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I ritardi nei pagamenti della Pubblica Amministrazione: l’inizio di un’inversione di tendenza?

2 Febbraio 2015

Avv. Marco Pompeo, Direttore Affari Legali e Societari, Gruppo Banca Sistema

1. Scopo del lavoro

Gli ultimi anni hanno indubbiamente rappresentato uno dei periodi di maggiore fermento normativo caratterizzato dall’emanazione di rilevanti provvedimenti volti a porre rimedio alla cronica situazione di crisi nei tempi di pagamento dei crediti commerciali dovuti dalle pubbliche amministrazioni ai propri fornitori di beni o servizi.

Con il presente articolo si intende offrire, con spirito critico, una panoramica sullo stato in cui versa il settore e i principali strumenti normativi che sono stati introdotti dagli ultimi tre governi per tentare di invertire la tendenza negativa.

2. La crisi del settore

Il ritardo nei pagamenti da parte delle pubbliche amministrazioni italiane rappresenta da tempo una delle principali disfunzioni del sistema economico italiano imputabile a ragioni di diversa natura tra le quali le inefficienze amministrative nella gestione della contabilità pubblica e nei processi di verifica dei crediti e i ritardi nei trasferimenti di fondi dalle amministrazioni centrali a quelle periferiche che spesso interessano più livelli di pubbliche amministrazioni (si pensi, ad esempio, al passaggio di fondi Stato-Regione-ASL nel settore sanitario) determinando una cronica carenza di liquidità degli enti debitori solo in parte sanata dall’introduzione del c.d. federalismo fiscale.

Tali disfunzioni hanno portato a registrare in talune realtà territoriali ritardi pluriennali nei pagamenti e i tempi medi di pagamento in Italia risultano essere tra i peggiori nel panorama europeo. Ciò in evidente contrasto con la normativa interna, di derivazione comunitaria, che impone il rispetto di termini di massimo 60 giorni. Si ricorda a tal riguardo che, nel 2012, a seguito dell’emanazione direttiva 2011/7/UE (che ha modificato la direttiva 2000/35/CE), è stato modificato il D.lgs. n. 231 del 9.10.2002 imponendo, a pena di nullità, che i contratti che regolano transazioni commerciali tra imprese private e pubbliche amministrazioni prevedano i termini di pagamento dei debiti non superiori a 30 o, in casi limitati quali gli enti sanitari, a 60 giorni; dall’altra, è stato fissato un saggio di interessi di mora particolarmente elevato (BCE + 8%) che matura automaticamente senza necessità di alcuna costituzione in mora disponendo la nullità degli accordi di riduzione del tasso che siano gravemente iniqui per il creditore.

Nonostante l’introduzione di termini inderogabili di pagamento dei crediti commerciali sin dal 2002, i tempi medi di pagamento delle pubbliche amministrazioni non sono sostanzialmente migliorati e l’effetto principale della normativa comunitaria è stato piuttosto quello di causare un significativo incremento degli oneri finanziari dovuti all’elevato tasso di mora previsto dalla legge (BCE+8%). Sulla base di recenti notizie apparse sulla stampa stima che l’ammontare per interessi moratori dovuto dalle pubbliche amministrazioni ammonti a non meno 20 miliardi di euro, debito certo da un punto di vista giuridico per il quale le pubbliche amministrazioni non avrebbero effettuato alcuna iscrizione nei propri bilanci. Da ciò è naturalmente scaturito un incremento esponenziale delle azioni legali di recupero dei crediti che operatori più ‘speculativi’ avviano con crescente frequenza per il recupero della vantaggiosa componente di interessi moratori.

Ciò che sorprende è che sino ad oggi non sia stato possibile quantificare con certezza la consistenza dello stock di debito accumulato dalle pubbliche amministrazioni. Non esistono infatti ancora dati certi sull’esatto ammontare di debito e non sono concordanti i dati al riguardo forniti dal MEF, dalla Banca d’Italia o da associazioni di categoria: sino allo scorso anno si stimava che lo stock di debito delle pubbliche amministrazioni oscillasse tra i 60 e i 90 miliardi di euro. La difficoltà nel fornire dati esatti può imputarsi alla difformità di principi contabili addottati dalle pubbliche amministrazioni, all’assenza di chiari obblighi o regole di rendicontazione periodica soprattutto in capo alle amministrazioni periferiche o, sovente, al mancato rispetto di dette regole.

