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Approfondimenti

La miniriforma della legge fallimentare del 2015 e il delitto ex art. 236 bis L.F.: una cura ricostituente?

11 Aprile 2016

Walter Mapelli, Sostituto Procuratore della Repubblica in Monza

Di cosa si parla in questo articolo

La legge 132/2015, di conversione del decreto legge 83/2015, entrata in vigore il 21 agosto 2015, apporta diverse modifiche alla legge fallimentare (in particolare in tema di concordato preventivo) ma nessuna nuova disciplina in materia penale fallimentare ad eccezione dell’estensione alle attestazioni previste ai sensi degli articoli 182-quinquies, 182- septies e 186- bis della fattispecie ex art. 236-bis Legge Fallimentare.

Questa lettura è certamente ineccepibile ma, al tempo stesso, appare parziale perché trascura totalmente le ricadute che le variazioni dell’articolo 160, ultimo comma, e dell’articolo 163, V comma, possono determinare sulla sfera di applicazione dell’articolo 236-bis Legge Fallimentare. E, per comprenderle appieno, può essere utile un excursus su questo delitto, iniziando dalle iniziali ragioni dell’incriminazione.

Come noto, il falso in attestazioni e relazioni è fattispecie eccentrica rispetto alla tradizionale e consolidata legislazione penale repressivadelle condotte di bancarotta perchè l’articolo 236-bis, insieme all’articolo 217-bis introdotto dal Decreto Legge 31.5.2010 n.78, costituisce l’unico innesto nell’originario corpo del titolo VI della Legge Fallimentare. Tale circostanza non appare casuale in quanto proprio la natura di limite esegetico alle fattispecie di bancarotta preferenziale e di bancarotta semplice dell’articolo 217- bis spiega la necessità di una norma punitiva delle false attestazioni. Invero, l’articolo 217-bis lega l’esenzione dai delitti di bancarotta all’attività dell’attestatore perché questi, con la sua certificazione, legittima l’applicazione di questa clausola di limitazione della fattispecie (così infatti viene costruita dalla miglior dottrina la natura dell’esenzione dai reati di bancarotta, come recita la rubrica dell’articolo 217-bis Legge Fallimentare)[1].

E infatti, guardando gli strumenti di composizione giudiziale della crisi d’impresa (piani di risanamento, accordi di ristrutturazione, concordati preventivi) le situazioni che legittimano l’esenzione da responsabilità sono diverse: l’accordo di ristrutturazione deve infatti essere omologato, il concordato deve essere ammesso, il piano deve avere data certa. In tutti e tre i casi vi è però un elemento comune e condiviso: il giudizio del professionista attestatore in ordine alla ragionevolezza/attuabilità/fattibilità del piano/accordo/proposta, anzi, meglio, della loro idoneità a superare la crisi di impresa. Così, il piano di risanamento ex art. 67 lettera d) deve consentire il risanamento dell’esposizione debitoria e il riequilibrio della situazione finanziaria dell’impresa e tale valutazione ne postula necessariamente l’idoneità; a sua volta, l’accordo deve essere attuabile ed idoneo ad assicurare il regolare pagamento dei creditori estranei ex art. 182-bis per essere omologato; infine il concordato, per essere ammesso, deve inglobare l’attestazione che suggelli l’idoneità della relativa domanda. E’ evidente perciò che sulla relazione dell’attestatore, unico dato comune alle tre situazioni, appare corretto fondare il diritto dell’imprenditore in crisi ad operare in regime di esenzione da responsabilità penale rispetto ai delitti di cui agli articoli 216, III comma, e 217 Legge Fallimentare. Così, proprio l’importanza dell’attestazione del professionista, requisito necessario del piano, dell’accordo e della domanda di concordato non solo ai fini del buon esito delle procedure concorsuali ma anche quale scudo penale in caso di insuccesso dell’opera e dunque di fallimento, determina la necessità di un presidio forte contro la falsificazione delle attestazioni, specie in un contesto, come quello italiano, a debole tenuta etica e con scarsa propensione ad efficaci e tempestive forme di tutela intermedia, quali quelle attribuite agli ordini professionali ovvero a protocolli di autoregolamentazione.

