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Giurisprudenza

Sulla validità delle fideiussioni rilasciate in conformità al modulo predisposto dall’ABI

19 Ottobre 2018

Piero Cecchinato, Studio Legale CCM

Tribunale di Treviso, 26 luglio 2018, n. 1623 – G.U. Cambi; Tribunale di Rovigo, 9 settembre 2018 – G.U. Bazzega

Di cosa si parla in questo articolo

La questione controversa

Nella disputa sorta in merito alle implicazioni concrete della decisione di Cass. Civ. n. 29810 del 12.12.2017, che ha messo in discussione la validità delle fideiussioni rilasciate in conformità al modulo negoziale predisposto dall’ABI nel 2003 e giudicato anticoncorrenziale dal provvedimento di Banca d’Italia n. 55/2005, si inseriscono due recenti pronunce a cui dedichiamo una breve nota di commento: la sentenza n. 1623 del 26.7.2018 del Tribunale di Treviso, Giudice unico dott. Andrea Valerio Cambi, che ha ritenuto la validità del negozio a valle, ancorché declinante l’intesa censurata e l’ordinanza del Tribunale di Rovigo del 9.9.2018 che, invece, ha ritenuto che la nullità possa riguardare soltanto le singole clausole ritenute lesive della concorrenza dall’autorità (si tratta delle clausole di sopravvivenza della fideiussione per l’ipotesi di annullamento o dichiarazione di inefficacia del pagamento del debitore principale e per quella di eventuale restituzione del pagamento da parte del creditore per invalidità del rapporto principale, e della clausola di deroga all’art. 1957 c.c., che impone di coltivare le proprie istanze entro un certo termine, pena la perdita dei diritto verso il garante, rispettivamente artt. 2, 6 e 8 dello schema di fideiussione dell’ABI).

Come è noto, il passaggio saliente della pronuncia di Cass. Civ. n. 29810/17 è contenuto al punto 11.6 della sentenza, ove si afferma che “la Corte territoriale, che è l’organo deputato all’accertamento in fatto, alla luce dei principi sulla prova privilegiata elaborati da questa Corte, non può (né potrà, ancora) escludere la nullità di quel contratto per il solo fatto della sua anteriorità all’indagine dell’Autorità indipendente ed alle sue risultanze, poiché se la violazione “a monte” è stata consumata anteriormente alla negoziazione “a valle”, l’illecito anticoncorrenziale consumatosi prima della stipula della fideiussione oggetto della presente controversia non può che travolgere il negozio concluso “a valle”, per la violazione dei principi e delle disposizioni regolative della materia (a cominciare dall’art. 2, della Legge antritrust).”

 

La pronuncia del Tribunale di Treviso

Preliminarmente è degno di nota che il Giudice abbia affrontato la questione seppur dedotta a preclusioni già maturate, trattandosi di questione di nullità negoziale, “come tale sempre soggetta al potere dovere di rilievo ufficioso”, ferma restando la necessità di valutazione “sulla scorta dei documenti e degli elementi ritualmente acquisiti al giudizio”.

Nel corso del processo l’opponente non allegò il provvedimento di Banca d’Italia, a cui al tempo spettava la vigilanza sulle imprese anche in materia di concorrenza, né il parere dell’AGCM a cui la delibera di Banca d’Italia si uniformò, ma il Giudice, pur ritenendo che solo per questo la deduzione avrebbe dovuto essere rigettata, ritenne comunque di svolgere una disamina critica dei principi ricavabili da Cass. Civ. n. 29810/17.

Nullità causale derivata

Anzitutto, il Giudice non ha ritenuto la sussistenza di un “vincolo di dipendenza funzionale, o, quantomeno, di un collegamento negoziale oggettivamente apprezzabile” fra l’intesa censurata dall’autorità e il singolo negozio fideiussorio stipulato conformemente a tale intesa (pag. 10 della sentenza).