Non essendo previsto nel nostro ordinamento l’assoggettamento della pubblica amministrazione a una procedura fallimentare – o alla stessa equiparabile –che imponga ai creditori una falcidia del proprio credito, le inefficienze amministrative e la carenza di liquidità sono sfociate nell’accumulo di drammatici ritardi nei tempi di pagamento, nell’aumento esponenziale delle azioni legali di recupero e, ove previste dall’ordinamento per determinate categorie di pubbliche amministrazioni, all’avvio delle procedure di commissariamento (nel caso della Regioni per il debito sanitario degli enti del servizio sanitario nazionale) o di dissesto o ristrutturazione del debito (come nel caso degli enti locali soggetti alle norme del TUEL[1]). Per effetto di tali procedure le azioni legali di recupero del credito sono sospese ex lege fermo restando, come detto, il diritto del creditore di ottenere il pagamento integrale del proprio credito e degli accessori all’esito della procedura di risanamento. Negli ultimi anni sono drasticamente aumentati i casi di assoggettamento degli enti a tali procedure e, al contempo, i fallimenti delle imprese fornitrici della pubbliche amministrazioni anche a causa dei mancati incassi dei propri crediti.

Per fronteggiare la crisi, il legislatore ha adottato negli anni addietro una politica difensiva dei patrimoni dei debitori pubblici introducendo norme che, se possibile, hanno aggravato ancor più la posizione finanziaria delle imprese creditrici.

Non a caso, in varie occasioni le corti sovranazionali e nazionali sono dovute intervenire a tutela dei creditori delle pubbliche amministrazioni dichiarando l’illegittimità di tali norme.

Si pensi alle previsioni di natura eccezionale sul blocco dei pignoramenti nei confronti degli enti del servizio sanitario nazionale delle regioni sottoposte a piani di rientro[2] che, prorogate per ben tre anni consecutivi, sono state finalmente dichiarate incostituzionali dalla Corte Costituzionale nel 2013[3] in quanto lesive di primari diritti costituzionali di libertà di impresa e parità di trattamento dei creditori che, nel caso di specie, subivano un’ingiustificata e sproporzionata menomazione dei propri diritti.

Sullo stesso filone possono leggersi la sentenza della Corte Europea di Diritti dell’Uomo di Strasburgo[4]che ha riconosciuto lo Stato Italiano quale responsabile in ultima istanza del pagamento dei diritti di credito nei confronti di un Comune in dissesto e, ancora, la copiosa giurisprudenza relativa ai dissesti degli enti locali (all’art. 248, comma 5, del TUEL)[5] che ha statuito che non si possa normativamente escludere la perdurante maturazione degli interessi di mora nel corso della procedura di dissesto ma, semmai, possa solo sospendersene l’azionabilità sino a che la procedura sia in corso.

Si ricorda che le pubbliche amministrazioni godono da tempo di privilegi procedurali in virtù dei quali non possono essere avviate azioni esecutive nei confronti delle pubbliche amministrazioni prima del decorso di un ‘periodo di grazia’ di 120 giorni dalla notifica del titolo esecutivo[6] o non possono essere pignorate, al ricorrere di determinate condizioni, determinate somme vincolate con delibera dei dirigenti responsabili di un ente locale[7] o, per gli enti del SSN[8] le somme destinate all’erogazione dei servizi sanitari essenziali analiticamente individuati con delibera del direttore generale dell’ente; tale ultima previsione era stata dichiarata incostituzionale e, di recente, con il decreto legge 66/2014, il legislatore si è conformato alla sentenza della Suprema Corte specificando termini e modalità di assoggettamento di determinate somme al vincolo di impignorabilità.

Da ultimo, a tutela dei creditori delle pubbliche amministrazioni è altresì dovuta intervenire la Commissione Europea avviando d’urgenza una procedura di infrazione contro l’Italia per la mancata applicazione della normativa sui tempi di pagamento della PA recepita nel citato D.lgs. 231/2002: molteplici denunce ricevute da Bruxelles hanno messo in luce, secondo la Commissione, «il fatto che in Italia le autorità pubbliche impiegano in media 170 giorni per effettuare pagamenti per servizi o merci fornite e 210 giorni per i lavori pubblici».

3. Il ruolo degli istituti di credito

In tale contesto di cronica illiquidità del sistema, un ruolo chiave viene da anni svolto dagli istituti di credito che finanziano le imprese fornitrici delle pubbliche amministrazioni italiane.

Attraverso lo strumento del factoring – forma speciale (rispetto a quella civilistica regolata dagli artt. 1260 e segg. del Codice Civile) di cessione di crediti regolata dalla legge factoring[9] – le banche e gli intermediari del credito autorizzati acquistano a titolo oneroso i crediti commerciali in tal modo subentrando al fornitore di beni o servizi nella posizione di creditore della pubblica amministrazione beneficiaria della prestazione di beni o servizi.