L’intervento legislativo si è reso necessario non solo per colmare un vuoto normativo ma anche per porre un argine al gran numero di attestazioni “approssimative” ed irresponsabili ma comunque decisive per l’accesso alle procedure di gestione della crisi d’impresa, e per contenere le incertezze giurisprudenziali sui delitti applicabili ai falsi commessi dall’attestatore.[2]

L’articolo 236-bis costruisce la fattispecie come delitto proprio, cioè come reato realizzabile solo da chi riveste una determinata qualifica; dunque, secondo le regole fissate dagli articoli 67, III comma lettera d),il falso può essere commesso solo dal “professionista” indipendente, iscritto nel registro dei revisori legali ed in possesso dei requisiti di cui all’art. 28 lett. a) e b) Legge Fallimentare. Tali ultimi requisiti sono quelli previsti per ricoprire la carica di curatori e riguardano l’essere avvocati, dottori commercialisti, ragionieri e ragionieri commercialisti, come previsto dalla lettera a) dell’articolo 28 ovvero l’essere componenti di studi professionali associati e società tra professionisti sempre che i soci siano persone nelle condizioni di cui alla lettera a) e che uno di loro assuma, all’atto dell’accettazione dell’incarico, la qualità di responsabile della procedura (in questo caso della procedura per l’attestazione).

L’attestatore, inoltre, secondo le specifiche fissate dall’articolo 67 lettera d), deve essere indipendente: ciò significa che non può essere legato all’impresa da rapporti personali o professionali tali da comprometterne l’autonomia di giudizio, che deve avere i requisiti ex art. 2399 codice civile e che non deve aver prestato rapporto di lavoro subordinato od autonomo né aver partecipato agli organi di amministrazione o di controllo dell’impresa negli ultimi cinque anni .

Peraltro, poiché la stessa norma fallimentare fornisce una caratterizzazione sostanziale del profilo dell’attestatore (come si evince dal richiamo alla nozione di indipendenza “in concreto”[3]), allora occorre stabilire rispetto a quale parametro l’informazione dolosamente taciuta deve essere rilevante, se esistano e quali siano le soglie quali/quantitative oltre le quali scatta l’incriminazione per le informazioni omesse.

Prima di analizzare l’oggetto del falso ed i possibili termini di raffronto, è bene ricordare che, secondo alcuni autori[4], il requisito della rilevanza non sarebbe né qualitativo né quantitativo ma solo funzionale alla fattibilità dei piani oggetto delle varie attestazioni: in sostanza,poiché l’attestazione certifica la possibilità di esecuzione di un piano, solo le falsità (anche nella forma delle omesse informazioni) che abbiano una ricaduta sulla realizzabilità del piano sarebbero rilevanti e dunque potrebbero essere penalmente sanzionate. La tesi – acuta, pragmatica e teleologicamente orientata – non ha trovato, almeno sino ad ora, alcun aggancio normativo né in linea generale (i delitti di falso sono delitti contro la fede pubblica e dunque sulla verità e trasparenza del contenuto degli atti) né rispetto alle norme specifiche ( addirittura, nella fattispecie “gemella” di cui all’articolo 19, comma 2, Legge 3/2012, si afferma esplicitamente laresponsabilità del componente dell’organismo di composizione della crisi sia per le false attestazioni sulla veridicità dei dati contenuti nella proposta di accordo del debitore sia sulla fattibilità del pianodi ristrutturazione dei debiti ); inoltre, in una prospettiva funzionale, il concetto di rilevanza verrebbe esteso al falso commissivo,con riduzione arbitraria dell’ambito di applicazione della norma.

In realtà, l’elemento oggettivo della fattispecie ex art. 236-bis ha una portata talmente ampia da essere al limite della indeterminatezza: infatti il falso commissivo può riguardare ogni tipo d’informazione e quello omissivo ogni tipo d’informazione qualificabile come rilevante e questa osservazione risulta avvaloratadall’estensione del falso alle relazioni predisposte ai sensi degli articoli 182-quinquies, I comma, 182-septies, V comma, e 186-bis, II comma, lettera b), Legge Fallimentare nelle quali le informazioni hanno ampio carattere valutativo e, in questa sede certamente, funzionale.

