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Rilevanza usuraria dell’anatocismo (con aggiunte note sulle clausole «da inadempimento»)

7 Gennaio 2015

Aldo Angelo Dolmetta, Ordinario di Diritto Privato nell’Università Cattolica di Milano

SOMMARIO*: – 1. Il problema. – 2. Una precisazione preliminare (sulla non vincolatività del quadro amministrativo di riferimento). – 3. Importanza pratica del problema: cenni sul diritto vivente. – 4. (Segue): usura e clausole nulle. – 5. (Segue): «variabili» dell’operatività attuale (ancora a proposito del nuovo art. 120, comma 2, TUB). – 6. Rilevanza usuraria dell’anatocismo. La «condizione economica» di anatocismo. – 7.- (Segue). Transito degli interessi a capitale? – 8. (Segue). L’usura e i costi dell’«erogato» (ovvero della «prestazione di danaro» di cui all’art. 644 c.p.).

 

1.- Il problema

Il problema, attorno a cui ruota il presente lavoro, si incentra sul quesito se la verifica di eventuale usurarietà delle operazioni creditizie poste concretamente in essere debba o meno tenere conto, tra le altre cose, anche del profilo anatocistico che compaia nelle medesime. Con tale ultima espressione intendendo – è bene subito precisare – il fenomeno operativo (provvisto o meno che sia di clausole contrattuali a supporto[1]) per cui gli interessi maturati su un credito vengono, a un certo punto, posti a base di un nuovo e ulteriore conteggio di interessi: tanto che ciò avvenga a seguito del semplice passare del tempo, secondo quanto capita nel conto corrente (apertura in conto e figure similari comprese); quanto che dipenda invece dal verificarsi dell’inadempimento di una rata di mutuo (ma pure di leasing), come nelle ipotesi di preammortamento ovvero di ammortamento alla francese[2].

Al quesito appena formulato rispondono in modo negativo le vigenti Istruzioni che la Banca d’Italia ha emanato «per la rilevazione dei tassi effettivi globali medi ai sensi della legge sull’usura» (agosto 2009). Così almeno si viene a desumere, in difetto di più espliciti interventi, dal passo di queste che dichiara esclusi dal riscontro usurario «gli interessi di mora e gli oneri assimilabili contrattualmente previsti per il caso di inadempimento di un obbligo» (punto C4, p. 14)[3]; nonché dal passo che, per il «caso dei conti correnti», assume che «si fa riferimento ai numeri risultanti dall’estratto conto trimestrale c.d. scalare» e dalla relativa formula di calcolo (punto C3, p. 12)[4].

A me pare, per contro, che al descritto quesito debba darsi opposta – e dunque positiva – risposta. E ciò per una serie articolata di ragioni (v. n. 6 ss.). Prima di procedere all’enunciazione delle quali, tuttavia, sembra opportuno fermare meglio il contesto di riferimento; e così passare a svolgere più ordini di gradate puntualizzazioni.

2.- Una precisazione preliminare (sulla non vincolatività del quadro amministrativo di riferimento)

2.1.- La prima precisazione possiede natura preliminare. Nel senso che si pone propriamente a monte delle specificità del tema dato dal rapporto tra usura e anatocismo. La stessa per di più appare – per il suo tratto iniziale, in via segnata – di tratto oggettivamente scontato. Peraltro, il contesto dell’attuale diritto vivente dell’usura rende comunque opportuno esplicitarne i tratti.

Si deve dunque evidenziare che la presenza in materia di un’indicazione delle Istruzioni della Vigilanza non riduce quella di opposto segno al rango del semplice «dissenso civile», non la rimbalza cioè alla sfera delle mere aspirazioni di cambiamento. Come in linea di principio riconosce la stessa Banca d’Italia, la «verifica dell’usurarietà dei tassi applicati a singoli contratti e le conseguenti valutazioni, sotto il profilo civile e penale, sono rimesse all’Autorità giudiziaria»[5], senza pregiudizi o preconcetti di sorta. Né v’è dubbio – si può aggiungere lungo questa linea – che le Istruzioni sull’usura siano direttamente rivolte alle banche, come intese alla formazione dei TEGM delle varie categorie di operazioni prese in considerazione, non già al riscontro dell’usurarietà delle fattispecie concrete.

Da qui, tuttavia, pure il fattore di complicazione, che porta alla seconda (più articolata e, volendo, meno scontata) parte dell’osservazione. La tesi dell’irrilevanza usuraria dell’anatocismo – fatta propria dalle Istruzioni – si risolve, all’evidenza, in ciò che i TEGM pubblicati trimestralmente non tengono conto del medesimo. Tener ferma la rilevanza usuraria nel riscontro delle fattispecie concrete significa allora predicare una specie di «zoppia» tra il termine di confronto e il termine confrontato. Così come accade, nella realtà delle cose, per tutte le voci del carico economico che le Istruzioni di Vigilanza trascurano di immettere nel conto.

Secondo un’opinione diffusasi con riferimento alla specifica voce degli interessi moratori, e tra l’altro propugnata dai Collegi di coordinamento dell’ABF, il verificarsi di una simile situazione di zoppia sarebbe circostanza da sola sufficiente a escludere – in ragione appunto di un «principio di simmetria» o di «omogeneità», che viene preteso come necessario – la componente pretermessa dal calcolo del TEGM dal riscontro della fattispecie concreta[6]. Chiunque comprende, tuttavia, che la sostanza vera di tale opinione è quella di fare rientrare dalla finestra quanto sembrerebbe volersi cacciare dalla porta[7]. L’Autorità amministrativa non è la legge, però; vi è soggetta, piuttosto. Né si vede perché mai, in ogni caso, il lato zoppo di tale principio di simmetria dovrebbe essere quello dato dalla legge e non già quello formulato dalla Banca d’Italia.

