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Editoriali

L’attendismo degli investitori stranieri nei confronti del nostro debito pubblico

15 Ottobre 2018

Mario Comana

Professore Ordinario di Economia degli intermediari finanziari, Università LUISS Guido Carli di Roma

Di cosa si parla in questo articolo

Il balzo dello spread dai 120 basis point di marzo ai 307 di venerdì scorso è stato interpretato come una crisi di fiducia verso l’Italia e un abbandono degli investitori stranieri dei titoli del nostro debito pubblico. I dati dicono che la quota detenuta da non residenti, al netto della Banca d’Italia per conto della BCE, è scesa dal 32.3% di prima delle elezioni al 30,7% di fine agosto. Ma non è giusto parlare di fuga degli stranieri, e ciò per almeno due motivi, uno statistico e uno sostanziale.

Il primo elemento è che le rilevazioni sottostimano la quota detenuta dai risparmiatori italiani e, conseguentemente, distorcono la lettura dei flussi transfrontalieri di investimenti e disinvestimenti. Guardando le statistiche della Banca d’Italia, si legge che la porzione di Bot e BTP detenuta dai residenti diversi dagli investitori istituzionali è oggi inferiore al 10%. Questo però trascura la quota di ricchezza finanziaria dei nostri concittadini detenuta mediante fondi comuni di investimento di diritto europeo basati in Lussemburgo. Formalmente appaiono come investitori esteri ma in realtà in una misura non trascurabile sono ancora soggetti italiani. Dunque, parte dell’uscita dei Titoli di Stato che ha causa l’impennata dello spread è riconducibile ancora a fattori e operatori interni e non agli esterni.

Detto questo, rimane comunque innegabile che gli investitori globali siano diventati molto più tiepidi nei confronti della carta italiana. Però non mi sembra corretto parlare di fuga o di panico, perché questo si manifesterebbe in vendite molto consistenti e quindi in cali più drastici di quelli, pur apprezzabili, che si sono verificati in questi ultimi mesi. La percezione che si coglie sui mercati è piuttosto quella di un atteggiamento attendista, come di coloro che non comprendono la situazione fino in fondo e quindi scelgono di astenersi. In effetti non c’è da stupirsi, considerato che anche fra noi italiani non manca una certa dose di disorientamento. Come risultato, non si disfano dei titoli che possiedono ma non ne acquistano di nuovi e magari non rinnovano neanche quelli in scadenza.

Per comprendere il comportamento degli investitori stranieri, quelli veri, non quelli esterovestiti, pensiamo al meccanismo di funzionamento del comitato investimenti di una casa che gestisce fondi comuni. Sono più o meno tutti uguali in tutto il mondo. Stabilità l’asset allocation strategica, che assegna lo spazio destinato ai titoli degli emittenti sovrani in una data fascia di rating, gli analisti individuano i singoli nomi e le singole emissioni da acquistare. Le loro proposte passano al vaglio del comitato investimenti, che ovviamente ha di fronte un panorama di opportunità molto ampio. Al momento di considerare l’investimento in Italia, a molti di costoro verranno in mente i titoli dei giornali riguardanti il nostro Paese, magari qualche fotografia vista sui siti internet, non solo sui media specializzati nei temi finanziari, ma anche su quelli generalisti. Quale sia l’immagine che può formarsi un canadese piuttosto che un australiano sulla base di queste fonti, lascio a voi indovinare.

La domanda, più o meno esplicitata, sarà: perché devo prendermi il rischio di investire in una situazione che presenta molti elementi di confusione quando esistono altre occasioni interessanti e più semplici da comprendere e da giustificare in caso di esito negativo? Sicuramente, con uno sforzo di approfondimento e di analisi superiore, i membri del comitato capirebbero che in fondo l’Italia è un Paese molto dinamico dal punto di vista economico, che il risparmio privato è ampio, che il debito pubblico è collocato per due terzi presso investitori domestici o presso la Banca centrale e quindi è un collocamento molto stabile. Ma il rendimento che offre compensa la fatica intellettuale e il coraggio necessario per non richiudere immediatamente il dossier e passare a guardare un altro emittente?

Purtroppo, anche nelle istituzioni più sofisticate, non vigono solo le severe leggi della convenienza economica e i rigorosi algoritmi di calcolo. Le suggestioni hanno sempre il loro peso e soprattutto, poiché le alternative non mancano, non c’è un incentivo sufficiente ad affrontare l’analisi approfondita e a prendersi un rischio per conseguire un modesto incremento del rendimento. Già, perché oggi il differenziale di rendimento è comunque piccolo rispetto ad altri Paesi comparabili, diciamo la Spagna e il Portogallo. E il paradosso è che quando fosse molto ampio segnalerebbe una sfiducia tale da allontanare ancora di più gli investitori.

A questo si aggiunge un ulteriore fattore di complessità nella valutazione degli investitori stranieri: il rischio di conversione della valuta, conseguente all’eventuale uscita dell’Italia dall’Euro. Gli analisti dei grandi fondi sono ovviamente in grado di misurare e gestire accuratamente il rischio di default, anche perché si tratta di un rischio facilmente diversificabile. Invece il rischio di conversione della valuta è un grande problema per un investitore che ha una determinata disciplina di investimento: è difficilmente stimabile e quantificabile e soprattutto è pressoché impossibile mitigarlo, cioè prendere le opportune contromisure. La stima della probabilità di default è svolta utilizzando modelli ormai consolidati e attendibili, certo imperfetti ma in grado di dare un’adeguata stima della probabilità dell’evento. Analogamente, le conseguenze del default sono relativamente facili da prevedere, almeno in termini di esito per i creditori. Invece di fronte al rischio di ridenominazione del debito un comitato investimenti va in difficoltà: quale probabilità assegnare a un evento così particolare e unico? Quali conseguenze deriverebbero da un fatto che non si è mai verificato? Nessuno lo sa, ma tutti immaginano che sarebbero molto gravi e quindi al di fuori dei confini entro cui opera normalmente un investitore. Prova ne sia la forte differenza di oltre 200 punti base nel prezzo dei CDS sull’Italia che coprono solo il rischio di insolvenza e quelli che assicurano anche verso la ridenominazione.

Ragioni tecniche unite a elementi di carattere politico e financo a suggestioni, spiegano perché gli stranieri (e molti italiani esterovestiti) restano titubanti di fronte ai titoli del debito pubblico. Non al punto da vendere precipitosamente, ma quanto basta per non comperarne di nuovi e magari non rinnovare quelli in scadenza. Non un terremoto, quindi, ma un bradisismo sì, uno di quei moti tellurici molto lenti, addirittura talvolta impercettibili, ma che nel tempo possono modificare la fisionomia di una costa, di un territorio. E di cui è difficile dire dove e quando si fermeranno.

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