E’ infatti notorio (ed è stato di recente anche riconfermato dalla sentenza della Cassazione, sezione V, del 12.1.2016 n.890 in tema di falso in bilancio) che il termine informazioni include non solo i fatti materiali, ma anche le poste valutative e qualsiasi tipo di notizia con la sola esclusione di congetture e previsioni: ne consegue che ogni comunicazione manipolata appare idonea ad assumere rilievo penale, sia che riguardi, laddove prevista o comunque espressa[5], la veridicità dei dati contabili (intesi in senso sostanziale e non di regolarità formale)[6] sia che concerna la fattibilità del piano e dunque le valutazioni sul valore degli asset aziendali, la loro congruità rispetto agli obbiettivi del piano, le determinazioni sulla costituzione delle varie classi di creditori e le indicazioni sui tempi e modalità delle operazioni dal piano contemplate, incluse le eventuali attività di liquidazione. Certo, le comunicazioni sui tempi del piano e sui presumibili valori di realizzo, appunto perché di tipo previsionale, potrebbero essere esclusi dal catalogo delle informazioni falsificabili; nella prassi, più che per il loro carattere previsionale (che sarebbe sindacabile per falso sotto il profilo del rispetto dei criteri di riferimento e della correlativa coerenza) queste informazioni sono indifferenti proprio per la loro estrema genericità o indeterminatezza ed anche per (così, ad esempio, i piani concordatari danno tempi molto ampi per la loro esecuzione).

A differenza del falso commissivo, ove evidentemente proprio la manipolazione in sé (e cioè la costruzione di una notizia falsa) rende ogni falsità significativa, nel falso omissivo la falsità deve riguardare l’informazione “rilevante”, probabilmente perché, aggettivando la notizia taciuta, si connota in peggio (e dunque con attribuzione di una valenza criminale) il silenzio, di per sé soggettivamente neutro o semplicemente negligente, con la formulazione di una soglia legale di falso per omissione innocuo per tutte le informazioni taciute ma irrilevanti.

Così diviene obbligatorio interrogarsi su quali possano essere le informazioni rilevanti e dunque individuarne i possibili parametri di riferimento. La recente riforma dell’articolo 2621 codice civile ha cancellato la sensibile alterazione “della rappresentazione della situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società” quale limite variabile dei bilanci falsi, limite integrato dai criteri fissi, previsti dall’articolo 2621 e fondati sulla variazione del risultato economico o del patrimonio netto; anzi, è proprio il nuovo articolo 2621 codice civile a parlare anch’esso di fatti materiali rilevanti senza precisarne il concetto, mentre la dottrina e le prime due sentenze della Cassazione in materia[7] non danno peso alla questione, concentrandosi sulla possibilità o meno dell’incriminazione delle false valutazioni e relegando la rilevanza delle informazioni all’idoneità oggettiva delle stesse a ledere la fede pubblica e a determinare le scelte delle persone che entrano in relazione con la società.

Rimane invece, come normativa di riferimento, un parametro quantitativo ed è quello offerto dal secondo comma dell’art.11 Decreto Legislativo 74/00: invero, l’importo di € 50.000 espresso in detto articolo come soglia di penale interesse per l’infedele dichiarazione nella procedura di transazione fiscale può rappresentare un valido riferimento quale limite per i falsi omissivi. E’ vero che il parametro ha natura tributaria (elementi attivi non dichiarati o elementi passivi fittizi), ma è altrettanto vero che la dichiarazione falsa è resa in una procedura di gestione della crisi d’impresa come la transazione fiscale, con richiamo implicito all’attestazione tramite il VI comma dell’art.182-ter Legge Fallimentare (“…unitamente con la documentazione di cui all’art. 161 Legge Fallimentare…..”). Anzi, nella stragrande maggioranza dei casi, la dichiarazione falsa è contenuta nell’attestazione del professionista. Vi è di più: appare irrazionale ammettere una punibilità illimitata“nelle relazioni o attestazioni di cui agli articoli 67, terzo comma, lettera d), 161, terzo comma, 182-bis, 182 quinquies e 186 bis” e invece condizionarla (alla soglia di € 50.000) per le stesse falsificazioni attive ed omissive qualora siano allegate alla domanda di transazione fiscale. Da qui, la necessità di un’armonizzazione delle discipline e l’attribuzione alla soglia quantitativa ex art. 11, comma II, Decreto Legislativo 74/00 di indicatore della rilevanza del falso ex art. 236-bis Legge Fallimentare anche nella forma commissiva.

