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Tre interrogativi sull’operazione di salvataggio delle quattro banche

25 Febbraio 2016

Giuseppe Santoni, Ordinario di diritto bancario nell’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”

(*) Il presente intervento è rivolto a sottoporre all’attenzione del lettore tre interrogativi sollevati dalla nota operazione di salvataggio delle quattro banche posta in essere alla fine del mese di novembre 2015, che ha comportato la prima applicazione del d.lgs. 180/2015. Si tratta di tre interrogativi di contenuto molto eterogeneo, non solo giuridico ma anche economico, e che sono accomunati dalla circostanza che è lecito presumere che sono probabilmente le domande che la maggior parte degli interpreti si sono posti. Sono peraltro consapevole che le risposte che saranno di seguito fornite sono molte opinabili, anche perché si avventurano nel campo economico, del quale lo scrivente non può dirsi esperto.

I tre interrogativi sono i seguenti:

1) la risoluzione delle banche è una procedura autonoma e come funziona?

2) le valutazioni dei crediti a incaglio e sofferenza poste in essere dall’Autorità di risoluzione non sono state eccessive e, in ogni caso, come si giustificano?

3) vista l’incidenza negativa che la nuova disciplina ha avuto sulla fiducia nel sistema bancario italiano, è possibile un ritorno al passato, in definitiva un ritorno al bail out in luogo del bail in?

Il primo quesito ha la risposta più facile. Si, la risoluzione è una nuova procedura, ma diversa da ogni altra sinora conosciuta. Non è una procedura concorsuale, anche se i suoi effetti immediati possono essere ancora più invasivi di quelli dello stesso fallimento. Non determina di per sé la cessazione dello svolgimento dell’attività di impresa, anche se le misure di risoluzione possono condurre a tale effetto. Non produce la revoca dell’autorizzazione allo svolgimento dell’attività bancaria, che si determinerà solo a seguito del formale avvio della l.c.a., e non prima dell’emanazione di un apposito provvedimento della BCE, anche nel caso di banche di dimensione non sistemica (come è avvenuto per le quattro banche di cui si discorre).

Si tratta sicuramente di una procedura di crisi, nella quale però il ruolo preponderante è svolto dai provvedimenti adottati dall’Autorità di risoluzione, mentre il compito degli organi della procedura è quello di meri commissari ad acta, vale a dire di semplici attuatori di decisioni adottate ex ante e non modificabili.

Nella vicenda delle quattro banche è emerso in modo inequivocabile che la procedura di risoluzione ha esaurito il suo compito nelle prime due ore del suo svolgimento, con la consegna delle aziende bancarie in esecuzione dei provvedimenti di cessione prima descritti. Nella successiva, brevissima durata, di circa tre settimane, non è accaduto praticamente nulla, essendo la banca in risoluzione ormai priva di patrimonio e di ogni rapporto giuridico.

Venendo al secondo quesito, relativo all’entità delle svalutazioni delle posizioni a incaglio e a sofferenza, che è giunta sino all’83% del loro valore nominale, si tratta sicuramente di svalutazioni imponenti, e che come tali sembrano giustificare le numerose polemiche che hanno sollevato. In particolare, potrebbe generare particolare perplessità la circostanza che una percentuale media di recupero così bassa sia stata attribuita anche alle posizioni garantite da garanzie reali, ed in particolare da ipoteche. In altre parole, una previsione di recupero del solo 17 % del valore nominale di tutti mutui immobiliari detenuti da un’intera banca, può sembrare eccessiva ed ingiustificata. Basti considerare la facilità con la quale il cessionario del credito potrebbe concludere transazioni con i debitori di tali mutui, partendo da un valore di acquisto così basso.

Tali considerazioni, per quanto suggestive, non consentono di considerare le svalutazioni operate dalla Banca d’Italia, in sede peraltro di valutazione provvisoria, come prive di fondamento economico e giuridico. Per comprenderne la ragione intrinseca, occorre porsi nell’angolo di visuale dal quale muovono le norme che impongono di procedere alla risoluzione. L’esigenza di fondo è quella di impedire il contagio della crisi dalle altre banche che compongono il sistema bancario. Ogni banca deve prevedere il proprio piano di risoluzione, deve essere in grado di avere un controllo pieno sui fattori di rischio che possono comprometterne la stabilità, prevedendoli e individuarne specifiche misure di contrasto. Ogni banca insomma deve tenersi lontano dal pericolo di essere risolta. Se però una banca cade nel gorgo, nel buco nero della risoluzione, le conseguenze per lei saranno quelle disastrose di un fallimento, ma più immediate. Il capitale sarà subito azzerato; gli obbligazionisti e i suoi depositanti maggiori non saranno rimborsati; i suoi attivi saranno drasticamente svalutati: se il fallimento è costretto a vendere, come di norma accade, a prezzi fallimentari, ciò accade anche per la banca in risoluzione. Nel fallimento la svendita dei beni si protrae nel corso dei molti, troppi anni della sua durata. Nella risoluzione delle banche la perdita di valore conseguente alla svendita a prezzi fallimentari si verifica e si conclude nel primo giorno.