“Detto altrimenti” – ha sostenuto il Tribunale – “perché il meccanismo della nullità derivata possa trasmettersi dall’infrazione anticoncorrenziale ai sottostanti contratti a valle, è in ogni caso necessario accertare preliminarmente l’esistenza di un nesso di indissolubile dipendenza con l’intesa a monte, legame questo che non sembra invece riscontarsi con riguardo alla normale dinamica contrattuale individuale in cui, al contrario, le intese mostrano di non costituire un tutt’uno con i contratti a valle, di non essere a questi collegati né per legge né per volontà delle parti e di non rappresentarne in alcun modo un presupposto di esistenza, validità od efficacia” (pag. 11 sentenza).

Solo nei c.d. “subcontratti”, ha affermato il Tribunale, potrebbe ritenersi una simile “dipendenza” causale, con la conseguenza di farsi discendere, dalla invalidità dell’accordo principale, la caducazione automatica anche dell’accordo subordinato (si pensi, ad esempio, alla sublocazione) (pag. 11 della sentenza).

Per il Giudice, nemmeno potrebbe ravvisarsi un “collegamento negoziale in senso tecnico”, mancando sia il requisito oggettivo (costituito dal “nesso teleologico fra i negozi, volti alla regolamentazione degli interessi reciproci delle parti nell’ambito di una finalità pratica consistente in un assetto economico globale ed unitario”), sia il requisito soggettivo (“costituito dal comune intento pratico delle parti di volere non solo l’effetto tipico dei singoli negozi in concreto posti in essere, ma anche il coordinamento tra di essi per la realizzazione di un fine ulteriore, che ne trascende gli effetti tipici e che assume una propria autonomia anche dal punto di vista casuale”) (pag. 11 della sentenza).

Rispetto al requisito soggettivo, in particolare, il Giudice ha ricordato che in difetto di identità soggettiva fra tutti gli stipulanti e in caso di partecipazione di un terzo agli accordi, la volontà delle parti rispetto a un collegamento fra i negozi interessati dovrebbe venire indagata con maggior rigore.

In mancanza di un siffatto collegamento, il contratto a valle che presenti in astratto “i requisiti strutturali di validità previsti dalla legge e non persegua in sé una causa illecita o immeritevole per l’ordinamento giuridico, non può subire effetti invalidanti in dipendenza dell’accertamento della nullità o della caducazione di un rapporto giuridico diverso intercorso tra terzi” (pag. 12 sentenza).

Per il Giudice, pertanto, “la circostanza che l’impresa collusa uniformi al programma anticoncorrenziale le manifestazioni della propria autonomia privata, non appare sufficiente a privare il successivo contratto a valle di una autonoma ragione pratica” (pag. 12 sentenza).

Da queste premesse, appare “arduo individuare un nesso di dipendenza delle fideiussioni con la deliberazione dell’ABI incriminata, né un vero e proprio collegamento negoziale, nel suo significato più tecnico” (pag. 12 sentenza).

Negli stessi testi contrattuali, invero, il Giudicante non ha rinvenuto richiami alla deliberazione di approvazione del modello standardizzato di fideiussione, né è risultato che tale deliberazione vincolasse in qualche modo le banche aderenti (cfr. ancora pag. 12 della sentenza).

Nullità endogena per illiceità della causa

Il Giudice ha escluso anche qualsiasi ipotesi di nullità per ragioni causali proprie della singola fideiussione, non ravvisando una causa in concreto, intesa come scopo pratico perseguito dalle parti, che potesse qualificare il negozio in termini di illecito.

Motivo illecito

Anche apprezzando la fideiussione rispetto alla categoria dei motivi il Giudice non ha ritenuto la sussistenza di alcun illecito, poiché solo una precisa condivisione di intenti illeciti fra le parti potrebbe portare all’invalidità ai sensi dell’art. 1345 c.c., condivisione non ravvisabile nel caso di specie.

