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Approfondimenti

‘Ludicizzazione’ del contratto di investimento ed eccezione di gioco

23 Giugno 2021

Edoardo Rulli, Dottore di ricerca, Università di Roma “Tor Vergata”

Di cosa si parla in questo articolo

Sommario: 1. Il contratto concluso per giocare e il gioco come investimento. – 2. Le cripto-attività: nuovo tramite tra investimento e gioco. – 3. Sono o non sono strumenti finanziari? Non importa. – 4. È o non è un gioco? Se sì, si può opporre la relativa eccezione? – 5. Alla fine, in borsa si deve giocare!

 

1. Il contratto concluso per giocare e il gioco come investimento

Basta fare un salto fuori di casa all’ora in cui la generazione Z[1] esce di scuola per vedere ragazzi che camminano con la testa china. È china su di un telefonino che lampeggia, tra un clang di spade e qualche ululato mostruoso. Talvolta, si sente un tintinnio di monete dal sapore medievale che tracimano da una bisaccia, alla maniera di Money dei Pink Floyd[2] (per i romantici) o di una slot machine (per chi ancora prende il caffè in quei bar).

Quei ragazzi con la testa china stanno, fra l’altro, concludendo contratti.

‘Giocano’ attraverso applicazioni per cellulare che si presentano come gratuite, ma che consentono, per chi ha familiarità con l’argomento, acquisti in app. La logica è semplice: il giovane inizia a giocare gratuitamente. A un certo punto del gioco, il suo personaggio, la sua squadra, il suo avatar non sono più abbastanza competitivi. Allora il giovane acquista con la carta di credito del genitore, o con una propria carta di debito prepagata, una moneta virtuale, delle gemme, un gettone, un passe-partout. Compra insomma una qualsiasi cosa digitale che, variamente denominata, diviene valuta nello spazio virtuale di gioco. Il giovane cambia così una moneta avente corso legale per una avente corso contrattuale, e la investe (si fa per dire, ma non troppo) per migliorare le proprie prestazioni, ottenere un bene della vita (del suo avatar), accedere a un altro livello del gioco, a un’informazione rilevante per il gioco, e così via.

In un rapporto di McKinsey si legge che tra i cambiamenti comportamentali più rilevanti degli under 20 di oggi vi sia un transito del paradigma del possesso a quello dell’accesso (from possession to accession)[3]. Più che avere il motorino, l’adolescente desidera avere accesso a un servizio di trasporto. E questo si vede sempre meglio nelle città invase da mezzi che, un tempo erano beni, e ora sono servizi di bike-, moto– e car-sharing.

Il passaggio è importante, perché la realizzazione dei bisogni diventa immateriale, com’è immateriale l’antico piacere che si trova nel gioco, sia esso l’agone sportivo, il gioco di intelligenza alla maniera degli scacchi o il gioco in cui prevalga la pura alea, come quello d’azzardo, lecito o illecito a seconda del momento storico, dell’etica dominante, della religione prevalente. Ed è proprio quella pura alea che avvicina il gioco all’investimento: un avvicinamento che, con la tokenizzazione della finanza, rischia di confondere i piani e di richiedere un aggiornamento delle norme del codice civile e del testo unico della finanza (innanzi, “t.u.f.”).

2. Le cripto-attività: nuovo tramite tra investimento e gioco

In tutte le classificazioni sulle cripto-attività si tende a sottolineare il profilo della rappresentazione del titolo che conferisce un bene della vita digitale[4]. Non si produce più il pezzo di carta, di metallo, né il loro equivalente elettronico, come una scansione o il documento elettronico nativo. Il bene della vita è rappresentato dal simbolo virtuale, che nasce e resta digitale, il token[5]. Quel simbolo digitale rappresenta e, in taluni casi è, esso stesso ed esso solo, l’utilità di partecipazione/investimento, di pagamento/riserva di valore o di accesso a un bene o un servizio.

Al fianco del passaggio da res a bene virtuale, sta un altro avvicendamento concettuale. Gli utenti, così vanno chiamati coloro che volano sull’altalena dei crypto-asset, non sono tutti investitori esperti (né, se prendiamo il lato oscuro di questa materia, esperti riciclatori di denaro)[6]. Spesso sono persone con scarsa o nulla esperienza in materia di investimenti, che si lanciano in una corsa all’oro su borse virtuali sulle quali, alle tradizionali asimmetrie informative, si aggiunge il deficit di competenze digitali. Ma il punto che qui si vuole sottolineare non è questo. La questione va oltre la tutela dei risparmiatori e riguarda la sovrapposizione tra il piano del gioco e quello dell’investimento, la tendenza cioè alla ludicizzazione[7] dell’investimento o, meglio, del contratto di investimento.

