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Giurisprudenza

Usura: anche gli interessi moratori vanno conteggiati al fine del superamento del tasso soglia. Commento a Tribunale di Milano, 28 gennaio 2014.

12 Marzo 2014

Giancarlo Schiavo e Maria Cristina Costa, Studio legale Schiavo

Di cosa si parla in questo articolo

In materia di usura si moltiplicano i contenziosi con gli Istituti di credito sulla scia della decisione resa da Cass. Civ., Sez I, 9/1/2013, n. 350, per la quale “ai fini dell’applicazione dell’art. 1815 c.c. e dell’art. 644 c.p. si considerano usurari gli interessi che superano il limite stabilito nella legge al momento in cui sono promessi o comunque convenuti a qualunque titolo, e quindi anche titolo di interessi moratori”.

La pattuizione (e non già la corresponsione) di interessi usurari comporta la nullità della clausola contrattuale, con la conseguenza che “non sono dovuti interessi” (art. 1815, comma 2, c.c.).

In questo senso, tra le decisioni più recenti rese dai giudici di merito Corte d’Appello di Venezia, Sez. III, 18/2/2013, n. 342, così massimata: “Il principio di cui all’art. 1815, comma 2, c.c., vale per qualsiasi obbligazione pecuniaria e, quindi, non soltanto per quelle sub specie di interessi corrispettivi, ma anche per quelle sub specie di interessi moratori; dal che, ove, al momento della relativa pattuizione, il tasso di interesse, corrispettivo o moratorio che sia, superi il tasso soglia, la relativa clausola è nulla e, per l’effetto, nessuna somma è dovuta a titolo di interessi ed il mutuatario ha diritto alla restituzione di tutte le somme indebitamente pagate” (in questa Rivista, cfr. contenuti correlati).

In senso contrario si pone una recente decisione del Tribunale di Milano, che, con ordinanza del 28/1/2014, per il caso di pattuizione di interessi di mora superiori al tasso soglia, ha ritenuto nulla la relativa pattuizione, “con l’effetto che, in caso di ritardo o inadempimento, non potrebbero essere applicati interessi di mora, ma sarebbero unicamente dovuti i soli interessi corrispettivi” (in questa Rivista, cfr. contenuti correlati).

L’ordinanza del Tribunale di Milano pone un duplice problema interpretativo.

Il primo problema attiene alla qualificazione della clausola di pattuizione degli interessi all’interno di un contratto, ovvero se la predetta clausola sia da qualificare come un’unica convenzione (tanto per gli interessi corrispettivi che per quelli di mora), ovvero come una duplice clausola, una relativa agli interessi corrispettivi e l’altra relativa agli interessi di mora.

Accedendo alla prima interpretazione, la sanzione della nullità investirebbe l’intera clausola e non solo la sub clausola con la quale risultano convenuti interessi superiori al tasso di soglia.

Diversamente, interpretando le pattuizioni degli interessi corrispettivi e di mora come due distinte clausole, la nullità di una non importerebbe la nullità della seconda, ovvero, come affermato da Trib. Milano cit., la nullità ex art. 1815, comma 2, c.c. della clausola relativa agli interessi di mora non comporterebbe la nullità di quella avente ad oggetto gli interessi corrispettivi, ovviamente se pattuiti nel rispetto del tasso soglia.

Tale seconda impostazione si pone tuttavia in contrasto con la ratio della legge 7 marzo 1996, n. 108, ed in particolare con la modifica da questa apportata proprio all’art. 1815, comma 2, c.c. (infra). Invero, un’impostazione sistematica della questione consente (ed anzi impone) di prescindere da una simile distinzione, essendo chiaro che il legislatore ha inteso sanzionare la condotta usuraia, quali che siano le modalità con le quali questa venga posta in essere.

Il secondo problema interpretativo, aderendo all’impostazione data dal Tribunale di Milano, attiene alle conseguenze della nullità sancita dall’art. 1815, comma 2, c.c., ovvero se alla nullità della clausola relativa agli interessi di mora consegua o meno la debenza degli interessi corrispettivi.