Contrarietà a norme imperative

La sentenza, pur prendendo nella dovuta considerazione l’architettura dell’art. 2 della l. 287/1990 e riconoscendo che la norma sanzioni anche “i profili comportamentali tenuti nella contrattazione con terzi dalle imprese che si siano determinate a formare un cartello” (pag. 13 della sentenza), tuttavia ha ritenuto che per “affermarsi la nullità negoziale per violazione di norme poste a presidio di interessi generali, è necessario che dette norme disciplinino direttamente elementi intrinseci alla fattispecie negoziale, ovvero impongano determinate condizioni di liceità della stipulazione quali, ad esempio, particolari autorizzazioni amministrative ovvero l’iscrizione di uno o entrambi i contraenti in appositi albi o registri” (pag. 14 della sentenza).

Al di fuori di queste ipotesi, per il Giudice, “l’inosservanza di norme, pur imperative, che impongano o precludano alle parti taluni comportamenti (e che non siano corredate da specifiche ipotesi di nullità testuali, sovente a matrice protettiva), non può determinare la nullità dell’atto negoziale eventualmente posto in essere in loro violazione” (pag. 14 della sentenza).

L’occasione per tale conclusione è stata offerta al Giudicante dalla differenza, ritenuta “principio cardine del sistema”, fra violazione di regole di comportamento (che “giustifica soltanto la l’adozione di rimedi risarcitori” come insegnerebbe la nota Cass. Civ. SS.UU. n. 26724/2007 sulle conseguenze della violazione delle regole di comportamento da parte dell’intermediario) e regole di validità degli atti (pag. 14 della sentenza).

A sostegno di tale conclusione risulta molto efficace la sentenza nel considerare che, ragionando diversamente (ed in difetto di previsioni espresse sul carattere relativo e di protezione della nullità sancita dall’art. 2 della L. 287/1990), si esporrebbe ad esempio il consumatore al rischio paradossale di dover retrocedere il bene acquisito, per ipotesi, in esecuzione di un’intesa vietata di vendita sottocosto.

In conclusione, la normativa antitrust non sanzionerebbe “in maniera diretta il contenuto degli atti negoziali, ma un comportamento che si pone a monte di questi” e l’unica tutela esperibile rimarrebbe quella risarcitoria (pag. 15 della sentenza).

La pronuncia del Tribunale di Rovigo

L’ordinanza del Tribunale di Rovigo premette di ritenere validi gli argomenti utilizzati dalla pronuncia di Cass. Civ. n. 29810 del 12.12.2017, che idealmente si inserisce nel solco già tracciato da quella di Cass. Civ. SS.UU. n. 2207/2005, ma ritiene che la nullità ravvisabile nel caso di specie “non possa che considerarsi parziale, e quindi riguardare le sole clausole indicate (…) come violative della normativa antitrust, con la conseguenza che – in applicazione del generale principio di cui all’art. 1419 c.c. – il contratto di garanzia non può dirsi interamente nullo, in quanto è di tutta evidenza che la banca lo avrebbe comunque concluso, qualsiasi garanzia essendo migliore della mancanza di garanzia, né l’opponente ha allegato ragioni per cui l’assenza di clausole, peraltro comportanti effetti gravosi nei suoi confronti, lo avrebbero dovuto indurre a non stipulare i negozi in questione”.

Note a commento

Un’analisi di commento delle due pronunce non può che prendere le mosse dalla struttura dell’art. 2 della L. 287/1990, recante “Norme per la tutela della concorrenza e del mercato” e dalla considerazione che il bene giuridico da tutelare, nella fattispecie di cui trattiamo, è l’ordine pubblico economico, ossia il “complesso dei principi e dei valori che contraddistinguono l’organizzazione politica ed economica della società in un determinato momento storico” (Cass. civ. Sez. III, 28/04/1999, n. 4228)

La premessa di ogni considerazione non può che essere che l’art. 2 della L. 287/1990 è norma che pone un divieto e che sanziona gli atti posti in essere in violazione di tale divieto con la nullità.

Il divieto è riferito alle intese, ossia a “gli accordi e/o le pratiche concordati” fra imprese o le “deliberazioni di associazioni di imprese” (art. 2 primo comma) “che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale” (art. 2 secondo comma), “anche attraverso attività consistenti nel fissare direttamente o indirettamente (…) condizioni contrattuali” (art. 2 comma 2 lett. a) e la sua violazione è sanzionata con la nullità di tali intese “ad ogni effetto” (art. 2 comma 3).