Ora, per la verità, per gli interessi moratori la Banca d’Italia è nel tempo venuta a fornire una distinta, e autonoma, indicazione di peso medio (individuata, in concreto, nella misura fissa di una maggiorazione del 2,1%)[8]: al dichiarato scopo di «evitare un confronto tra tassi disomogenei (TEG applicato al singolo cliente, comprensivo della mora effettivamente pagata, e tasso soglie che esclude la mora)». Sì che, per i moratori, può anche avere senso discutere (al di là delle censure sicuramente proponibili nei confronti del criterio «aggiuntivo», che è stato così formato) se il riscontro della fattispecie concreta vada misurato sul TEGM in quanto tale o su un TEGM invece maggiorato[9].

Per l’anatocismo tuttavia, e così pure per gli altri oneri scartati dalle Istruzioni [quali oggi, per fare qualche esempio, una serie di voci di spesa (e così, per dire, quelle notarili); gli oneri da estinzione anticipata[10]; il c.d. diritto di stipula nel mutuo a risparmio; …[11]], questo non è sinora avvenuto, sì che un’alternativa di quel tipo non trova, allo stato, proprio uno spazio per proporsi.

Con la conseguenza, allora, che si deve prendere atto – per il genere delle voci economiche scartate dalle Istruzioni – della sussistenza dell’anzidetta zoppia. Tanto più che, quale che sia la voce esclusa, resta in ogni caso l’importante constatazione che il «TEGM per il periodo interessato [è] noto all’operatore finanziario perché pubblicato anticipatamente sulla G.U. e così pure il tasso soglia: all’operatore [è] noto che il superamento del tasso soglia [è] comunque vietato»; secondo quanto acutamente rilevato dalla sentenza di App. Torino 5 febbraio 2014, con riguardo a trascurate spese assicurative[12]. Ma, in realtà, per lo specifico tema dell’anatocismo la soluzione della detta zoppia risulta ancora supportata (per il periodo successivo all’1 gennaio 2014) da un ulteriore rilevo, secondo quanto si avrà modo di illustrare nel prossimo n. 5.2. (a proposito dell’effetto deterrente portato dall’avvenuta eliminazione della c.d. riserva legislativa di anatocismo bancario).

2.2.- Fermata quest’osservazione, per continuità espositiva conviene subito aggiungerne un’altra, sempre in ragione del contesto attuale del diritto vivente dell’usura. Il principio di soggezione alla legge dei provvedimenti amministrativi – e della conseguente disapplicazione da parte del giudice di quelli illegittimi – non può non valere anche per la Delibera CICR del 9 febbraio 2000, che ha disciplinato il c.d. anatocismo bancario sulla base del testo dell’art. 120 TUB, precedente a quello introdotto dalla legge di stabilità per il 2014 (v. infra, nel n. 4). I contenuti espressi da tale Delibera, perciò, di necessità devono (potere) essere letti in termini di stretta conformità con le prescrizioni normative della legge antiusura n. 108/1996; altrimenti, vanno disapplicati.

Sul tema, qui solo anticipato, si tornerà verso la fine della trattazione (precisamente nel corso del n. 7). Per l’intanto, sembra opportuno notare che, nei fatti, la detta Delibera già ora viene correntemente disattesa dalla giurisprudenza di merito: con riguardo, in specie, alle modalità da essa previste (e, in effetti, del tutto inidonee) per il transito dei contratti (allora) in essere dal regime codicistico di divieto a quello di riserva bancaria di anatocismo, come introdotto dalla ricordata norma del testo unico (a seguito del d.lgs. n. 342/1999)[13].

3.- Importanza pratica del problema: cenni sul diritto vivente

Nell’ambito del diritto vivente dell’usura, il tema dell’anatocismo ha attirato sinora un’attenzione modesta, senz’altro secondaria. Pressoché inesistente, anzi, se confrontata con quella riservata ai temi «maggiori» della materia: quali quelli classici della commissione di massimo scoperto o degli interessi moratori.

Negli ultimissimi tempi (: nel 2014), tuttavia, sembra che il detto tema stia cominciando a venire a galla al livello della giurisprudenza di merito. Più precisamente, il punto sta venendo a emergere come spin-off, se così si può dire, della tematica dell’usurarietà dei moratori, con riguardo, in via segnata, alla fattispecie composta dalla seguente serie materiale: mutuo con ammortamento alla francese; inadempimento di una rata; applicazione degli interessi moratori come spalmati sull’intero montante della rata (non solo sulla quota capitale, ma anche sulla quota interessi, perciò)[14].

Posta una simile situazione, dunque, si è detto che gli «interessi moratori non si sostituiscano a quelli corrispettivi ma si sommino a questi», sì che i «due indici andranno valutati congiuntamente ed il risultato andrà confrontato con i limiti normativamente imposti (legge n. 108/96 e succ. modifiche)» (così, Trib. Parma, 25 luglio 2014, Cassazione.net; sulla stessa linea di impostazione, v. Trib. Treviso, 11 aprile 2014, IlCaso.it, nonché la «Relazione riunione sezione VI Tribunale di Milano», febbraio 2014, pubblicata in stralcio su dirittobancario.it[15]). Ovvero si è rilevato, e direi con maggior precisione concettuale, che «quando è applicato l’interesse moratorio sull’intero valore della rata … accade che sul montante originariamente previsto si aggiunge il valore degli interessi moratori e questa circostanza, determinando un effetto anatocistico … relativamente alla parte della rata costituita da interessi, produce anche l’aumento del costo del finanziamento e, perciò, può essere rilevante anche ai fini della valutazione della suo usurarietà» (così Trib. Sciacca, 13 agosto 2014; ma v. pure la non meno importante pronuncia di Trib. Palermo, 11 febbraio 2014)[16].