Anche se può apparire eccessivamente basso, questo parametro quantitativo è coerente con la riforma del falso in bilancio: oggi sono infatti punibili anche i falsi delle società non sottoponibili a fallimento ai sensi dell’art. 2621-bis codice civile e una soglia quantitativa minima modesta sembra perciò accettabile, mentre possono trovare spazio anche nel falso in attestazione le ipotesi (di creazione giurisprudenziale) del falso grossolano (quale, ad esempio, la certificazione come di sicuro incasso di crediti verso società che lo stesso attestatore dichiara essere in fallimento) e del falso innocuo (come, ad esempio, l’indicazione di un importo di cassa negativo anziché a valore zero, come tale privo di ricadute sull’attivo della società, oppure di sottovalutazione di un credito riequilibrata nel “conto finale” dalla sopravvalutazione di altro credito)[8].

In ogni caso, la mancanza di sicuri criteri distintivi della rilevanza della falsificazione sia ai fini dell’integrazione della “soglia penale” del falso omissivo, sia per la fissazione del livello minimo di lesione del bene giuridico della fede pubblica determina condizioni di obiettiva incertezza nell’individuazione dell’elemento oggettivo del delitto per la formulazione dell’imputazione.

La situazione di incertezza è accresciuta dalla circostanza che gran parte delle informazioni contenute nelle attestazioni sono di tipo valutativo e cioè sono valori stimati e spesso indicati con indicazioni di un massimo e di un minimo di valore: proprio il carattere valutativo, da esercitare secondo criteri di discrezionalità tecnica da tempo codificati nei principi convenzionali di attestazione dei dottori commercialisti ed esperti contabili, impone che si possa parlare di falsità solo in presenza di valutazioni del tutto arbitrarie (e cioè inesistenti in quanto svincolate da qualsiasi criterio tecnico) oppure di discrasia ingiustificata tra il metodo dichiarato e le valutazioni espresse.  

A propria volta, l’elemento soggettivodel delitto di falso in attestazioniè costituito nell’ipotesi base, dal dolo generico e proprio la sufficienza della forma più “blanda” di rappresentazione e volizione del fatto criminale pone non pochi problemi di distinzione tra questo delitto ed i falsi colposi, posto che, nella forma estrema “di confine” con la colpa, il dolo della falsa attestazione può essere rappresentato dal dolo eventuale.[9]

Emblematica in proposito appare l’ordinanza del Gip di Torino del 16.7.2014 nella quale la dimostrazione dell’elemento psicologico del delitto viene ricavato dall’importanza dell’omissione (mancanza di verifica sull’effettiva esistenza della fideiussione a garanzia dell’affitto d’azienda) e dalle elevate competenze chieste dalla legge all’attestatore, circostanze idonee ad escludere la colpa e a dedurne – “per differenza” – l’esistenza del dolo di falso.[10] Secondo questa linea interpretativa, tanto più evidente sarà la falsità dell’informazione scritta fornita dal professionista, tanto più difficile sarà confinarla nel campo della colpa e tanto più facile qualificarla come falso volontario. Questo perché se la falsità è manifesta, appare difficile attribuirla ad imperizia o negligenza di un professionista altamente qualificato come quello configurato dalla normativa attraverso i requisiti previsti dall’art. 28 Legge Fallimentare, con il solo limite rappresentato dalla percezione, ad opera dei destinatari dell’attestazione, della falsificazione in modo così immediato e diretto da caratterizzarla come falso grossolano.