E’ pertanto la norma che stabilisce un legame di causa ed effetto rilevante fra l’intesa vietata e l’attività che venga posta in essere conformemente ad essa. E’ la norma che attribuisce rilevanza all’effetto che in concreto l’intesa possa provocare “anche attraverso attività consistenti nel fissare direttamente o indirettamente (…) condizioni contrattuali”.

In altri termini, per stare al caso che ci occupa, la norma attribuisce rilievo anche al negozio a valle inteso come prodotto (“effetto”) dell’intesa vietata, prodotto che ben potrà manifestarsi in termini di attuazione diretta a valle, verso gli utenti finali, di condizioni contrattuali indirettamente fissate per il mercato a monte.

Per usare le parole del Tribunale di Treviso, è la norma che tratta il prodotto dell’intesa vietata alla stessa stregua di un subcontratto, come fattispecie che attinge direttamente alla causa dell’intesa vietata, contaminandone di fatto il sinallagma rispetto all’ordine pubblico economico.

Non servirebbe, quindi, ricercare un collegamento negoziale in senso tecnico e volontaristico come ritenuto dal Tribunale di Treviso, perché è la norma stessa che attribuisce rilievo a qualsiasi manifestazione dell’intesa vietata e che, sanzionando quest’ultima con la nullità “ad ogni effetto”, riverbera l’invalidità sulle stesse manifestazioni (sugli “effetti”) dell’accordo a monte.

Vietando le intese perché illecite la norma, insomma, intente vietarne ed arrestarne gli “effetti”. La legge antitrust, del resto, non tutela tanto l’iniziativa economica e le ragioni del consumatore (beni la cui tutela potrebbe esaurirsi ad un livello privatistico), quanto il mercato inteso come pubblica istituzione nella sua interezza.

Siamo, insomma, nell’area delle nullità da divieto, che vengono in rilievo quando in gioco vi sono beni giuridici di particolare importanza come, appunto, l’ordine pubblico economico che la L. 287/1990 mira a salvaguardare.

Emblematica, sul punto, Cass. civ. Sez. I, 29/12/2011, n. 30020, la quale ha ritenuto che “La mancata osservanza del vincolo di inalienabilità delle azioni corrispondenti ai conferimenti la cui stima sia in corso di valutazione ex art. 2343 comma 3 c.c. si riflette sulla validità dell’atto compiuto nonostante la sua operatività, il quale sarà affetto da nullità, in tal modo sanzionandosi la contrarietà del trasferimento all’ordine pubblico economico”.

Nullità da divieto sono anche quelle (certo, molto discusse) ritenute ad esempio da Cass. civ. Sez. I, 13/7/2017, n. 17352 per il mutuo fondiario che venga concesso senza rispettare i limiti di finanziabilità previsti per legge e da Cass. civ. Sez. I, 24/11/2006, n. 25005 per il caso di violazione del divieto di assistenza finanziaria alla sottoscrizione di azioni proprie (decisione, quest’ultima, resa nel vigore dell’art. 2358 c.c. anteriore alle modifiche introdotte nel 2008).

Il negozio in cui si manifesti l’intesa a valle, pertanto, ben potrà giudicarsi nullo per violazione diretta dell’art. 2 L. 287/1990, ovvero ex art. 1418 c.c. per violazione della norma imperativa di divieto sancita dall’art. 2 L. 287/1990, ovvero ancora per contrarietà della causa all’ordine pubblico economico ex art. 1343 c.c.

Se non ammettessimo la nullità degli atti attraverso i quali si manifesta l’intesa vietata, d’altra parte, la tutela risulterebbe incompleta ed a tratti inefficace (si pensi al caso in cui il consumatore debba resistere alla pretesa esecutiva derivante dal negozio a valle e non possa opporre la nullità del negozio, ma solo la risarcibilità dell’eventuale danno subito).