Il Tribunale di Milano ha risolto il problema in senso negativo, affermando che laddove fossero stati pattuiti interessi di mora superiori al tasso soglia la sanzione della nullità investe soltanto questa pattuizione, con la conseguenza che, in caso di ritardo o di inadempimento, “non potrebbero essere applicati interessi di mora, ma sarebbero unicamente dovuti i soli interessi corrispettivi (ove pattuiti nel rispetto del tasso soglia)”.

La decisione si presta ad essere censurata in relazione alla chiara previsione dell’art. 1815, comma 2, c.c., a mente della quale se sono convenuti interessi usurari (anche di mora) “non sono dovuti interessi”; tanto, a meno di non voler accedere ad una interpretazione estensiva dell’art. 1815, comma 2, c.c., ovvero che non sarebberodovuti gli interessi convenuti con la (sola) clausola colpita dalla sanzione di nullità, la quale, tuttavia, appare non consentita a fronte dell’inequivoca lettera della norma.

Il Tribunale di Milano ha ritenuto quindi che alla nullità della clausola relativa agli interessi moratori consegue la non debenza (soltanto) di quegli interessi.

Così argomentando, però, ci si pone in contrasto con la lettera della norma, a meno di non voler affermare, in contrasto con il chiaro dettato normativo, che alla nullità della clausola relativa agli interessi corrispettivi consegue la non debenza (soltanto) di quegli interessi, con l’ulteriore corollario che sarebbero, però, dovuti gli interessi legali.

Come precisato dal Decreto legge 29 dicembre 2000, n. 394, di interpretazione autentica della legge 7 marzo 1996, n. 108, “ai fini dell’applicazione dell’art. 644 del codice penale e dell’art. 1815, secondo comma, del codice civile, si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualsiasi titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento”.

A ciò consegue che se sono convenuti interessi usurari, anche solo di mora, “la clausola è nulla e non sono dovuti interessi”.

Quella della nullità e quella della non debenza degli interessi si pongono come due distinte sanzioni (“la clausola è nulla e non sono dovuti interessi”), con la conclusione che se la nullità dovesse anche solo investire soltanto la clausola di pattuizione degli interessi moratori, non di meno non sono dovuti interessi, né legali, né corrispettivi.

A conferma della correttezza della predetta impostazione, e, per converso, della contrarietà a diritto del principio espresso da Trib. Milano cit., basti rammentare che l’art. 1815, co. 2, c.c., nella versione originaria, prevedeva che in caso di pattuizione di interessi usurari “la clausola è nulla e gli interessi sono dovuti solo nella misura legale”. Con la riforma operata dalla legge 1996/108, il legislatore è intervenuto proprio modificando tale ultima previsione, sancendo l’inesigibilità di qualsivoglia interesse (i.e., financo di quello legale, evidentemente un minus rispetto agli interessi corrispettivi, quanto meno avuto riguardo a quanto accade nella pratica), a chiara dimostrazione della volontà di sanzionare in tal senso (i.e., escludendo il diritto a qualsivoglia compenso per l’avvenuta dazione di danaro a mutuo) chi abbia esatto (rectius, pattuito) interessi usurari.

Reintrodurre tale diritto, addirittura in misura superiore a quella prevista ante riforma, significa contraddire lo spirito di quest’ultima (la cui ratio, come osservato dalla Corte Costituzionale nella sentenza 2002/29, è quella di contrastare nella maniera più incisiva il fenomeno usurario, inter alia inasprendo le sanzioni penali e civili connesse alla condotta illecita) lasciando sostanzialmente privo di sanzione chi l’abbia posta in essere. Né varrebbe eccepire che, in tal modo, il datore di danaro a mutuo verrebbe privato del diritto ad essere compensato del ritardo nella restituzione, corrispondendo tale effetto ad una precisa scelta legislativa finalizzata a tutelare beni di interesse superiore rispetto a quello privatistico or ora menzionato.

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