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Giurisprudenza

Sull’invalidità del contratto d’investimento in titoli depositati su conto cointestato

26 Marzo 2021

Arianna Guercini, Dottoranda in Economia e diritto dell’impresa, Università di Bergamo

Cassazione Civile, Sez. I, 13 gennaio 2021, n. 365 – Pres. De Chiara, Rel. Caiazzo

Di cosa si parla in questo articolo

Con l’ordinanza in esame la Corte di Cassazione ha cassato con rinvio la decisione della Corte d’Appello di Roma (n. 1395/2015) con la quale era stata accertata l’invalidità di un contratto d’investimento (avente ad oggetto l’acquisto da parte di un investitore retail di bond argentini) e, conseguentemente, condannato l’intermediario al risarcimento dei danni.

In via preliminare, sono trattate le questioni della legittimazione processuale dell’investitore e della quantificazione del risarcimento. Sia la Corte d’Appello che i giudici di legittimità concordano sul fatto che l’attore sia legittimato all’esercizio dell’azione di risarcimento per l’intera somma investita in obbligazioni, anche se tali titoli risultavano esser state depositati su un dossier cointestato; a tale conclusione pervengono tuttavia adottando una motivazione differente.

Più in particolare, i giudici d’appello avevano ritenuto che, essendo applicabile l’art. 1854 c.c., il saldo del conto non poteva costituire credito ad interesse esclusivo di solamente uno dei contitolari: la funzione del contratto di conto corrente bancario è difatti quella di espletare il servizio di cassa nell’interesse di tutti i contitolari, che dunque possono liberamente disporne dal lato attivo e così far valere le proprie ragioni in sede processuale per l’intera somma.

Al contrario, la Cassazione ritiene che l’art. 1854 c.c. non possa trovare applicazione nel caso di specie. Questo perché se tale disposizione prevede la solidarietà attiva e passiva quanto al saldo del conto corrente, l’azione in concreto esercitata non aveva ad oggetto il saldo, bensì la responsabilità della banca intermediaria per violazione degli obblighi informativi. L’attore pertanto è legittimato all’esercizio dell’azione non ex art. 1854 c.c. bensì in quanto soggetto danneggiato (perché sottoscrivente le obbligazioni) e per l’intero importo dell’investimento.

Viene poi affrontato il profilo della validità del contratto di investimento.

Al riguardo, la Corte di appello aveva accertato che: (i) la banca non aveva correttamente adempiuto agli obblighi informativi che la normativa pone a suo carico [cfr. art. 21, lett. a) e b), TUF e artt. 28 e 29 Reg. Consob n. 11522/98]: la mera consegna di un documento sui rischi connessi, in via generale, all’acquisto di titoli di Stato di paesi emergenti non può essere, difatti, ritenuta sufficiente a liberare l’intermediario dal “diverso e più specifico obbligo d’informazione sulle caratteristiche della singola operazione al fine di consentire una scelta d’investimento consapevole”. Per di più che, secondo la Corte, la banca era a conoscenza della reale e critica situazione economica dell’Argentina in virtù di una serie di documenti (circular offering e nota integrativa ex art. 57, comma 2, del reg. Consob 11971/99; documenti che non risultano esser stati tuttavia prodotti in giudizio dall’attore); (ii) l’operazione di acquisto dei titoli era inadeguata. La dichiarazione ricevuta dall’investitore sulla sua propensione al rischio non poteva, difatti, assumere alcun rilievo in quanto i relativi moduli erano stati sottoscritti l’uno dopo l’acquisto dei titoli e l’altro dopo il default dello Stato argentino.

La Corte di Cassazione, invece, ha constatato che: (i) quanto alla violazione degli obblighi informativi, non è stata data alcuna prova di tale inadempimento. La sentenza d’appello risulta fondarsi difatti in modo esclusivo sui documenti che avrebbero dovuto dimostrare la critica situazione economica dello Stato argentino al momento dell’acquisto dei titoli, quali la cd. circular offering e la nota integrativa ex art. 57, comma 2, reg. Consob n. 11971/1999, che però non sono stati prodotti in giudizio, né sono fatti notori (al riguardo si riporta che: a giugno del 2000 il default dell’Argentina non era prevedibile, considerando altresì che fino ai primi mesi del 2001 le principali agenzie internazionali di rating avevano classificato i relativi titoli di Stato con rating BB; un primo parziale declassamento si registrò solo nella primavera del 2001). Conseguentemente, secondo i giudici di legittimità non era possibile ritenere che all’epoca dell’acquisto delle obbligazioni la rischiosità dei titoli fosse nota, conosciuta (o conoscibile) alla banca; che l’investitore non era stato in alcun modo informato dei rischi inerenti alle obbligazioni (lo era stato in via generale, ma non avrebbe potuto farsi diversamente); che le carenze informative avevano inciso sulle scelte d’investimento dell’attore; (ii) quanto all’inadeguatezza dell’investimento, che non è stato dato alcun rilievo al reale portafoglio titoli del cliente (e in particolare al fatto che i bond argentini costituivano solo una ridotta percentuale del portafoglio) e della sua pregressa esperienza finanziaria (da cui peraltro si desume che l’acquisto delle obbligazioni era avvenuto con l’impiego di somme disinvestite da un fondo più speculativo); (iii) non sussiste il nesso di causalità tra il preteso inadempimento dell’intermediario e l’evento di danno all’investitore, derivato dall’inosservanza degli obblighi informativi. Più in particolare, l’attore non risulta aver dimostrato (come invece era tenuto a fare) che, qualora specificamente informato del rischio dell’investimento, si sarebbe astenuto dall’acquisto; non è stato poi tenuto in debita considerazione la condotta dello stesso, il quale aveva dato esecuzione al contratto, percependo le cedole per quasi due anni prima di promuovere il giudizio e, una volta nota la rischiosità dei titoli, non aveva proceduto al disinvestimento.

 

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