Nel caso in cui la cessione sia effettuata pro solvendo (che rappresenta il regime ordinario di cessione ai sensi dell’art. 4 della Legge Factoring), l’istituto cessionario mantiene la possibilità di ottenere dal cedente la restituzione di quanto versatogli a titolo di corrispettivo di cessione nel caso in cui il debitore ceduto risulti insolvente. Diversamente, nel caso di cessione pro soluto (che rappresenta il regime ordinario di cessione ai sensi dell’art. 1267 del Codice Civile), l’istituto cessionario assume integralmente il rischio di insolvenza del debitore ceduto sopportando dunque ogni rischio connesso al ritardato pagamento del credito acquistato o, in caso di assoggettamento del debitore ceduto a procedure concorsuali o alle stesse assimilabili, alla sua irrecuperabilità totale o parziale.

Naturalmente l’impresa cedente riconosce all’istituto cessionario una remunerazione finanziaria e commissionale per la provvista di liquidità e per i servizi accessori che spesso si accompagnano alla cessione (es. gestione e incasso dei crediti, assunzione del rischio di insolvenza del debitore ceduto).

4. I recenti provvedimenti normativi: l’inizio di un’inversione di tendenza?

È evidente come non si potesse continuare a gestire una situazione di così grave crisi mediante l’adozione di provvedimenti eccezionali, spesso di dubbia costituzionalità, a danno dei creditori e l’assoggettamento di un numero sempre maggiore di enti debitori a procedure di ristrutturazione lesive dei diritti di credito dei fornitori.

Il legislatore nazionale, fortemente sospinto dalle norme comunitarie inderogabili sui tempi di pagamento e di richiami formali della Commissione europea al loro rispetto, dalle decisioni delle corti pro creditore citate in precedenza, dagli appelli di un settore imprenditoriale stremato dai ritardi negli incassi, ha cambiato le proprie politiche per tentare di invertire il trend negativo.

Gli ultimi tre governi (Monti, Letta e Renzi), ricorrendo allo strumento dei decreti-legge, hanno introdotto norme di portata strutturale tese a perseguire il generale obiettivo di miglioramento dei tempi di pagamento e frenare l’inesorabile aggravarsi della crisi finanziaria delle pubbliche amministrazioni e, a catena, delle loro imprese fornitrici adottando misure volte a sanare alla radice le patologie di sistema appena descritte e rendere più equo il rapporto creditore privato – debitore pubblico

Il legislatore ha inteso perseguire tali obiettivi attraverso diversi strumenti:

a) Introduzione della possibilità per le imprese creditrici di compensare i propri debiti fiscali con i crediti commerciali vantati verso le PA.

b) Obbligo per le pubbliche amministrazioni di certificare i crediti su istanza del creditore.

c) Obbligo per le pubbliche amministrazioni di accertare e monitorare lo stock di debito pregresso e corrente.

d) Garanzia dello Stato per i crediti certificati oggetto di cessione.

e) Semplificazione delle modalità di smobilizzo dei crediti certificati.

Oltre alle modifiche normative, sono state effettuate anche massicce iniezioni di liquidità nel sistema in particolare attraverso il DL 35/2013 e da ultimo con il DL 66/2014 per le amministrazioni centrali e periferiche (circa 90 miliardi di euro!) e sono stati consentite deroghe ai vincoli del patto di stabilità interno per consentire alle pubbliche amministrazioni di effettuare maggiori esborsi per onorare i debiti accumulati.

Anche la normativa sull’obbligo di fatturazione elettronica[10], già entrata in vigore nel giugno 2014 per talune categorie di amministrazioni pubbliche e che sarà obbligatoria per tutte le pubbliche amministrazioni a partire dal 31 marzo 2015, indubbiamente contribuisce al perseguimento dei citati obiettivi in quanto volta a rendere maggiormente efficienti e certi i processi di fatturazione, verifica e pagamento delle pubbliche amministrazioni (si sono registrati in passato casi gravi di pubbliche amministrazioni, soprattutto nel settore sanitario, che non sono state in grado di pagare i crediti a causa di smarrimento o distruzione dei documenti contabili).

Si riporta di seguito il contenuto essenziale dei più recenti e rilevanti provvedimenti normativi di per sé emblematici del progressivo processo di sensibilizzazione del legislatore per le tematiche oggetto di trattazione.