Lo stesso paradosso ipotizzato dal Tribunale di Treviso, per cui il consumatore potrebbe essere costretto a restituire il bene acquisito in esecuzione di un’intesa vietata per effetto di una pronuncia di nullità, potrebbe trovare soluzione nella categoria dell’interesse ad agire rispetto alla domanda di ripetizione. Escluso, infatti, che l’utente possa avere interesse ad agire per la ripetizione del denaro speso per l’acquisto di un bene sotto costo, appare arduo anche ipotizzare l’interesse, inteso come “esigenza di ottenere un risultato utile giuridicamente apprezzabile” (cfr. ad esempio Cass. Civ. SS.UU., 10/08/2000, n. 565) o “necessità di ricorrere al giudice per evitare una lesione attuale del proprio diritto e il conseguente danno alla propria sfera giuridica” (cfr. Cass. Civ. n. 5420/2002) dell’impresa alla restituzione del bene compravenduto ed ormai divenuto obsoleto.

L’interesse ad agire rimane, invero, un efficace correttivo degli effetti paradossali delle azioni di nullità e deve sussistere anche in capo ai terzi che, ai sensi dell’art. 1421 c.c., per ipotesi, intendessero far caducare il contratto stipulato da altri (cfr. ad esempio Cass. civ. Sez. II, 28/04/2004, n. 8135 che ha escluso l’interesse di un terzo estraneo ad impugnare una delibera assembleare di condominio).

E tale interesse non potrà essere illecito. Non potrà, cioè, ammettersi ad esempio un’azione di nullità da parte di un terzo che intenda con ciò provocare un danno a imprese concorrenti, dovendo ritenersi una simile ipotesi un abuso processuale vietato dagli artt. 2 e 111 Cost. (sul punto cfr., ad esempio, Cass. civ., Sez. VI, 21/02/2018, n. 4136).

Tra l’altro, qualora non si considerasse ammissibile la nullità del negozio a valle, effetti analoghi (a cominciare dall’arresto dell’eventuale azione del preteso creditore verso l’utente) potrebbero conseguirsi con una domanda risoluzione dello stesso per violazione della norma di condotta posta dall’art. 2 della L. 287/1990.

Una simile azione, invero, troverebbe lo stesso fondamento della tutela risarcitoria giudicata come l’unica esperibile dal Tribunale di Treviso (ossia l’inadempimento) e potrebbe reggersi su un giudizio di gravità dell’inadempimento da ritenersi insito nella rilevanza pubblicistica della norma posta a tutela dell’ordine pubblico economico.

Fatte queste precisazioni sulla portata in generale di una declaratoria di illegittimità di un’intesa anticoncorrenziale rispetto ai negozi che ne siano manifestazione, appare persuasivo quanto sostenuto dal Tribunale di Rovigo (e ipotizzato nella parte finale della sentenza anche dal Tribunale di Treviso) sul carattere necessariamente parziale della nullità di cui si tratta nel caso di specie.

Il provvedimento n. 55/2005 di Banca d’Italia, invero, dispone al capo a) della parte dispositiva che “gli articoli 2, 6 e 8 dello schema contrattuale predisposto dall’ABI per la fideiussione a garanzia delle operazioni bancarie (fideiussione omnibus) contengono disposizioni che, nella misura in cui vengano applicate in modo uniforme, sono in contrasto con l’articolo 2, comma 2, lettera a), della legge n. 287/90”, mentre al capo b) afferma che “le altre disposizioni dello schema contrattuale non risultano lesive della concorrenza”.

E’ pertanto il presupposto su cui si fonda la declaratoria di invalidità (il provvedimento di Banca d’Italia appunto) a restringere la tutela dell’ordine pubblico economico ad una parte soltanto della deliberazione dell’ABI.

E così stando le cose, appare effettivamente difficile, come affermato dal Tribunale di Rovigo, ipotizzare che entrambe le parti non avrebbero stipulato la fideiussione senza la parte colpita da nullità. Se, infatti, la banca avrebbe magari ricercato una garanzia diversa (per esempio ipotecaria), appare davvero arduo sostenere che cliente non avrebbe stipulato, poiché senza le clausole censurate la fideiussione sarebbe stata per lui più vantaggiosa.

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