Sul fronte opposto non è peraltro mancato chi ha sostenuto che la «rata impagata perde la sua scomposizione in quota capitale e quota interessi, per divenire … prestazione inadempiuta ex art. 1218 c.c.», che va a «comporre l’aggregato sul quale si determina poi in percentuale l’onere concretamente preteso dalla banca in rapporto alla rata» (così, in specie, Trib. Cremona, 30 ottobre 2014, dirittobancario.it).

Non solo. A fianco dello specifico profilo tematico appena indicato è poi venuto a porsi, in tempi proprio recenti, un intervento giurisprudenziale inteso a vagliare in via diretta l’eventuale usurarietà anatocistica per l’ambito del conto corrente. Il riferimento va alla sentenza di Trib. Torino, 8 ottobre 2014 (in Expartecreditoris), che ha senz’altro esclusa l’ipotesi – confortandosi con le Istruzioni di Vigilanza – e ha dichiarato che l’«assorbimento dell’interesse passivo nel capitale esclude la computabilità dello stesso fra le voci di costo periodico del finanziamento, appunto perché, una volta capitalizzato, l’interesse non è più tale». Secondo tale pronuncia, anzi, «sostenere che, nel calcolo del tasso soglia, occorra tenere conto dell’effetto della capitalizzazione degli interessi è un assurdo»[17].

4.- (Segue): usura e clausole nulle

Nel progressivo accostamento al centro del problema, un altro aspetto che occorre senz’altro prendere in considerazione attiene alla recente modifica del testo della norma dell’art. 120 TUB, come avvenuto (si è appena ricordato) per effetto della legge di stabilità per il 2014 del 27 dicembre 2013, n. 147 (art. 1, comma 629). Modifica che dovrebbe – a quanto pare di capirsi, almeno – comportare l’eliminazione della c.d. riserva bancaria di anatocismo e la conseguente nullità delle relative clausole.

Ora, non è certamente questa la sede adatta per affrontare i tanti spigoli che un simile intervento legislativo viene a proporre: da quelli di diritto transitorio a quelli di lettura del nuovo testo normativo. Doverosamente stigmatizzata la gravità del comportamento dell’Autorità amministrativa che ancora non ha provveduto a emanare regole di «attuazione» di una normativa entrata in vigore sin dall’1 gennaio 2014[18] – così ponendo le premesse per un contenzioso di enorme portata[19] -, è qui sufficiente svolgere un solo ordine di osservazioni, peraltro di importanza assai forte per il tema del rapporto dell’anatocismo con l’usura.

E’ mia meditata opinione che la questione della validità o meno delle clausole anatocistiche – rectius, della definizione specifica dei termini di invalidità delle medesime (per tempo e per contenuti) – non venga ad assumere particolare significato per il tema dell’usura. Nel senso che, se la (ipotetica) validità di una clausola anatocistica pone sicuramente il problema della rilevanza usuraria[20], il giudizio di nullità della clausola stessa non la esclude per nulla.

E’ vero, naturalmente, che le somme percepite sulla base di clausole nulle sono indebite e vanno comunque restituite. Ma questo non elimina la loro rilevanza (e conteggio relativo) ai fini del riscontro di usurarietà delle fattispecie concrete. Non si può trascurare, in effetti, che la nullità di cui alla normativa sull’usura integra gli estremi della nullità di protezione ex art. 127 TUB: di una nullità che istituzionalmente opera, quindi, a esclusivo vantaggio dell’interesse e della posizione del cliente (art. 127, comma 2)[21].

Ora, sembra chiaro che – a fronte di un ipotetico riscontro di usurarietà di una data operazione concreta – la rilevazione della nullità di una clausola anatocistica, che vi si trovi per avventura inserita, è situazione che di per sé opera non a favore dell’interesse del cliente, bensì a danno dello stesso. Là dove, per l’appunto, la stessa viene a ridurre – per oggettiva non debenza – il peso complessivo del carico economico che pur la banca ha preteso, nei fatti, di praticare al cliente. Ne deriva allora, che sul piano dell’effettiva operatività giudiziale, un eventuale giudizio di nullità di una clausola anatocistica (o anche non anatocistica, per la verità, vista l’evidente vocazione generale dell’osservazione che si sta svolgendo) e conseguente condanna in restituzione dell’indebito, risulterà comunque subordinata – anche in punto di rilevazione di ufficio – alla verifica di mancata sussistenza dell’usurarietà nella fattispecie considerata[22].

Ciò posto, è appena il caso di esplicitare la conseguenza ulteriore che in ragione filata discende dai cenni appena formulati. In realtà, il giudizio di usurarietà, che comprenda pure la voce anatocistica, non pretende la preventiva stipula di una clausola apposita, sinanco nulla; per svolgersi, gli è sufficiente la circostanza che la voce venga di fatto esigita[23]; e quindi applicata dal creditore. Secondo una linea sistematica che, del resto, risulta consentanea all’equivalenza tra «promessa» e «dazione» che è condotta dall’art. 644 c.p.; e pure si manifesta sintonica con la parificazione tra «inserimento nei contratti di clausole nulle» e «applicazione alla clientela di oneri non consentiti» che è realizzata dalla norma dell’art. 144, comma 3-bis lett. b., TUB.

5.- (Segue): «variabili» dell’operatività attuale (ancora a proposito del nuovo art. 120, comma 2, TUB)

5.1.- Per quanto mi consta, la pratica bancaria attuale – quella del 2014, cioè – continua ad applicare l’anatocismo. Nell’operatività dei conti correnti (apertura di credito et similia comprese), come in quella dei mutui e come in quella dei leasing; non solo per i contratti in essere, ma pure per quelli avviati nel corso di quest’anno: proprio indifferente, così, ai contenuti della pur vigente normativa portata dal nuovo testo dell’art. 120 TUB.