4.1. Il pagamento dei crediti commerciali mediante compensazione con i debiti fiscali e le novità dello split payment

Nel 2008 il legislatore introduceva l’art. 48-bis nel D.P.R. 29-9-1973 n. 602 (Disposizioni sui pagamenti delle pubbliche amministrazioni) accordando all’erario un rilevante strumento di riscossione dei tributi. In base a tale norma l’amministrazione obbligata al pagamento di debiti commerciali deve infatti sospendere il pagamento laddove il creditore-fornitore risulti inadempiente all’obbligo di pagamento di una o più cartelle (es. debiti per multe, imposte) per un importo superiore a diecimila euro. In questo modo l’erario si assicura la riscossione di tali debiti erariali compensando sostanzialmente il relativo importo con il credito commerciale del fornitore di una PA. È stata in tal modo introdotta, a danno del creditore, una forma di compensazione legale speciale applicabile anche in difetto del requisito della reciprocità che il Codice Civile prevede come necessario per l’esercizio esercizio della compensazione legale: infatti il pagamento del credito commerciale all’impresa da parte di una determinata pubblica amministrazione (es. una Azienda Sanitaria Locale) può essere sospeso ai sensi dell’art. 48-bis per la presenza di un debito erariale dell’impresa nei confronti di una qualsiasi altra diversa pubblica amministrazione (es. debiti da multe nei confronti di un Comune).

La normativa sulla certificazione dei crediti, sulla quale si tornerà in seguito, prevede l’esplicito obbligo per la pubblica amministrazione certificante di indicare, nell’atto della certificazione del credito, l’importo del credito commerciale decurtato ai sensi dell’art. 48-bis. All’atto del pagamento dei crediti certificati oggetto di cessione, le pubbliche amministrazioni effettuano le predette verifiche esclusivamente nei confronti del cessionario.

Il trattamento di favore inizialmente accordato alla pubblica amministrazione dall’art. 48-bis è stato in parte temperato dall’introduzione da parte del Governo Letta, con il decreto legge n. 145/2013, del diritto del creditore di compensare i propri debiti erariali con i crediti certificati; l’applicazione di tale norma, inizialmente limitata al 2014, è stata prorogata con la legge di stabilità 2015 a tutto il 2015.

Per quanto non assimilabili alle norme sopra descritte, possono essere alle stesse associate per comunanza di finalità perseguite dal legislatore (ie garantire all’erario un più rapido incasso dei propri crediti), quelle in materia del c.d. ‘split payment’ di recente introdotte con la legge di stabilità 2015[11].

Tale norma spiega effetti negativi sulla liquidità delle imprese. Infatti, tramite il c.d. meccanismo dello split-payment, l’IVA inclusa nelle fatture dei fornitori delle pubbliche amministrazioni e dunque pagata dalla pubblica amministrazione al fornitore e, successivamente, da questo all’erario attraverso i pagamenti periodici di IVA, dal 1° gennaio 2015 (salvo proroghe in corso di esame) viene versata direttamente dalla pubblica amministrazione all’erario per conto del fornitore agendo, in questo senso, come sostituto di imposta in virtù di un meccanismo assimilabile a una delegazione ex lege. In questo modo, per garantire incassi certi e più veloci all’erario, le imprese sono state private di debiti da poter portare in compensazione con propri crediti fiscali in tal modo privandole sostanzialmente di liquidità e costringendole ad attendere i lunghi tempi di rimborso dei propri crediti IVA.

La norma, oltre all’indesiderato effetto di cassa sulle imprese, pone diversi quesiti di ordine giuridico e pratico. Si può ritenere che la stessa dia luogo a una delegazione di pagamento o di debito ex lege, in un caso o nell’altro con diversi effetti giuridici sulla relativa porzione di credito; se infatti è indubbio che la stessa sia inesigibile, meno pacifico è ammetterne la disponibilità in capo al fornitore-cedente (e conseguente cedibilità) o, addirittura, l’esistenza della stessa nel caso in cui il fornitore effettui uno storno corrispondente nelle propri scritture contabili.

4.2 Dalla facoltà all’obbligo di certificazione dei crediti commerciali

Nel 2008, attraverso le previsioni contenute all’art. 9 del decreto legge n. 185 del 29.11.2008 (“Misure urgenti per il sostegno a famiglie, lavoro, occupazione e impresa e per ridisegnare in funzione anti-crisi il quadro strategico”), era stata introdotta la facoltà per le pubbliche amministrazioni di rilasciare atti di certificazione , a seguito di istanza presentata dal creditore secondo modelli approvati con decreti del MEF.

In tal modo il creditore viene in possesso di un atto che attesta la sussistenza dei requisiti di certezza, liquidità ed esigibilità di un credito rappresentando, da un punto di vista giuridico, un riconoscimento di debito ai sensi dell’art. 1988 c.c. e dunque invertendo l’onere della prova dell’esistenza ed esigibilità del credito.