Alcuni agenti immobiliari affermano che il prezzo delle case si forma in base al bisogno di denaro del venditore. La banca in risoluzione non ha scelta se vendere o meno i suoi attivi: è costretta a svenderli. Il suo bisogno di denaro incide sul valore dei beni che possiede. I suoi attivi valgono poco per la stessa ragione per la quale il curatore fallimentare non riesce a ottenere che un prezzo fallimentare dalle svendite che è costretto a porre in essere.

Vengo ora al terzo e più impegnativo quesito: la nuova disciplina della risoluzione è irreversibile, o è possibile immaginare un ritorno alle precedenti modalità di soluzione delle crisi bancarie, semmai mediante il ricorso a denaro pubblico?

A costo di apparire apodittico, la mia opinione è che le scelte operate dal decreto 180, in attuazione della Direttiva BRRD, sono allo stato irreversibili, per una ragione che ritengo decisiva, anche se forse di essa si è finora parlato troppo poco.

Tale ragione è che è cessata la garanzia sovrana sulle banche, ed è cessata sia perché gli Stati occidentali, ma non solo essi, sono troppo indebitati per potersi permettere di coprire indefinitamente il debito delle banche; sia perché il potere degli Stati è oggi molto meno forte e decisivo che al tempo degli Stati nazionali puri. Tale debolezza risiede non soltanto nella sottoposizione agli impegni assunti in sede internazionale, per l’Italia in primo luogo ai vincoli assunti con i Trattati europei, ma anche e soprattutto per il sempre maggiore controllo, per così dire di mercato, sulla efficienza della gestione del denaro pubblico. Si pensi al rating rilasciato nei confronti degli Stati, ai giudizi di mercato sulla sostenibilità del debito pubblico dei paesi, alle valutazioni internazionali sui livelli di corruzione, di inefficienza, di spreco del denaro pubblico. I comportamenti poco virtuosi sono destinati essere sempre più sanzionati.

Ne consegue che gli Stati sono oggi troppo indebitati e deboli per potersi promettere di salvare gli intermediari bancari inefficienti specie se di grandi dimensioni. Basti pensare al caso delle grandi banche svizzere, delle quali alcune hanno dimensioni economiche superiori a quelle della stessa Confederazione elvetica.

E se gli Stati non hanno questa forza, l’unico rimedio possibile per impedire il contagio è che la banca in crisi imploda su se stessa, evitando che le sue macerie travolgano gli edifici vicini. Si torna così all’ossessione della BRRD e del decreto 180: le perdite delle banche e come coprirle senza che esse ricadano sul contribuente, del paese cui appartiene la banca o addirittura di altri paesi, semmai di lingua tedesca.

Ma tale ossessione non è solo della BRRD: questa è stata ricalcata quasi integralmente dal Dodd Frank Act americano. In altre parole, la disciplina della risoluzione è comune a tutti i paesi occidentali. E’ la risposta concordata di tutti i paesi al rimedio del bail out fornito nel 2007 e nel 2008 alla crisi delle banche: bail out ormai ritenuto troppo costoso e impraticabile in paesi ben più ricchi del nostro.

Il nostro Paese non può seriamente pensare di tornare al mondo di ieri e di superare la disciplina del bail in, ritornando al sistema della garanzia sovrana: al riguardo non posso fare a meno di ricordare una citazione, tratta dalla bella storia dell’ordinamento bancario italiano curato da Enrico Galanti, e ricavata dalla Relazione annuale del 1936 del Governatore della Banca d’Italia, Gaetano Azzolini, il meno celebrato di tutti i Governatori. Azzolini più o meno diceva che occorre contrastare la perniciosa concorrenza tra le banche, perché poi esse falliscono e lo Stato è costretto a porvi rimedio. E’ la enunciazione della concezione oligopolistica e anticoncorrenziale dell’attività bancaria, alla quale anche l’Italia repubblicana ha pienamente aderito, fino alla caduta del muro di Berlino.

E’ una concezione che il nostro Paese ha superato attraverso una serie di passi successivi, tutti irreversibili: la privatizzazione del sistema bancario; l’adesione alla Moneta unica europea; l’accettazione delle discipline di Basilea sullo svolgimento dell’attività bancaria; la riforma del diritto societario, con l’attenuazione della differenza tra azioni e obbligazioni, e con l’emissione delle obbligazioni subordinate praticamente da parte delle sole banche; la condivisione delle scelte compiute in materia di Unione Bancaria Europea .

La disciplina del bail in, e prima ancora del burden sharing, si caratterizza peraltro per il fatto di essere il secondo pilastro dell’Unione bancaria Europea, insieme al primo della Vigilanza unica europea e al terzo, costituito nel Fondo di risoluzione Unico.

Ogni ripensamento sulla disciplina delle crisi bancarie appare politicamente impossibile, senza l’integrale ripudio di tutto il cammino compiuto in comune agli altri Paesi che hanno aderito alla Unione europea, e probabilmente senza l’abbandono delle stessa Unione. Ma soprattutto quel ripensamento, da qualsiasi Paese posto in essere, sarebbe economicamente privo di senso, perché non è affatto detto che gli Stati abbiano, o continuino ad avere, nel loro complesso la forza economica di fare fronte a crisi che coinvolgessero contemporaneamente numerose banche di rilevanza sistemica. E’ questa la chiara indicazione emersa nella crisi del 2008, indicazione che costituisce la principale giustificazione della nuova disciplina.

(*) Tenutosi a Trento, 12 febbraio 2016.

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