Al di là della responsabilità dell’Autorità amministrativa per il ritardo che si sta cumulando nell’emanazione della delibera attuativa[24], il fenomeno indica che, evidentemente, qualcosa non funziona al livello dei servizi bancari di compliance. Per lo specifico profilo dell’usura, comunque, la detta constatazione si traduce, com’è non meno evidente, nell’accentuazione dell’importanza pratica del problema oggetto delle presenti note.

Anche perché l’indicazione di irrilevanza usuraria dell’anatocismo, di cui alle Istruzioni della Banca d’Italia – con l’apparente «patente di immunità» che la stessa è in grado di indurre -, ben può portare l’operatività a utilizzi forzanti della relativa leva e dunque a incrementi (più o meno surrettizi) del carico economico dell’operazione. Non è un caso, mi pare, che nella pratica bancaria vengano a registrarsi – secondo quanto attesta l’esperienza dell’ABF – frequenze anatocistiche ancor più strette di quella trimestrale, con smagliature di quella cadenza che pure per i conti correnti rappresenta uno dei punti più costanti e tradizionali dell’operatività bancaria italiana[25]; al di là, cioè, dell’amplificazione che la dinamica anatocistica viene a dare a ciascun micro aumento dei tassi.

5.2.- Detto questo, in ogni caso è sicuro e indiscutibile che il sopravvenuto divieto legislativo di anatocismo bancario (i.e.: l’eliminazione della zona di riserva anatocistica basata sul previgente testo dell’art. 120 TUB) abbia la funzione di deterrente per il futuro della relativa pratica. Certo rimane singolare che – per avere un qualunque segno di risposta dall’operatività – occorra l’emanazione di un provvedimento attuativo dell’Autorità amministrativa, di per sé per nulla necessario. Prima o poi, tuttavia, quest’effetto di deterrenza passerà (dovrebbe passare, rectius) dall’attuale livello solo teorico a uno stadio anche reale.

Con la conseguenza, mi pare, che viene in ogni caso meno quell’esigenza di eliminare la «zoppia» tra voci economiche conteggiate nel TEGM e voci economiche rilevanti per la verifica di usurarietà delle fattispecie concrete, che segue (si ricorderà; cfr. nel n. 2.1.) al fatto che le Istruzioni della Banca d’Italia omettono di includere nel conto delle rilevazioni trimestrale la voce anatocistica. Esigenza che sul piano oggettivo viene meno – a volere essere precisi – sin dall’1 gennaio 2014: nel sistema delle norme di legge, invero, il detto effetto di deterrenza trova la sua causa esclusiva nel mutato assetto della norma dell’art. 120 TUB.

6.- Rilevanza usuraria dell’anatocismo. La «condizione economica» di anatocismo

6.1.- La dimostrazione della rilevanza usuraria dell’anatocismo prende avvio con la constatazione – invero di esperienza comune, di per sé stessa – che le relative clausole contrattuali integrano gli estremi della «condizione economica»: ai sensi e per gli effetti, tra l’altro, della norma dell’art. 116 TUB («pubblicità» delle condizioni economiche dei contratti bancari). Le medesime indicazioni della Banca d’Italia si manifestano univoche in proposito. Cfr., così, le Istruzioni di trasparenza del 29 luglio 2009 (p. 14): «qualora un contratto relativo a un’operazione … di finanziamento preveda la capitalizzazione di infrannuale degli interessi, il valore del tasso, rapportato su base annua, viene indicato tenendo conto degli effetti della capitalizzazione». Cfr., inoltre, il «Prototipo di foglio informativa del conto corrente offerto ai consumatori» (All. 4A) del 10 febbraio 2011, che come «principali condizioni economiche – voci di costo» inserisce la serie: «spese fisse – spese variabili – interessi somme depositate – fidi e sconfinamenti – capitalizzazione (periodicità) – disponibilità somme versate».

Nella sua banalità, la rilevazione a me pare importante, perché orientativa. Nel senso che – di fronte a una disciplina legale della materia economica delle operazioni (anche) bancarie, quale indubbiamente rimane quella di cui all’usura – è in ogni caso da chiedersi perché mai dovrebbe (o debba o possa) valere una regolamentazione differenziata per il punto dell’anatocismo.

Ora, a questo proposito va detto che, per sé, l’orizzonte della disciplina della legge n. 108/1996 accoglie tutte le varie (e tante) voci economiche che vengono fatte gravare sul debitore: a contare, cioè, è l’onere economico complessivo dell’operazione. O, perlomeno, così pensano in tanti[26]. E se l’indicazione, che viene a trarsi dal sistema normativo della legge n. 108/1996, è quella del complessivo carico economico, non sembra avere senso andar poi per pezzi sparsi del medesimo (andare per «pezzi e bocconi», si potrebbe anche dire).

Comunque sia di ciò, non è forse inopportuno un piccolo approfondimento in proposito. L’anatocismo che viene fatto operare sulla rata scaduta del mutuo suppone un inadempimento del debitore: lo stesso partecipa, dunque, della natura comune a tutti gli oneri da inadempimento. Al di là delle specificità che gli sono proprie (cfr. le osservazioni svolte nei nn. 6.2., 7 e 8), il tema della rilevanza usuraria di tale situazione viene così a connettersi con tale più ampia materia (che potrà dirsi dominata, ma certo non risulta esaurita – sembra opportuno rimarcare –, dalla specie degli interessi moratori[27]).