Ebbene, l’impostazione della norma è stata sostanzialmente mutata con il DL 35/2013 laddove, anche al fine di consentire al creditore la cessione pro soluto o pro solvendo a favore di banche o intermediari finanziari riconosciuti dalla legislazione vigente, l’iniziale facoltà per la pubblica amministrazione di certificare i crediti su istanza del creditore è stata tramutata in un vero e proprio obbligo. La pubblica amministrazione è infatti oggi obbligata a rispondere all’istanza di certificazione entro il termine massimo di 30 giorni certificando il credito o rifiutando motivatamente la mancata certificazione, totale o parziale, del credito. In caso di mancato rispetto dell’obbligo tempestivo di certificazione o di motivazione del diniego, anche parziale, della stessa sono state previste sanzioni rilevanti per la pubblica amministrazione inadempiente: dalla possibilità per il creditore di richiedere la nomina di un commissario ad acta che provveda alla certificazione in luogo della pubblica amministrazione morosa, all’irrogazione di sanzioni pecuniarie in capo al dirigente responsabile, fino al divieto per la pubblica amministrazione di procedere ad assunzioni di personale o ricorrere all’indebitamento fino al permanere dell’inadempimento.

La certificazione deve indicare obbligatoriamente la data prevista di pagamento che, stando ai prevalenti orientamenti, non può superare i 12 mesi dalla data di certificazione in ragione di vincoli posti dalla normativa comunitaria in materia di indebitamento delle PA. Inoltre, sulla base di una specifica dichiarazione di rinuncia contenuta nel modello ministeriale di istanza di certificazione, il creditore istante si impegna a non intraprendere azioni di recupero del credito sino alla nuova data di pagamento indicata nell’atto di certificazione dalla PA: la valenza di tale rinuncia è discutibile considerato che la norma primaria non contempla tale condizione al rilascio della certificazione ed è esclusivamente prevista nel modello di istanza di certificazione approvato con decreto ministeriale; potrebbbe in tal caso prospettarsi un eccesso di delega.

Con l’introduzione del regime obbligatorio di certificazione, il legislatore sembra aver preso definitivamente atto della necessità di imporre alle amministrazioni statali stringenti obblighi per completare tempestivamente i procedimenti di verifica dei crediti e conseguente pagamento del dovuto. L’entità del regime sanzionatorio è sintomatico della volontà del legislatore di invertire la tendenza e imporre alle pubbliche amministrazioni comportamenti virtuosi sino a quel momento difficilmente riscontrabili. Allo stesso tempo, però, il diritto del creditore di ottenere una tempestiva verifica e pagamento del proprio credito — che è chiaramente e inderogabilmente sancito dalle previsioni del D.lgs. 231/2002 – è stato subordinato all’accettazione di un nuovo termine di pagamento con l’obbligo di rinunciare ad agire giudizialmente prima dello spirare di tale termine. Si può ritenere che la certificazione determini un riscadenziamento del credito che tuttavia, in assenza di un’espressa rinuncia da parte del creditore, non inibisca la perdurante maturazione degli interessi di mora ex D.lgs. 231/2002 dalla data di scadenza originaria del credito sino alla nuova data di pagamento.

Sulla base di esperienze di alcuni istituti di credito, deve purtroppo constatarsi un’applicazione distorta o approssimativa della norma da parte di molte pubbliche amministrazioni le quali, non essendo in grado di effettuare le verifiche sul credito nel termine perentorio di trenta giorni, negano la certificazione adducendo motivazioni del tutto pretestuose ed evidentemente illegittime (es. assenza di fondi o di personale!) con il solo fine di evitare il commissariamento e l’irrogazione di sanzioni. Non è un caso che, ad oggi risulti mediamente certificato solo il 20% dei crediti per i quali viene presentata l’istanza.

4.3 Il DL 35/2013: iniezioni di liquidità, accertamento e monitoraggio dello stock di debito pregresso e corrente

Nell’aprile 2013 il Governo Monti ha varato il decreto legge n. 35 dell’8.4.2013 contenente disposizioni urgenti per il pagamento dei debiti scaduti della pubblica amministrazione, per il riequilibrio finanziario degli enti territoriali, nonché in materia di versamento di tributi degli enti locali.

Mediante il DL 35 si è inteso (i) effettuare una ricognizione di tutto il debito maturato al 31 dicembre 2012, (ii) velocizzare il pagamento dei crediti commerciali maturati fino al 31 dicembre 2012, (iii) rendere più efficiente il sistema dei pagamenti per il futuro.

Gli strumenti utilizzati per tentare di raggiungere tali obiettivi sono stati: (i) una consistente immissione di liquidità nel sistema (circa 40 miliardi di euro), (ii) l’allentamento dei vincoli del patto di stabilità degli enti territoriali; (iii) la digitalizzazione della procedure di certificazione attraverso il portale del MEF, (v) la semplificazione delle procedure di cessione del credito.

