i componenti del nuovo consiglio di amministrazione di competenza delle minoranze siano assegnati proporzionalmente ai voti ottenuti dalle liste di minoranza. Secondo un’interpretazione aderente alla lettera (sostenuta, in primis da Presti, Elezione degli amministratori e liste del Cda: peggio il rammendo del buco, in Riv. Soc., 2023, 5-6, 1078) l’applicazione di tale regola, qualora la lista del consiglio uscente consegua una maggioranza relativa ma le “liste di minoranza” ottengano, cumulativamente, più del 50% dei voti, comporterebbe l’assegnazione alle medesime dalla maggior parte dei componenti dell’organo amministrativo. La norma ha portato scompiglio e ha scatenato i commentatori, come risulta evidente dalla lettura anche del solo primo documento di consultazione pubblicato da Consob il 20 novembre 2024 in merito al contenuto dell’intervento regolamentare di attuazione dell’art. 147-ter.1 T.U.F. e alle relative osservazioni raccolte. La vicenda pare essersi chiusa con la pubblicazione del secondo documento di consultazione da parte di Consob. Sul punto, la Commissione ha optato per un’interpretazione “temperata” della norma (in ragione di un implicito principio di governabilità), nel senso che la regola di attribuzione proporzionale dei seggi dovrebbe operare in via “limitata” (nel caso di specie, comunque, attribuendo seggi alla minoranza entro i limiti del 20%) e non “assoluta”, portando quindi all’assegnazione alla lista del consiglio uscente che abbia conseguito il maggior numero di voti, anche in caso di maggioranza relativa, la maggioranza assoluta dei membri del consiglio.
Lo schema di decreto legislativo recante attuazione della delega di cui all’articolo 19 della legge 5 marzo 2024, n. 21, per la riforma organica delle disposizioni in materia di mercati dei capitali non pare intervenire sull’attuale formulazione dell’art. 147-ter.1 T.U.F. Viene invece proposta una nuova disciplina per gli “emittenti di nuova quotazione”, il cui statuto potrebbe determinare le modalità di elezione degli amministratori anche in deroga agli artt. 147-ter e 147-ter.1 T.U.F.
[9] Resta aperto il tema di come possa essere fatto valere tale vizio e se la delibera consiliare sia impugnabile da parte del socio, oltre alla questione inerente al fatto che il rappresentante legale della s.r.l. potrebbe comunque procedere alla stipula dell’atto deliberato con decisione viziata, salva l’applicazione del principio per cui l’annullamento della delibera consiliare travolge i diritti dei terzi non in buona fede.
[10] Consiglio notarile di Milano, Massima n.174, 27 novembre 2018.
[11] Donativi, nt. 3, 817 s.s.
[12] Il comma recita: “Ogni socio ha diritto di partecipare alle decisioni previste dal presente articolo ed il suo voto vale in misura proporzionale alla sua partecipazione”. Secondo il Consiglio Notarile di Milano, Massima n. 138, anche tale comma dell’art. 2479 c.c. è derogabile dall’autonomia statutaria. Nella predetta Massima e in Magliulo, Studio CNN n.40-2024/I, La nuova disciplina del voto plurimo e del voto maggiorato nella legge a sostegno della competitività dei capitali, 24 s.s. si trovano ampi riferimenti bibliografici anche con riferimento ai sostenitori della tesi opposta.
[13] Il principio è stato espresso anche da Consiglio Notarile di Milano, Massima n.175, 27 novembre 2018.
[14] La possibilità di inserire anche a livello statuario e non soltanto parasociale una clausola cd. anti-diluitiva è stata affermata da Consiglio notarile di Milano, Massima n.186, 7 gennaio 2020.
[15] Sodi, L’assegnazione delle partecipazioni non proporzionale ai conferimenti nelle società di capitali, in Fondazione Italiana del Notariato, 21 febbraio 2009; Valzer, sub 2346 co. 4 e 5, in Le società per azioni, diretto da Abbadessa – Portale, I, Milano, 2016, 478 s.s.
[16] La predetta previsione statutaria, infatti, si compone di una fattispecie a completamento progressivo. Essa, in altre parole, produce effetti non per il solo fatto di essere inserita nello statuto, ma nell’ipotesi che si verifichi anche l’approvazione di una delibera di aumento di capitale con emissione di partecipazioni ad un valore inferiore alla soglia individuata dalla clausola stessa.