Il riferimento cade sul contratto tout court, e non solo sul momento della sua conclusione. Tutto tende a farsi gioco in questo ambito: la cattura del nuovo cliente (originariamente utente di una app o di una piattaforma), la fase di informazione precontrattuale, la conclusione del contratto e, soprattutto, la fase di esecuzione del contratto.

Proprio in quest’ultima la dimensione del gioco va a sovrapporsi e poi a sostituirsi a quella dell’investimento: se l’utente/investitore ottiene dei profitti, questi sono spesso presentati come un sùbito guadagno[8], un premio, dei punti, che si aggiungono al portafoglio virtuale (wallet) accompagnati da uno special luminoso.

La rappresentazione digitale di un token virtuale – una bella moneta giallo oro, una carta colorata, un diamante lucente – si manifesta sul piccolo schermo che oggi accompagna la vita nella stessa, o in molto simile foggia, sia che si tratti di uno strumento finanziario, di un mezzo di pagamento, di un titolo di accesso a un concerto, di una carta di imbarco sia che si tratti di un gioco online con acquisti in app.

Nella visualizzazione, sta la sovrapposizione.

Vi sono poi le piattaforme, quelle di gioco e quelle di investimento.

Delle prime si è detto: rumori, flash, monete. Delle seconde si deve dire. Vi sono quelle tradizionali, che seppur in una forma semplificata, mimano i computer sempre attivi che fanno da scenografia a film come The Wolf of Wall Street[9]. Schermi affastellati di stringe alfanumeriche e qualche grafico stilizzato con cifre che cambiano a velocità disarmante, davanti a colletti bianchi stressati con le maniche della camicia tirate sopra il gomito e una grossa tazza di caffè a bordo tastiera.

E vi sono quelle di ultima generazione, che vogliono dare accesso al più ampio numero di utenti possibile e lo fanno con grafica accattivante, semplificata, come se si trattasse di quella di un videogioco. Si danno una veste ludica e investire diventa un po’ come giocare. Si schiaccia un pulsante, si fa partire l’ordine, l’ordine è eseguito, si accede l’immancabile special, si sente il rumore delle monete che entrano (o escono) non più da una bisaccia ma dal wallet. La situazione è un po’ più seria di quella del giochino per ragazzi, ma la grafica e l’esperienza dell’utente (giocatore o investitore) sono molto simili.

Questa sovrapposizione tra l’esperienza di gioco e quella di investimento, la potenziale confusione che tra le due e, comunque, il tendenziale avvicinamento tra il modo di giocare e quello di spendere, investire e attendersi utilità, devono essere osservati con attenzione dal giurista. Perché il cambiamento in atto potrebbe essere non solo antropologico, ma toccare anche alcuni istituti giuridici.

3. Sono o non sono strumenti finanziari? Non importa

Non è così importante, a questi fini, determinare – cosa che peraltro ora si propone di fare la proposta MiCA[10] – se il token di pagamento, di partecipazione, di accesso a un bene o servizio sia uno strumento finanziario oppure no. È chiaro che una tale determinazione sia necessaria per stabilire se a questa o a quella cripto-attività si applichi questa o quella norma. Se si tratta di token di investimento/partecipazione, in Italia, dovranno normalmente applicarsi, fra l’altro, il Regolamento sul prospetto e il t.u.f., ma non è (solo) questa la questione problematica.

Il punto è che là dove si operi su una piattaforma, o attraverso un analogo strumento tecnologico in cui l’esperienza di gioco prevalga su quella di investimento si deve anche stabilire se si applichino le norme di diritto comune sui contratti, o se il rapporto giuridico che ne scaturisca sia, come nel gioco lecito o tollerato, un fatto solo parzialmente tutelato dall’ordinamento, come ad esempio un’obbligazione naturale (art. 2034 c.c.).

E, se di obbligazione naturale dovesse trattarsi, si dovrebbe poi anche stabilire se l’eccezione di gioco (art. 1933 c.c.) sia sollevabile, e in caso affermativo, se lo sia con effetti apprezzabili.