Il DL 35/2013 ha imposto a tutte le pubbliche amministrazioni, prevendo specifiche sanzioni per i dirigenti inadempienti, di registrarsi sulla piattaforma elettronica per la gestione telematica del rilascio delle certificazioni e di procedere alla certificazione di tutto il debito pregresso al 31 dicembre 2012 tramite la piattaforma indicando la data prevista di pagamento e ponendo divieto, anche per il futuro, di effettuare certificazioni in forma diversa da quella telematica.

Il DL 35/2013, mosso dal chiaro intento politico di portare benefici alle imprese fornitrici delle pubbliche amministrazioni più che agli istituti di credito cessionari dei crediti ha, da una parte, disposto l’impignorabilità dei fondi aggiuntivi messi a disposizione dal decreto al fine di assicurare che le somme non potessero essere distolte, a causa di azioni esecutive di terzi per crediti correnti, dal pagamento dello stock pregresso e, dall’altra, previsto una postergazione ex lege dei cessionari pro soluto nell’ordine di priorità dei pagamenti a valere di tali fondi aggiuntivi.

Se il divieto di pignoramento sui fondi aggiuntivi trova una sua chiara ratio nelle norme che impongono alle pubbliche amministrazioni di soddisfare i creditori in ordine cronologico e neltentativo di azzerare lo stock di debito pregresso dovuto a creditori in fila da anni, la subordinazione dei cessionari pro soluto nell’ordine dei pagamenti è stata evidentemente introdotta per soddisfare le spinte di certe correnti politiche anti-bancarie a dispetto di probabili vizi di legittimità costituzionale legati all’ingiustificata disparità di trattamento riservata a una particolare categoria di creditori che, anzi, aveva fornito liquidità alle imprese assumendosi in toto il rischio di insolvenza dei debitori pubblici.

Infine, nel DL 35/2013 è stato effettuato un primo tentativo di introdurre norme, poi abrogate ma riprese, come si vedrà di seguito, dal DL 66, in materia di detassazione e semplificazione della cessione dei crediti certificati.

4.4 Il DL 66/2014: garanzia dello Stato per i crediti certificati oggetto di cessione e semplificazione delle modalità di smobilizzo dei crediti certificati

Nell’aprile del 2014, il Governo Renzi, tramite il Decreto Legge n- 66 del 24.4.2014 (“Misure urgenti per la competitività e la giustizia sociale”), proseguendo sulla politica di risanamento inaugurata dal Governo Monti e proseguita dal Governo Letta, oltre a effettuare ulteriori consistenti iniezioni di liquidità, ha introdotto ulteriori importanti strumenti normativi per favorire il pagamento dei crediti commerciali tramite il loro smobilizzo a intermediari creditizi: la garanzia dello Stato, l’intervento della Cassa Depositi e Prestiti quale ulteriore cessionario di crediti certificati ceduti e la semplificazione e detassazione delle cessioni dei crediti certificati a favore di intermediari del credito.

4.4.1 La Garanzia dello Stato

La garanzia dello Stato, prevista dall’art. 37 del DL 66, riguarda tutti i crediti di parte corrente (escludendo, a causa di vincoli dati da patto di stabilità, i crediti per spese in conto capitale e, dunque, tutti i crediti per lavori e opere) certificati tramite la PCC per fatture emesse sino al 31.12.2013 la cui istanza di certificazione non sia stata presentata oltre il 31.10.2014 e vantati nei confronti di pubbliche amministrazioni diverse dallo Stato.

La garanzia si applica solo in caso di cessione dei crediti a banche o intermediari finanziari i quali, dunque, diventano i beneficiari della stessa. La garanzia viene rilasciata a valere di uno specifico fondo istituito presso il MEF e gestito da Consap . La garanzia del Fondo è a prima richiesta, esplicita, incondizionata e irrevocabile e gli interventi del Fondo sono assistiti dalla garanzia dello Stato quale garanzia di ultima istanza. Tale qualificazione giuridica della garanzia, derogatoria del regime civilistico delle eccezioni proprio delle fideiussioni, consente agli istituti di credito cessionari di poter considerare il rischio sotteso al credito commerciale acquistato come rischio-Stato che non determina alcun assorbimento del patrimonio di vigilanza regolamentare. A fronte di tale indubbio vantaggio regolamentare, il legislatore ha però imposto, nell’interesse delle imprese cedenti, le condizioni economiche massime alle quali i cessionari possono acquistare i crediti: tramite il Decreto attuativo del MEF è stato previsto che il tasso annuo, all-inclusive, non possa essere superiore all’1,90% o – caso applicabile il più delle volte – all’1,60%; tali condizioni non appaiono particolarmente favorevoli e ciò sta rappresentando un deterrente rilevante al ricorso allo strumento della garanzia che, sino ad oggi, non ha sortito gli effetti auspicati dal legislatore in termini di volumi acquistati dagli intermediari.