Diversamente le cose stanno per l’applicazione dell’anatocismo all’interno del conto corrente. Nel contesto delle clausole contrattuali di anatocismo predisposte dalla banche (strutturalmente a ricalco pedissequo della vecchia Nub) è, in realtà, la stessa «chiusura di periodo» a porsi come momento di fattispecie della vicenda anatocistica[28]. Né, d’altro canto, potrebbe mai parlarsi di inadempimento del cliente, posto che la persistente permanenza del conto, pur dopo ogni «chiusura di periodo», determina – in una con la correlata applicazione senza soluzione di continuità dell’art. 1852 c.c. – l’inesigibilità delle poste così annotate (c.d. «competenze» di periodo) sino a tutta la chiusura effettiva del conto[29].

Ne deriva che l’anatocismo nel conto corrente raffigura – escluso, com’è manifesto, ogni possibile riferimento alle spese – una forma di compenso (di corrispettivo, di remunerazione, …) addizionale a quello dato dalla fissazione dei c.d. interessi compensativi. L’appartenenza del medesimo al novero delle voci economiche usurarie passa diretta, quindi, attraverso il testo delle norme di legge.

6.2.- Un ulteriore, distinto argomento a favore della rilevanza usuraria dell’anatocismo può trarsi, poi, dalla regola di divieto di anatocismo che, in linea generale, manifesta la norma dell’art. 1283 c.c.: o meglio, la regola di freno e limite forte del fenomeno che la stessa (al di là della sua rubrica) viene a dettare[30].

E’ invero constatazione comune che la detta norma del codice sia «espressione» di una idea di lotta contro l’usura (intesa come eccesivo squilibrio tra le attribuzioni contrattuali) o, comunque, contro un’esplosione del carico economico delle operazioni di credito (in senso lato) che il debitore non è, di media, in grado di comprendere e/o prevedere nei suoi esiti effettuali[31].

Data una simile, non discutibile, ratio della disciplina disposta dall’art. 1283 c.c., sarebbe davvero strano – e sistematicamente incomprensibile – se poi lo stesso fenomeno anatocistico pesasse zero nell’ambito della disciplina di legge specificamente deputata a combattere proprio l’usura. Il tutto, pur senza volersi attardare nel ricordare come la scadenza ravvicinata dei prestiti («a strozzo») per la connessa moltiplicazione produttiva di interessi sia proprio una delle prime, più elementari manifestazioni della c.d. usura di strada (che pure è contrastata dalla legge n. 108/1996).

7.- (Segue). Transito degli interessi a capitale?

Poste queste basi, occorre a questo punto prendere in specifica considerazione e pesare gli argomenti che nel milieu sono stati avanzati – come si è già accennato in via breve (cfr. la parte finale del n. 3) – a supporto della soluzione contraria a quella qui divisata e quindi nel senso dell’irrilevanza usuraria dell’anatocismo. Si tratta, in sostanza, del rilievo per cui l’interesse – una volta capitalizzato – non è più valutabile come tale; con l’aggiunto rilievo che così la pensa la «formula di calcolo del Tasso Effettivo Globale (T.E.G.), utilizzata per la determinazione del tasso soglia»; e con l’ulteriore addizione che così la pensa pure la Delibera CICR del febbraio 2000, di regolamentazione attuativa della riserva bancaria di anatocismo (: «il 1° comma dell’art. 2 della menzionata Delibera CICR legittima il pagamento degli interessi con l’addebito degli interessi in conto: l’obbligazione accessoria da interessi, contestualmente all’addebito, muta in obbligazione principale per sorte capitale»)[32].

Ora, viste le osservazioni svolte nelle prime battute del presente scritto (nel n. 2, in via segnata), delle protesi offerte dalle indicazioni amministrative della Banca d’Italia ci si può sbarazzare con rapidità: in effetti, posta la loro soggezione alla legge, utilizzarle in proposito significa confondere la soluzione con il problema. Quanto al merito della questione, poi, a me pare che il problema dell’ipotetica sublimazione e transustanziazione dell’interesse in capitale sia, a ben vedere, punto di per sé stesso estraneo alla corretta risoluzione della medesima. La questione della rilevanza usuraria dell’anatocismo si pone, cioè, a un livello più profondo del profilo attinente alla specifica vestizione legislativa e/o dommatica del fenomeno materiale dell’anatocismo (anche se la vestizione in un senso o nell’altro ben può provocare, in generale, scarti di disciplina). Come si passerà a propriamente a constatare nell’ultimo paragrafo di questo lavoro.

Comunque (e in ipotesi volendo prescindere da tale ultimo rilievo), che l’interesse divenga capitale perché a un certo punto posto a base di calcolo di ulteriori interessi sembra, in realtà, affermazione solo autoreferenziale[33]; che per nulla risulta secondata dal testo dell’art. 1283 c.c., che appunto si limita a discorrere di produzione di interessi su interessi (persino trascurando un qualunque riferimento al termine «capitale»)[34].

Ogni aggiunta ulteriore è una superfetazione. Come ha opportunamente rilevato la citata ordinanza del Trib. Palermo, 11 febbraio 2014, il «fenomeno della “capitalizzazione” degli interessi non muta la natura di quella componente del credito, riducendosi a una mera operazione contabile avente quale unico scopo quello di far maturare ulteriori interessi su quelli scaduti … Tali interessi non diventano capitale … ma si limitano a sommarsi allo stesso».