Conviene fare un esempio. Se un soggetto acquista unità di una valuta puramente virtuale (diciamo Bitcoin) con altra diversa valuta virtuale il cui valore non sia assistito da quello di un sottostante paniere di beni, oro o valute aventi corso legale, ma da un algoritmo che ne controlli i flussi, starebbe investendo, scommettendo o giocando? L’ottimista, seguace dell’innovazione a tutti i costi, risponderebbe: ‘Investendo. E’ ovvio!’. Ma se una tale operazione fosse compiuta attraverso un avatar, in un mondo virtuale, per poi acquistare, un’arma virtuale e così sconfiggere un drago (sempre virtuale, s’intende), si deve dubitare che il nostro soggetto starebbe ancora investendo. Questo è il piano di confusione oggettivo tra gioco e investimento che qui si vuole rilevare.

Sul piano soggettivo, poi, si tratta di determinare se la natura di ‘utente’ del soggetto di che trattasi prevalga su quella si ‘investitore’. Non è una novità che alcuni social network abbiano da tempo ottenuto l’autorizzazione a operare come istituto di pagamento o come istituti di moneta elettronica. Si tratta di attività regolamentate, quindi nessun dubbio circa natura dell’attività e disciplina applicabile. Ma se la moneta (ora per lo più elettronica, ma in alcuni casi virtuale) emessa in favore del cliente, che è, prima che un cliente, un utente della piattaforma social, sia poi spesa per finalità che nulla hanno a che vedere con il tradizionale acquisto di beni e servizi, ma solo per ottenere una qualche utilità nell’ambito del social network medesimo, si potrebbe dubitare di essere in presenza di un investitore. Come fare a stabilire se il cliente sia un cliente consumatore, un investitore o solo un mero utente?

Le distinzioni scolorano. Il problema non è filosofico, ma giuridico. Si tratta di stabilire se si applichi o no il codice del consumo, se il cliente, pardon, l’utente, abbia le tutele rafforzate che si riconoscono alla parte debole quali, ad esempio, il diritto di recesso per i contratti conclusi a distanza di cui all’art. 52 cod. cons. o il beneficio processuale del foro del consumatore. Inoltre, se si conclude che il soggetto investe in attività finanziarie, come quando acquista un prodotto finanziario o un token a esso riconducibile, si tratterebbe di capire se si applichi la relativa disciplina di tutela degli investitori. E, in caso affermativo, sorgerebbe la questione di stabilire se si tratti di investitore al dettaglio con le tutele, fra le altre, di cui agli articoli 21 e 23 del t.u.f., con tutte le collegate questioni in punto di obblighi informativi (e, per la piattaforma, di abilitazione alla prestazione di servizi di investimento).

4. È o non è un gioco? Se sì, si può opporre la relativa eccezione?

Se tutto questo poi si presenta nella foggia di un gioco, è lecito domandarsi se si applichi l’articolo 1933 c.c. La domanda, in termini più ortodossi, è se il gioco che contorna, tinge o anche costituisce il contratto di investimento informi l’operazione sottostante tanto da esporla alla relativa eccezione di giuoco. E qui siamo di nuovo al dibattito di oltre un secolo fa, quando la Corte di appello di Roma riteneva infondata l’eccezione di gioco sollevata da un appellante che si lamentava dell’eseguibilità di cambiali emesse per far fronte a obbligazioni nascenti da contratti per differenza[11].

Un dibattito rinverdito ai tempi dell’emersione dei contratti di swap[12], tanto che poi, attraverso un paio di passaggi storico-giuridici (ma anche culturali), il risultato è che la legge ha introdotto un’eccezione all’eccezione di gioco nell’articolo 23 del t.u.f. Non si trattò di un fatto nuovo: già nei codici ottocenteschi si era derogato all’eccezione di gioco nei contratti per differenza[13]. Ma nel t.u.f. del 1998 l’eccezione fu introdotta – ed è tutt’ora mantenuta –per tutti i contratti derivati[14].

Il che significa che, per le cripto-attività non derivate che siano collocate, vendute, scambiate in un contesto ludico, o meglio, ludicizzato, esiste la (remota ma plausibile[15]) eventualità che l’investitore opponga l’eccezione di gioco all’emittente o al prestatore di servizi che chieda il pagamento di un prezzo per l’acquisto di token di pagamento, di investimento e, soprattutto, per i token con cui si è qui aperto il ragionamento: i token di utilità, cioè quelli tipicamente acquistati dai giovani con la testa china sul cellulare.