Lo stesso art. 37 consente alle pubbliche amministrazioni debitrici che affrontino temporanee carenze di liquidità di chiedere una ridefinizione dei termini e delle condizioni di pagamento dei debiti, per una durata massima di cinque anni, rilasciando, a garanzia dell’operazione, delegazione di pagamento all’intermediario cessionario o ad altro intermediario che, in virtù di una forma di surroga ex lege introdotta nella norma, può subentrare al cessionario del credito nella posizione di creditore soddisfacendo il primo cessionario. Ciò consente evidentemente alle pubbliche amministrazioni di ridefinire i termini di pagamento del proprio debito cercando sul mercato le migliori condizioni di dilazione.

Sempre in tale contesto è prevista la possibilità che la Cassa Depositi e Prestiti intervenga quale cessionario dei crediti che beneficiano della garanzia dello Stato, siano essi stati o meno oggetto di ridefinizione con il cessionario o altri intermediari. La CDP può a sua volta concedere alla pubblica amministrazione debitrice dilazioni fino a 15 anni. È evidente in tal caso l’intento del legislatore di poter offrire alle pubbliche amministrazioni in maggiore difficoltà un termine ampio per poter adempiere ai propri obblighi di pagamento.

I crediti assistiti dalla garanzia dello Stato, già oggetto di ridefinizione possono essere acquisiti dalle società di cartolarizzazione dei crediti ai sensi della legge 30 aprile 1999, n. 130, ovvero da questi ultimi ceduti a Cassa depositi e prestiti S.p.A., nonché alle istituzioni finanziarie dell’Unione europea e internazionali.

4.4.2 La semplificazione delle modalità di cessione dei crediti certificati

La norma sulla certificazione, come modificata con il DL 35/2013, prevedeva espressamente che la cessione dei crediti oggetto di certificazione avvenisse nel rispetto dell’articolo 117 del Codice Appalti (D.lgs. 12 aprile 2006, n. 163) con l’applicazione delle norme sull’opponibilità della cessione previste dall’articolo 5 della legge factoring che, come modificato nel 2013, ha introdotto delle semplificazioni per l’ottenimento della data certa del pagamento.

L’articolo 37 del DL 66/2014, nell’intento di favorire la cessione dei crediti certificati, ne ha semplificato le modalità di cessione. In particolare, le cessioni dei crediti certificati mediante la piattaforma per la certificazione dei crediti del MEF possono essere stipulate mediante scrittura privata e possono essere effettuate a favore di banche o intermediari finanziari autorizzati, ovvero da questi ultimi alla Cassa depositi e prestiti S.p.A. o a istituzioni finanziarie dell’Unione europea e internazionali. Le cessioni dei crediti certificati si intendono notificate e sono efficaci ed opponibili nei confronti delle amministrazioni cedute dalla data di comunicazione della cessione alla pubblica amministrazione attraverso la piattaforma elettronica, che costituisce data certa, qualora queste non le rifiutino entro sette giorni dalla ricezione di tale comunicazione. Non si applicano alle predette cessioni dei crediti le disposizioni di cui all’articolo 117, comma 3, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, e di cui agli articoli 69 e 70 del regio decreto 18 novembre 1923, n. 2440, nonché le disposizioni di cui all’articolo 7 della legge 21 febbraio 1991, n. 52, e all’articolo 67 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267. Le disposizioni si applicano anche alle cessioni effettuate dai suddetti cessionari nell’ambito di operazioni di cartolarizzazione dei crediti certificati.

La norma è di portata significativa per diversi profili. In deroga a norme esistenti da oltre un secolo(!) e di ingiustificato privilegio per le PA, è ora possibile effettuare le cessioni dei crediti certificati mediante scrittura privata e di notificarle al debitore per via telematica così non dovendosi andare incontro agli onerosi costi notarili e di notifica per il perfezionamento delle cessioni. Inoltre è stato ridotto a soli sette giorni il termine di quarantacinque giorni accordato dall’art. 117 del Codice Appalti alla pubblica amministrazione ceduta per esprimere eventualmente il proprio rifiuto alla cessione. Infine, la norma esclude, in caso di cessione di crediti certificati tramite PCC, l’applicazione delle norme sulla revocatoria in caso di fallimento del cedente in tal modo favorendo l’accesso al credito a un numero assai maggiore di imprenditori che, altrimenti, versando in difficoltà finanziarie, non otterrebbero liquidità dal sistema creditizio proprio in ragione del rischio di revocatoria dell’operazione conseguente al fallimento del cedente nel periodo sospetto.