E tuttavia la prova del dolo, fondata sulle alte competenze formali del professionista e sulla significatività e gravità dell’informazione falsa, non convince. Questi indicatori si presentano infatti come eccentrici rispetto alla dimostrazione dell’elemento psicologico perché contribuiscono a definire l’ambito di operatività del fatto illecito e, in ogni caso,si presentano come ambigui, ben potendo essere utilizzati per dimostrare il dolo o la colpa indifferentemente; di contro, ciò che serve, per un sicuro inquadramento dell’attestazione sbagliata come attestazione falsa, è la precisa individuazione e documentazione di un movente criminale o di una finalità illecita nel lavoro dell’attestatore. In altri termini, costui non ha un interesse proprio[11] alla falsificazione dei dati poiché si tratta di un lavoro di elevata qualità professionale non direttamente “spendibile” dal suo autore bensì svolto su commissione dell’imprenditore in stato di crisi per il quale la procedura di gestione giudiziaria è preferibile al fallimento.

La sconfinata ampiezza sia dell’elemento oggettivo sia dell’elemento psicologico del delitto[12] contribuisce a spiegare la scarsa diffusione dell’applicazione della norma: a oltre tre anni di distanza dall’entrata in vigore dell’articolo 236-bis Legge Fallimentare, la citata ordinanza del Gip di Torino costituisce l’unico esempio di misura cautelare adottata per un falso in attestazione mentre gran parte delle posizioni di attestatori iscritti nel registro degli indagati in un grande Ufficio come la Procura di Roma sono state archiviate proprio per la difficoltà di dimostrare il dolo di falso ovvero di provare l’inverosimiglianza oggettiva (e dunque l’effettiva falsità) delle informazioni fornite.

Sulla situazione descritta influisce la riforma del 2015: vi sono infatti due norme chiave che potrebbero avere un forte impatto sulla formulazione delle contestazioni di falso e precisamente l’articolo 160,ultimo comma, (“In ogni caso la proposta di concordato deve assicurare il pagamento di almeno il venti per cento dell’ammontare dei crediti chirografari. La disposizione di cui al presente comma non si applica al concordato con continuità aziendale di cui all’articolo 186-bis.”) e l’articolo 163,V comma, ( “Le proposte di concordato concorrenti non sono ammissibili se nella relazione di cui all’articolo 161, terzo comma, il professionista attesta che la proposta di concordato del debitore assicura il pagamento di almeno il quaranta per cento dell’ammontare dei crediti chirografari o, nel caso di concordato con continuità aziendale di cui all’articolo 186-bis, di almeno il trenta per cento dell’ammontare dei crediti chirografari.”) Legge Fallimentare. 

In realtà, già l’articolo 182-bis Legge Fallimentare vincolava e tutt’ora vincola l’attuabilità dell’accordo di ristrutturazione alla garanzia dell’integrale pagamento dei creditori estranei all’accordo stesso, e tuttavia, vuoi per la scarsa incidenza numerica di questo strumento di composizione della crisi, vuoi per la limitata incidenza del controllo giurisdizionale, non vi sono in materia casi di false attestazioni.