Questa conclusione ha natura spiccatamente teorica. Sul piano pratico, le difficoltà di opporre un’eccezione di natura tradizionale e processuale sono evidenti. Nella finanza virtuale globalizzata è complesso individuare il foro competente, se di foro e di competenza in quest’ambito può parlarsi. Di qui si torna al cuore del problema, perché se l’utente è un consumatore, allora potrebbe dirsi che prevarrebbe il suo foro. Ma se il soggetto che emette o commercia il token, o che gestisce la piattaforma, si trovi a Singapore o in Sud Africa, contro chi e in quale luogo un’eventuale pronuncia italiana esecutiva produrrebbe effetti? Stiamo parlando peraltro di un ambito in cui le prestazioni che si vorrebbero eccepite sarebbero tutte già state eseguite, e ogni eventuale azione di ripetizione si scontrerebbe pure con la realtà transnazionale del fenomeno[16]. E allora verrebbe voglia di dire, per risolvere il problema con eleganza liberista, come si disse più di cento anni fa: «L’abolizione dell’eccezione di giuoco dice che ognuno deve essere responsabile delle proprie azioni; e, che si sappia, nessuno è riuscito mai a trovare alcun mezzo migliore per educare gli uomini fuori di questo: inspirare la certezza che, se si commettono errori, bisogna pagarne il fio»[17].

5. Alla fine, in borsa si deve giocare!

Le soluzioni semplici sono le più affascinanti, hanno l’audacia della giovinezza. Sono forse le più adatte alla dimensione del gioco. Chissà se che siano anche adatte per la stabilità finanziaria e alla coesione sociale. Ma questa è una domanda priva di risposta, o la più a risposta variabile nel tempo, a seconda della temperie culturale.

Certo è che, almeno per ora, in queste nuove borse virtuali di cripto-attività si è tornati a giocare, com’e d’uopo si faccia, in borsa. E non è un caso che ‘giocare’ e ‘investire’ in borsa siano, in italiano e in altre lingue neolatine, sinonimi perfetti.

 

 


[1] Secondo la vulgata degli antropologi, si tratta dei nati tra il 1997 e il 2012.

[2] Pink Floyd, Money, in The Dark Side of the Moon, 1973, disponibile su https://www.youtube.com/watch?v=-0kcet4aPpQ

[3] T. Francis, F. Hoefel, Generation Z and its implications for companies, McKinsey & Company, 2018, p. 12.

[4] Numerosi sono i riferimenti bibliografici, v. ad esempio, E. Rulli, Incorporazione senza res e dematerializzazione senza accentratore: appunti sui token, in Riv. Orizzonti del diritto commerciale, n. 1, 2019, p. 121.

[5] Cfr., prendendo in considerazione la proposta della Commissione europea di Regolamento MiCA (Proposal for a Regulation of the European Parliament and of the Council on Markets in Crypto-assets, and amending Directive (EU) 2019/1937) v. R. Lener, L. Furnari, Cripto-attività: prime riflessioni sulla proposta della commissione europea. Nasce una nuova disciplina dei servizi finanziari “crittografati”?, in Diritto bancario. Approfondimenti, Ottobre 2020, dirittobancario.it e, ancora, F. Annunziata, Verso una disciplina europea delle cripto-attività, in Diritto bancario, Ottobre 2020, dirittobancario.it .

[6] Con riguardo alle piattaforme social, v. E. Rulli, Banche, non banche e social network: quale disciplina?, in Rivista trimestrale di diritto dell’economia, 2016, supp. n. 4/2016, p. 309.

[7] Esistono molte definizioni di ludicizzazione (gamification). Il cuore semantico di cui ci si vuole qui servire è quello secondo cui la ludicizzazione sia il processo di aggiungere elementi ludici a situazioni preesistenti. Le radici latine del vocabolo sono chiare, e rilevate dai principali dizionari della lingua italiana. Tuttavia, il termine entra nel vocabolario italiano come (opportuna) traduzione dell’inglese gamification. Il dizionario di Oxford defnisce il termine come: «the use of elements of game-playing in another activity, usually in order to make that activity more interesting». L’origine, secondo molti, è legata alle tecniche di marketing, o di apprendimento, ma la tecnologia e il più feritile materiale umano fornito della generazione Z ne hanno consentito l’espansione al campo che ci interessa. Una bibliografia minima: T. Chatfield, Fun Inc.: Why Gaming Will Dominate the Twenty-First Century, Londra, 2005; S. Deterding, M. Sicart, L. Nacke, K. O’Hara, D., Dixon, Gamification: Using game-design elements in non-gaming contexts, ACM Press, 2011, pp. 2425-2428; J. Hamari, J. Koivisto H. Sarsa, Does gamification work? – A literature review of empirical studies on gamification, in Proceedings of the 47th Hawaii International Conference on System Sciences – HICSS, IEEE, Waikoloa, 2014, p. 3025–3034. Con particolare riguardo alla ludicizzazione degli investimenti, v. di recente A. van der Heide, D. Želinský, Level up your money game: an analysis of gamification discourse in financial services, in Journal of Cultural Economy, 2021, pp.1-21.