Soluzione, quest’ultima, che del resto si mostra in aperta sintonia con affermati orientamenti della Corte di Cassazione. Quale, in via segnata, quello che giudica il sistema dell’ammortamento del mutuo per rate miste di quota capitale e di quota interessi non mutare la natura dei secondi: gli interessi «non vengono capitalizzati … per il fatto di essere computati a scalare nelle singole rate di ammortamento, ma mantengono la loro natura di interessi corrispettivi» (così, di recente, Cass., 29 gennaio 2013, n. 2072)[35]. In effetti, non si vede ragione per cui il mero fatto dell’inadempimento del mutuatario potrebbe poi comportare, esso, un simile mutamento di natura; come afferma il Supremo Collegio, l’applicazione degli interessi di mora anche sulla quota (che era e rimane) di interessi determina nulla più che un «fenomeno anatocistico relativamente alla parte della rata corrispondente all’ammontare degli interessi»; perché mai, d’altronde, l’inadempimento del mutuatario dovrebbe far perdere (retroattivamente o meno) agli interessi maturati la natura di frutto di un capitale dato in godimento?

8.- (Segue). L’usura e i costi dell’«erogato» (ovvero della «prestazione di danaro» di cui all’art. 644 c.p.)

In realtà, la stessa prospettazione dell’alternativa tra mantenimento e perdita d’identità degli interessi, tra autonomia e assorbimento invece nel capitale risulta – lo si accennava poco fa – radicalmente estranea alla logica che è propria della legge n. 108/1996 (ma anche, bisogna pur osservare, a qualunque misura che intenda in qualche modo contrastare il fenomeno usurario). Ancor prima che ammantata di finzionismo dommatico, la tesi per cui l’anatocismo – dovendo essere qualificato come vicenda di transito degli interessi a «capitale» (secondo una ricostruzione che in sé stessa appare quanto meno discutibile, si è appena visto), – si sottrae al riscontro di usurarietà, in realtà, si manifesta oggettivamente scentrata, fuori asse.

Per constatarlo, è sufficiente portarsi al testo della norma dell’art. 644 c.p., così come (ri)formulato dalla legge n. 108/1996; testo che, d’altronde, la tesi qui avversata dimentica compiutamente di prendere in considerazione.

Com’è del resto cosa scontata, la citata disposizione tiene ben distinto quanto il creditore usurario dà o promette da quanto, a sua volta, il debitore usurato dà o promette: da quanto, dunque, costituisce il carico economico la cui eventuale usurarietà va riscontrata. D’altra parte, non sembra discutibile che la nozione di c.d. capitale «versato» (erogato o anche accordato, a seconda della specifica tipologia di operazione) e la nozione di c.d. capitale «scaduto» siano qualitativamente diverse.

Ora, che la produzione anatocistica (si sublimi, o meno, in «capitale») possa stare dalla parte di quanto dato o promesso all’usurato è assunto che appare, in sé stesso, decisamente inverosimile. Tanto più che la legge fa espresso riferimento, a tale specifico proposito, alla «prestazione di danaro o di altra utilità» (comma 1) ovvero pure all’«erogazione del credito» (comma 4; erogato dato o promesso, a seconda della struttura tipica dell’operazione che nel caso venga presa in esame).

Come puntualmente registra la più volte citata ordinanza di Trib. Palermo 11 febbraio 2014, gli «interessi scaduti, sia pure “capitalizzati” non costituiscono provvista del finanziamento»; «al debito che matura a seguito della loro scadenza non corrisponde certo una somma inizialmente mutuata. Così, con riferimento diretto all’anatocismo moratorio; ma lo stesso tipo di discorso viene evidentemente a valere pure per l’anatocismo che nel conto corrente funge da corrispettivo addizionale. Passato a «capitale» o meno che sia, l’anatocismo rappresenta comunque una somma che non viene data al debitore, ma che da questi deve essere pagata al creditore. A me pare impossibile, pertanto, negare allo stesso la qualifica di costo del credito[36].

* Lo scritto è destinato al Liber amicorum Giorgio De Nova.

[1] Su questo specifico aspetto v. infra, la parte finale del n. 4.

[2] Che la «produzione di interessi moratori sulla quota di interessi corrispettivi compresa nelle rate scadute» sia fenomeno di anatocismo è opinione sostanzialmente ricevuta (cfr., da ultimo, Trib. Torino, 17 settembre 2014, in dirittobancario.it; v. anche appresso nel testo, alla fine del n. 7).

Di solito si ritiene che, invece, la conformazione delle rate secondo il metodo di ammortamento alla francese – per quote capitale e per quote interessi – non dia luogo, in quanto tale, a fatti anatocistici (così, adesso, Trib. Modena, 11 novembre 2014, in IlCaso.it; ABF Napoli, 8 luglio 2014, n. 4429). Simile struttura sembra legarsi, piuttosto, a un peculiare meccanismo di imputazione delle somme che il debitore viene via via a versare. Va peraltro registrata anche l’opinione secondo cui comunque l’«imputazione dei pagamenti fatta prima agli interessi produce un effetto anatocistico perché in generale contraria alla legge dell’interesse semplice». In ogni caso – nella non difficile ipotesi in cui il cliente rimanga «sorpreso» dei risultati pratici a cui il meccanismo in concreto risulta condurre – potrà trovare applicazione la struttura rimediale disposta dall’art. 1195 c.c. (cfr., sul punto, il mio Trasparenza dei prodotti bancari. Regole, Bologna, 2013, p. 98, nota 41, e p. 180, nota 6).

[3] In punto di «costi da inadempimento» (promessi o addebitati), la prassi dà conto di situazioni concrete in cui gli stessi raggiungono dimensioni davvero impressionanti.