Per converso, l’estensione alla proposta di concordato dell’impegno ad assicurare il pagamento del 20% dei crediti chirografari viene ad incidere in profondità sull’istituto di gran lunga a più ampia diffusione tra quelli previsti per la soluzione della crisi d’impresa ed introduce un vincolo specifico, si potrebbe dire reale, di risultato. Il termine assicurare equivale infatti al verbo garantire o all’espressione realizzare il risultato promesso e si pone non come un generico impegno di tipo processuale o contrattuale ma come condizione pubblica di validità, meglio di ammissibilità, della proposta. Ne è prova la previsione dell’articolo 162 Legge Fallimentare, che sancisce l’inammissibilità della proposta di concordato anche per difetto delle condizioni di cui all’articolo 161: orbene, tra i presupposti di cui all’articolo 161 vi è la condizione fissata dal terzo comma dello stesso articolo e cioè la relazione che “attesti la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano medesimo” e che rappresenta il documento di sintesi tra prescrizioni normative e indicazioni operative. E’ infatti la relazione di accompagnamento dell’attestatore a contenere non solo gli elementi di contabilità aziendale ma le informazioni analitiche sulle risorse, i tempi e le modalità di realizzazione del piano da proporre ai creditori, con inclusione dunque dei dati necessari all’assicurazione di pagamento imposta dalla legge, informazioni tutte obbligatoriamente riprese in forma sintetica nella proposta di concordato sottoscritta dall’imprenditore richiedente. Così il cerchio si chiude: la proposta di concordato assicura il pagamento del 20% dei creditori chirografari attingendo le informazioni anche su questa voce alla relazione dell’attestatore e dunque attribuendo a quest’ultimo la responsabilità sostanziale dell’eventuale falsità delle notizie in essa contenute, con conseguente applicabilità dell’articolo 236-bis Legge Fallimentare. L’obiezione per cui la responsabilità per l’assicurazione del pagamento (e l’eventuale correlativa falsità) non sia ascrivibile all’attestatore perchè la legge prevede che sia la proposta (e non la relazione di accompagnamento) a contenerla appare debole in quanto non basta una generica indicazione nella sola proposta del pagamento del 20% dei crediti chirografari a soddisfare il requisito di legge ma occorre la specifica e puntuale precisazione di come si intenda raggiungere questo risultato. E questo può avvenire in due modi: o trovando le risorse all’interno del piano concordatario oppure attingendo a nuova finanza esterna ed è evidente che il fatto deve essere dimostrato dall’attestatore nella prima ipotesi, mentre nella seconda, se l’assicurazione può essere data da un terzo che assicuri con il suo intervento il pagamento, certamente deve essere verificata dall’attestatore perché diviene parte del piano stesso. Ancora, sarebbe stravagante che la legge prescrivesse di assicurare una soglia minima di pagamenti per poi considerare sufficiente a riguardo una semplice promessa o un generico impegno espresso nella proposta, verso il quale il Giudice dovrebbe fare un atto di fede[13] o dare un’adesione acritica nella speranza che quanto viene dichiarato si avvererà. D’altra parte è del tutto intuitivo, per non dire ovvio, che la prima attestazione di un piano fattibile sia il conseguimento della soglia minima di soddisfacimento dei creditori chiesta dalla legge.

Inoltre, a dirimere ogni possibile dubbio sulla circostanza che sia relazione del professionista a dover assicurare il pagamento del “minimo garantito” ai creditori, vi è il tenore letterale dell’articolo 163 Legge Fallimentare per cui è “ il professionista” ad attestare “che la proposta di concordato del debitore assicura il pagamento di almeno il quaranta per cento dell’ammontare dei crediti chirografari” con ciò specificando in modo testuale il percorso da seguire nella certificazione dell’obbligazione di risultato. Di più, proprio l’articolo 163 conferma il carattere “effettivo” dell’assicurazione di pagamento perché a tale garanzia consegue l’esclusione di proposte concorrenti con quella formulata dal debitore anche se più vantaggiose per i creditori: il pagamento del 40% dei crediti dunque deve essere certo e, per essere certo, deve essere adeguatamente dimostrato mentre ritenere l’assicurazione un mero impegno contrattuale avrebbe conseguenze non solo dannose ma beffarde per il ceto creditorio.

Infine, le considerazioni espresse risultano rafforzate dall’estensione del falso in attestazioni e relazioni ai documenti, prescritti dall’articolo 186-bis, II comma, lettera b)Legge Fallimentare in tema di concordato in continuità aziendale, nei quali si“…deve attestare che la prosecuzione dell’attività d’impresa prevista dal piano di concordato è funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori”, con ciò ponendo l’accento anche attraverso la sanzione penale per falsificazioni pregiudizievoli della concreta ed effettiva soddisfazione ( e cioè pagamento) dei creditori. .

Sul piano dell’illecito penale, la fissazione di una soglia minima alla proposta concordataria risolve alcuni dei problemi riscontrati nella formulazione di un’accusa per falso in attestazioni. Infatti, per l’individuazione dell’elemento oggettivo del delitto, l’indicazione della percentuale minima di soddisfacimento è certamente un’informazione, anzi è l’informazione rilevante per eccellenza; di più, è il parametro di riferimento funzionale per distinguere i falsi innocui da quelli penalmente significativi attraverso un giudizio di ricostruzione storica che miri a comprendere quali dati o valutazioni si sono rivelate errate determinando lo scostamento dalla soglia garantita.