[8] L’espressione è mutuata da Dante, Commedia, Inferno, XVI («La gente nova e i sùbiti guadagni»).

[9] M. Scorzese, The Wolf of Wall Street, Paramaount pictures, 2003.

[10] Cfr. nt. 5.

[11] App. Roma, 18 aprile 1893, in Foro it., vol. 18, I, pp. 618-621, a mente della quale i contratti di borsa sono muniti di azione anche se hanno per solo obiettivo il pagamento di differenze.

[12] Non è questa la sede per una trattazione completa della questione, che ovviamente ha a che vedere con la causa del contratto. Si deve però ricordare come la legittimità della causa astratta (e solo speculativa) del contratto derivato, e in particolare dello swap, sia da qualche tempo affermata dalla giurisprudenza e dalla dottrina. Cfr. App. Milano 18 settembre 2013, n. 3459, secondo cui nel derivato l’oggetto del contratto è costituito da uno scambio di differenziali a determinate scadenze, mentre la causa risiede in una scommessa che entrambe le parti assumono e nello scambio di rischi finanziari. Per una critica di questa tesi circa il derivato come scommessa legalizzata, a sostegno invece della tesi della legittimità della causa di mero scambio v., per tutti, F. Annunziata, La disciplina del mercato mobiliare, 2017, p. 173. Altre pronunce hanno ritenuto la causa assolutamente valida e lecita. In dottrina, per una completa ricostruzione delle vicende che ci interessano in relazione allo swap, v. A. Perrone, Contratti di swap con finalità speculative ed eccezione di gioco, in Banca borsa titoli di credito, II, 1998, 82; M. Barcellona, I derivati e la causa negoziale. L’”azzardo” oltre la scommessa: i derivati speculativi, l’eccezione di gioco e il vaglio del giudizio di meritevolezza (parte prima), in Contratto e impresa, 1/2014, 571. U. Minneci, Swap tra banche e clienti, Quaderni di Banca borsa e titoli di credito, Milano, 2014, p. 161 ss. Va anche richiamata Cass., SSUU, 12 maggio 2020, n. 8770, in Rivista di diritto bancario, 2020, n. 3, parte II, p. 123, con nota di Pagliantini.

[13] F. Tedeschi, Dei contratti di borsa detti differenziali in Italia e all’estero, Torino, 1897, p. 63 ss. In Italia la legge riconobbe esplicitamente i contratti differenziali solo tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, così sancendo la validità delle operazioni di borsa a termine (cfr. l. 14 giugno 1874, n. 1971 e successive modifiche).

[14] Cfr. per la ricostruzione, R. Lener, P. Lucantoni, Commento all’articolo 23 del TUF, in M. Fratini e G. Gasparri (a cura di), Il testo unico della finanza, Torino, 2012, p. 400.

[15] Sul punto, anche se dettata in un àmbito (non del tutto) diverso, v. Cass., III, 27 Maggio 2019, n. 14375, non ancora pubblicata, ma già disponibile sui maggiori siti di documentazione giuridica. In tal caso, la Corte ha ritenuto possibile l’estensione della disciplina dell’art. 1933 c.c., riguardante i contratti di gioco, ai mutui a questi collegati (nella specie mutuo richiesto per l’acquisto di fiches di gioco) con un importante paletto: l’eccezione sarebbe proponibile solo quando la dazione di denaro costituisca il mezzo connesso all’attuazione del gioco e tale da realizzare fra i giocatori le stesse finalità pratiche del rapporto di gioco.

[16] Una simile problematica è stata affrontata, di recente, con particolare riguardo ai CFD ‘ciprioti’, da M. Siri, T. Romanò, A. Mistretta, Investire non è un gioco: dal trading online ai pirati delle piattaforme finanziarie, in Giochi e scommesse sotto la lente del giurista, Genova, 2021, p. 110.

[17] L. Einaudi, Il nuovo disegno di legge sulle borse, in La Riforma Sociale, gennaio 1913, pp. 32-33.

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