Esemplare al riguardo appare la fattispecie venuta al vaglio dell’ABF Napoli, 31 luglio 2014, n. 5018 (l’operazione, se ben ho inteso, è un prestito personale). «Costi in caso di ritardato pagamento – Indennità per ritardato pagamento: 10% calcolato sull’importo delle mensilità scadute ed impagate. – Penale per decadenza dal beneficio del termine: 10% sul capitale residuo risultante dovuto. – Tasso di interesse di mora: 14,60% annuo, applicato a seguito di decadenza dal beneficio del termine su quanto dovuto per obbligazioni scadute o impagate per il capitale residuo risultante dovuto maggiorato della penale del 10%». Al di là del dato quantitativo, colpisce in questa somma di predisposizioni contrattuali la previsione di una «penale» a carico del debitore per l’esercizio, da parte della banca, del potere ex art. 1186 c.c.: cosa che a me pare in sé stessa violentissima, quanto assolutamente incomprensibile sotto il profilo tecnico giuridico (su questo punto, peraltro, v. pure nella prossima nota 11).

Non meno segnaletica si manifesta la fattispecie esaminata dall’ABF Milano, 24 settembre 2014, n. 6210 (che – va detto per completezza informativa – ha respinto ogni domanda formulata dal cliente). Si tratta di un prestito personale con «capitale finanziato» di euro 4.983,67, con un TAEG – calcolato dall’intermediario come pari al 21,22% (su tasso soglia del 22,035%) – che espressamente non comprende: le spese di tenuta conto; le spese di incasso e recupero crediti; bolli e francobolli su contratto ed estratti; le spese per le assicurazioni; gli interessi moratori e gli altri costi da inadempimento. Dal contesto della decisione si desume, tra l’altro, che – se il tasso di mora contrattuale sale al 15% annuo (non è nota la base del conto, peraltro) – le spese di recupero credito raggiungono la somma di euro 1.007,13 euro, più di un quinto perciò del «capitale finanziato» (forse l’opportunità non si condensava nell’affidare un simile genere di cliente, verrebbe proprio da osservare).

Per il numero e la varietà delle spese incluse nei costi da inadempimento si può rimandare, in via esemplificativa, alla fattispecie di cui all’ABF Napoli, 6 agosto 2014, n. 5143. Diffusa è, tra le altre, la prassi di addebitare al cliente le spese di recupero credito secondo percentuali proporzionate sull’entità del dovuto, o del recuperato, e di spessore notevole: nell’ipotesi considerata dall’ABF Napoli, 19 giugno 2014, n. 3865, era prevista la misura del 25% del dovuto, ma corrono casi con cifre ancora più alte. Sembra evidente, invero, che in tale modo le spese di recupero possono facilmente diventare fattore di «moltiplicazione» forte del credito.

A quelli da inadempimento sono poi da accostare i «costi da eventuale risoluzione del contratto» (che sono oneri «doppiamente» eventuali, a guardare le cose dalla prospettiva del contratto di credito). Nella pratica spiccano, in proposito, quelli contenuti nelle clausole predisposte per il contratto di leasing, che danno al concedente il potere – nonostante la sopravvenuta risoluzione del rapporto (e indipendentemente dalla effettiva restituzione del bene) – di conseguire tutti i canoni periodici ancora a scadere: oltre a quelli maturati fino alla risoluzione del contratto e rimasti impagati, con aggiunta degli interessi di mora stabiliti in contratto, nonché di mantenere proprietà del bene e riacquisirne il possesso. Tale pratica «distorta» sembra resistere, per la verità, anche agli interventi della Corte di Cassazione, che in più occasioni ne ha dichiarato la non correttezza, sottolineando che simili clausole «attribuiscono alla società [concedente] vantaggi maggiori di quelli che essa aveva diritto di attendersi dalla regolare esecuzione del contratto» (cfr., da ultimo, Cass., 14 gennaio 2014, n. 888, che chiaramente inclina per ritenere nullo tale tipo di clausola). V. pure infra, nella nota 27.

[4] L’univocità del senso di quest’ultimo passo, pur nel suo non tradursi in espressa rappresentazione di parole, mi è stata confermata da Roberto Marcelli.

[5] La frase è tratta dal documento Chiarimenti in materia di applicazione della legge antiusura che la Vigilanza ha rilasciato in data 31 luglio 2013 (il documento è reperibile, tra l’altro, su IlCaso.it).

Nello stesso documento la Banca d’Italia pure precisa che i suoi compiti istituzionali si concentrano, in proposito: .- nell’emanare le «Istruzioni per la rilevazione dei tassi effettivi globali»; .- nell’effettuare «la rilevazione trimestrale, verificando, in tale sede, che gli intermediari rispettino il limite delle soglie di usura; poiché la rilevazione raccoglie dati aggregati per intermediario, categorie e classi di importo, le verifiche trimestrali riguardano dati medi, non riferiti alle singole operazioni»; .- nel verificare, «nell’ambito dei controlli effettuati presso gli intermediari dagli ispettori di vigilanza, … la funzionalità delle procedure di calcolo del TEG»; .- nell’esaminare «gli esposti … fermo restando che non può pronunciarsi nel merito delle controversie, anche quando riguardino i tassi applicati»; .- nel «segnalare all’Autorità giudiziaria gli spetti di possibile rilevanza penale riscontrati nell’ambito dell’attività di vigilanza»; .- nel controllare, «nell’ambito delle verifiche di trasparenza, che le tabelle con i tassi soglia siano correttamente esposti».

[6] Cfr., così, le decisioni 28 marzo 2014, n. 1875; 30 aprile 2014, n. 2666 (in seguito riordinata coma 23 maggio 2014, n. 3412); 24 giugno 2014, n. 3955. Tutte prendendo tratto dalla decisione 10 gennaio 2014, n. 77 (che, per la verità, è concentrata sul fenomeno della c.d. usura sopravvenuta). Questa la formula in uso: «tra i due insieme, quello concretamente pattuito tra le parti … e quello rilevato ai fini della determinazione del “tasso soglia”, vi deve essere una perfetta simmetria, sia sotto il profilo della composizione dell’insieme, sia sotto il profilo cronologico». Su quest’orientamento dell’Arbitro v., adesso, anche Sartori, Deviazioni del bancario e dissociazione dei formanti: a proposito del (diritto al) credito, destinato a Nuova giur. civ. comm.