Sempre al fine di favorire le cessioni riducendone i costi, l’art. 38-bis del DL 66 ha previsto che le cessioni dei crediti certificati alla data del 31 dicembre 2013, nonché le operazioni di ridefinizione dei relativi debiti richieste dalla pubblica amministrazione debitrice e garanzie connesse, sono esenti da imposte, tasse e diritti di qualsiasi tipo. Per quanto favorevole, applicandosi alle cessione l’imposta di registro in misura fissa (200 euro) non appare significativo il beneficio economico arrecato ai fornitori-cedenti.

5. Conclusioni

Non può negarsi che le politiche degli ultimi tre governi hanno segnato un’inversione di tendenza nell’approccio al problema dei ritardi nei pagamenti passandosi da provvedimenti difensivi delle finanze pubbliche a provvedimenti ‘educativi’ delle pubbliche amministrazioni stesse a tal implementando strumenti più efficienti e stringenti di ricognizione, monitoraggio, pagamento e smobilizzo dei debiti.

Certo, non può non constatarsi la tardività di tali interventi, evidentemente dettati dalle istanze di equità e rispetto delle norme avanzate dalle autorità comunitarie, dalle corti e dallo stremato settore imprenditoriale.

La massiccia iniezione di liquidità effettuata negli ultimi due anni per circa 90 miliardi di euro ha naturalmente dato una consistente boccata d’ossigeno al sistema ma timori fondati risiedono nel fatto che, non essendovi in programma nuovi stanziamenti ed essendo anzi stati effettuati tagli di risorse agli enti locali, l’indebitamento delle pubbliche amministrazioni possa addirittura aggravarsi per effetto del progressivo accumularsi degli oneri da interessi di mora al tasso BCE +8% (non iscritti nei bilanci delle pubbliche amministrazioni) e dall’aumento di azioni sistematiche di recupero di tale componente da parte dei creditori.

Inoltre, le nuove norme non hanno tenuto in debita considerazione l’incapacità da parte della pubblica amministrazione, a causa delle note inefficienze strutturali e burocratiche, di conformarsi al nuovo regime di pagamenti nei tempi e nei modi previsti dalla normativa sulla certificazione dando così luogo alle citate storture applicative nei dinieghi di certificazione..

Allo stesso modo, le norme sulla garanzia dello Stato hanno imposto agli istituti di credito condizioni economiche di acquisto fuori mercato di fatto rendendo sino ad oggi del tutto residuale l’accesso a tale strumento.

Più apprezzabile la semplificazione delle modalità di cessione dei crediti certificati, anch’esse giunte però dopo l’applicazione per oltre un secolo di norme addirittura pre-repubblicane (come gli artt. 69 e 70 del Regio Decreto 2440/1023 che richiamano norme del 1865!) a eliminare fardelli di forme risalenti a più di un secolo fa non avendo tuttavia il coraggio di abolire del tutto un ingiustificato privilegio della PA, rispetto a quello di un debitore privato, di poter rifiutare la cessione del credito.

Rimane altresì emblematico dell’atteggiamento altalenante del legislatore – che da una parte concede e dall’altra toglie – l’introduzione delle norme sullo split payment che, come detto, sottraggono ancora una volta liquidità alle imprese e allungano i tempi di incasso da parte delle stesse dei propri crediti IVA.

Evidentemente, le esigenze di cassa dell’erario continuano ad essere prioritarie rispetto alle esigenze di risanamento e ammodernamento strutturale di un sistema di pagamenti ancora lontano da canoni di efficienza e regolarità.

 


[1] D.lgs. n. 267 del 18.8.2009.

[2] articolo 1, comma 51, della legge 13 dicembre 2010, n. 220 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2011), sia nel testo risultante a seguito delle modificazioni già introdotte dall’art. 17, comma 4, lettera e), del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, sia nel testo risultante a seguito delle modificazioni introdotte dall’art. 6-bis, comma 2, lettere a) e b), del decreto-legge 13 settembre 2012, n. 158, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 novembre 2012, n. 189.

[3] C. Cost., sent. n.186/2013.

[4] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo, 24 settembre 2013 (caso De Luca – Italia)

[5] Corte Costituzionale n. 269/1998, TAR Roma n. 34918/2010, Cass. Civile n. 2095/2008 e Cass. Civile n. 1097/2010.

[6] Art. 14 del decreto legge n. 669 del 31.12.1996.

[7] Art. 159 del TUEL.

[8] Art. 1 del decreto legge n. 9 del 18.1.1993.

[9] Legge n. 52 del 21.2.1991.

[10] Art. 1, comma 209, della legge n. 244 del 24.12.2007.

[11] Articolo 1, comma 629, lettera b), della legge 23 dicembre 2014, n. 190.

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