Per quanto riguarda invece l’elemento psicologico del reato, la previsione di una soglia come condizione di ammissibilità del concordato (oppure come condizione per l’esclusione di proposte concorrenti) opera come preciso movente per la falsificazione dei dati e del giudizio di fattibilità del piano; prima della riforma, infatti, l’assenza di un minimo garantito, presente solo per via giurisprudenziale, rendeva difficile ipotizzare falsificazioni senza un fine preciso, con conseguente ripiegamento e archiviazioni d’indagine in favore di ipotesi di falso solo colposo, privo di rilievo penale. Si vuol ribadire che l’assenza di uno specifico vantaggio e di un preciso scopo per la falsificazione dei dati contabili o del giudizio di fattibilità rende impervia la dimostrazione del dolo di falso; ora, l’assicurazione del pagamento come condizione di ammissibilità della proposta o di esclusione delle domande concorrenti agevola la prova del dolo, di più sposta sull’attestatore (e sul debitore-committente, suo eventuale complice) il compito di precisare che il falso era incolpevole pur in presenza di un plausibile movente normativo.

Con queste modifiche, la circostanza aggravante costituita dal secondo comma dell’articolo 236-bis Legge[14] Fallimentare, la quale incide sui caratteri del dolo e lo trasforma da dolo generico in specifico (e dunque lo cambia da generica rappresentazione e volizione del falso in specifica rappresentazione e volizione di agire per realizzare uno specifico ulteriore obiettivo), acquista spessore perché sempre coincidente con l’obiettivo di accedere, a qualunque costo e dunque anche in modo illecito assicurando percentuali di pagamento irreali, alla procedura di gestione della crisi d’impresa con alta probabilità di “marginalizzazione” dell’ipotesi base di cui al primo comma, ma si tratta dell’inevitabile prezzo da pagare per rendere effettiva ed efficace l’applicazione del delitto di falso in attestazioni e relazioni.

 


[1] In tal senso F. Mucciarelli, L’art.217 bis e la disciplina penale della soluzione della crisi d’impresa, in Crisi di imprese, casi e materiali, Bonelli Editore, 2011, pagg.281 sgg; Bricchetti-Pistorelli, La bancarotta e gli altri reati fallimentari, Giuffrè Editore, 2011, pag. 159: il primo autore parla di “limite esegetico della fattispecie”, i secondi di “cause di delimitazione del tipo”; in entrambe le opere l’articolo 217-bis viene trattato come fatto oggettivo di riduzione del campo di applicazione dei delitti di bancarotta preferenziale e di bancarotta semplice. Questa è sicuramente l’interpretazione più aderente alla lettera della legge, ma anche quella di impatto più limitato perché esclude la possibilità di estensione propria, ad esempio, delle cause di esclusione della punibilità.

[2] Per una rassegna delle posizioni della dottrina e della giurisprudenza in proposito, si veda A. Lanzi, Nuovi reati di false attestazioni, su Il Fallimentarista, Giuffrè Editore, Speciale decreto sviluppo, 2012.

[3] Articolo 67, lettera d), III parte “…il professionista è indipendente quando non è legato all’impresa e a coloro che hanno interesse all’operazione di risanamento da rapporti di natura personale o professionale tali da comprometterne l’indipendenza di giudizio”.

[4] In questo senso l’avvocato Gianluca Minniti, nell’intervento tenuto in data 25.10.2012 alla Scuola di Alta Formazione dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili di Milano.

[5] L’attestazione sulla veridicità dei dati contabili (non contemplata per i piani di risanamento ex art. 67, lettera d) è prevista, per le proposte concordatarie e per gli accordi di ristrutturazione, dagli articoli 161, III comma e 182-bis, I comma, Legge Fallimentare. Nell’ambito degli accordi di ristrutturazione l’art. 182-quinquies, I comma, prescrive di attestare che “…tali finanziamenti sono funzionali alla migliore soddisfazione dei creditori” e l’art.182-septies, V comma, che venga attestata “..l’omogeneità della posizione giuridica e degli interessi economici fra i creditori interessati dalla moratoria” mentre, nell’ambito della disciplina del concordato, l’articolo 186-bis, II comma, lettera b) dispone che si “deve attestare che la prosecuzione dell’attività d’impresa prevista dal piano di concordato è funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori”.

[6] Come noto, in tema di concordato preventivo, la scomparsa del requisito della meritevolezza dell’imprenditore implica la possibilità che anche un’impresa con doppia contabilità (ufficiosa e ufficiale) o registrazioni parziali o inattendibili possa essere ammessa al concordato quando l’attestatore certifichi la veridicità dei dati contabili complessivi e dunque l’attendibilità complessiva della contabilità a fornire una veritiera rappresentazione della situazione economica quale ineludibile presupposto della fattibilità del piano concordatario presentato.

[7] Precisamente, la già citata sentenza Cassazione, sezione V, del 12.1.2016 n.890e la “famigerata” (perché malamente considerata come sentenza abrogativa dello spirito della riforma) sentenza HDC (Cassazione, sezione V, del 15.6.2015).

[8] Giova ricordare che grossolano è il falso talmente evidente da escludere la pericolosità della manipolazione, privo perciò di capacità di incidenza sull’idoneità dell’atto a trarre in inganno e dunque a violare l’affidamento che le persone fanno sulla genuinità del documento o sulla verità del suo contenuto; innocuo è invece il falso privo di danno e cioè di conseguenze per gli interessi delle persone destinatarie dell’atto, dunque incapace di mettere in pericolo l’interesse giuridico tutelato dalla norma. Peraltro, nel caso del valore negativo della cassa, il dato non incide sul patrimonio e dunque è innocuo, ma rappresenta pur sempre un indicatore di “confusione contabile” rilevante.

[9] Il dolo eventuale, di creazione giurisprudenziale, deriva dall’interpretazione dell’articolo 43 del codice penale e trova fondamento nella lettura della definizione della colpa nella sua forma più grave di colpa cosciente (“il delitto… è colposo o contro l’intenzione quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente….”); infatti, come può essere previsto ma non voluto un determinato evento, allora può essere non solo previsto il rischio di uno specifico evento (ad esempio, l’inesistenza di un credito sospetto) ma anche indirettamente voluto, perché l’agente agisce od omette di agire, nella consapevolezza che, in tal modo, il rischio si possa trasformare in avvenimento concreto (ad esempio, l’attestatore consapevole della probabile inesistenza del credito in forza dell’incoerenza dei dati contabili, omette di fare la circolarizzazione o altri accertamenti decisivi e in tal modo vuole l’attestazione del falso credito).

[10] Nell’ordinanza (l’unica sino ad ora) di applicazione di misura interdittiva, si legge che l’indagato “…è un dottore commercialista in possesso dei requisiti di cui all’articolo 67, terzo comma, lettera d) Legge Fallimentare” il quale disattende “i criteri ai quali intendeva conformarsi ..per lo specifico riferimento alle poste di cui all’attivo patrimoniale”: ciò appare sufficiente al Gip per la prova del dolo di falso.

[11] L’attestatore ha un unico interesse, peraltro legittimo, ed è quello alla retribuzione per il lavoro svolto; ma tale diritto sussiste e viene riconosciuto solo rispetto ad un’attestazione veritiera e dunque, almeno in astratto, si tratta di un interesse configgente rispetto alla tentazione di manipolare i dati. Se succede (come spesso capita) che il lavoro dell’attestatore viene pienamente riconosciuto e pagato solo in caso di attestazione positiva e di ammissione al concordato, si tratta di un effetto distorto dei rapporti tra le parti e di cattive pratiche, non certo di una prescrizione normativa.

[12] Nell’interpretazione più “restrittiva” possibile l’attestazione falsa sarebbe un reato a dolo generico diretto concernente le informazioni rilevanti contenute nelle relazioni, mentre in quella più generosa si parlerebbe di un delitto a dolo eventuale per il falso su qualsivoglia informazione tranne nell’ipotesi di informazioni omesse, per le quali occorre l’ulteriore requisito della rilevanza.

[13] L’atto di fede viene magistralmente definito da San Paolo come la conoscenza delle cose invisibili e la speranza delle cose future e dunque appare una soluzione eccentrica rispetto ai parametri di forma e sostanza propri del diritto positivo.

[14] “Se il fatto è commesso al fine di conseguire un ingiusto profitto per sè o per altri, la pena è aumentata”.

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