[7] Sull’autonomia e indipendenza rispetto all’Autorità amministrativa, che dovrebbe connotare l’agire dei Collegi dell’Arbitro bancario finanziario, v. il mio Trasparenza, cit., p. 29 s.

[8] Si tratta, com’è noto, della tesi secondaria – si potrebbe anche dire subordinata – della Vigilanza, che nella sua opzione primaria esclude la rilevanza dei moratori (pur ritenendoli «soggetti alla normativa anti usura») e così va a contrapporsi al consolidato orientamento della Cassazione, oggi seguito pure dalla prevalente giurisprudenza di merito, per cui i moratori contano già a livello di verifica contrattuale e, quindi, anche a prescindere dalla eventuale ricorrenza, in fattispecie, di un inadempimento (sul punto v.amplius, e anche per i riferimenti, il mio Problemi dell’usura: sul perimetro del carico economico rilevante, di prossima pubblicazione in Dir. banca e in Vita notarile; adde, ora, Serrao d’Aquino, Interessi moratori e usura, in dirittobancario.it).

La tesi dell’irrilevanza dei moratori adduce a supporto tre argomenti: il loro essere oneri economici solo eventuali; la neutrità degli stessi, che deriverebbe dalla loro funzione risarcitoria (gli stessi non metterebbero e non toglierebbero, insomma); il fatto che non tenerne conto aiuterebbe a tenere basso il livello dei tassi. Nessuno di tali argomenti, tuttavia, persuade in una qualche misura. Nel rinviare alla successiva nota 11 ogni rilievo sulla rilevanza usuraria del genere degli oneri eventuali, non è forse inopportuno fermare qui qualche appunto sugli altri due argomenti.

Chi discorre di neutrità dimentica – ed è assai grave – la nozione istituzionale per cui le clausole moratorie (dunque, gli interessi moratori di tasso ultralegale) non hanno solo una funzione risarcitoria, ma anche una funzione afflittiva (nel senso della dissuasione preventiva dall’inadempimento) che non è meno importante o istituzionale dell’altra: le clausole di interessi moratori stanno al centro, cioè, della nota figura delle c.d. pene private (su questi punti v., per tutti, Baratella, Le pene private, Milano, 2006, p. 30 ss.). Del resto, basta leggere la norma dell’art. 1224 c.c. per constatarlo. Lo stesso piano dell’operatività smentisce, a sua volta, l’idea della natura meramente risarcitoria dei moratori (o comunque non ibrida degli stessi): la prassi delle banche non mostra clausole di peso identico o con scarti solo infinitesimali; al contrario, il panorama appare articolato e con punte anche di carico particolarmente elevato (a tacere del fatto, su cui si tornerà, che i moratori sono solo una componente dei costi da inadempimento).

Nemmeno merita credito l’osservazione per cui la mancata inclusione dei moratori nel conteggio dell’usura è opzione che tiene basso il livello dei tassi. In realtà, la previsione dei moratori c’è comunque nella prassi, non meno che la loro applicazione. Non pare verosimile, d’altra parte, che – ove il TEGM contasse pure i moratori – la prassi bancaria si orienterebbe nel senso di azzerare, o quasi, la misura convenzionale di tali interessi. Piuttosto, il tenerli fuori dai conti dell’usura, per sé tende ad innalzare la misura richiesta per gli stessi (al di là, ovviamente, di ogni utilizzabilità del rimedio di cui all’art. 1384 c.c, che è rimedio di ben modesta dissuasione preventiva). L’osservazione esaminata si risolve, in ultima analisi, nell’avviso che, se si chiudono gli occhi, la realtà altra scompare.

Respingere la tesi dell’irrilevanza dei moratori non comporta di necessità, però, ritenere che gli stessi contino anche in assenza di inadempimenti del clienti, secondo la tesi della Cassazione. Questa opinione, per verità, sembra inutilmente sovrabbondante: in assenza di inadempimenti, la clausola degli interessi moratori è destinata a non entrare affatto in applicazione (cfr. ancora la prossima nota 11). Come tutti gli altri oneri eventuali, i moratori vengono a fare parte del conto relativo al carico complessivo dell’operazione economica per il debitore se e quando l’evento (un inadempimento, cioè) si verifica.

[9] La Corte di Cassazione non ha mai preso in considerazione, per la verità, il criterio aggiuntivo proposto dalla Banca d’Italia. E così pure si è tenuta tradizionalmente la giurisprudenza di merito, posto in specie che – per espressa disposizione della norma dell’art. 2, comma 4, legge n. 108/1996 – le fattispecie concrete vanno poste a confronto con il «tasso medio risultante dall’ultima rilevazione». E, in effetti, anche con questa norma di legge avrebbe dovuto e dovrebbe andare a confrontarsi il comportamento – che proprio lineare non può essere definito – dell’Autorità di Vigilanza (cfr., sul punto, il mio Su usura e interessi di mora, in Banca, borsa tit. cred., 2013, II, p. 506, nota 14).

Comunque, negli ultimissimi tempi qualche decisione giurisprudenziale comincia a utilizzare il detto criterio aggiuntivo: cfr., così, Trib. Milano, 3 dicembre 2014, in IlCaso.it; Trib. Padova, 23 ottobre 2014, ord. (R.G. 5318/2014), entrambe senza particolari sfoggi argomentativi. A livello di operatività, d’altro canto, oggi si viene a parlare apertamente di «tasso soglia moratoria», secondo quanto indicano le fattispecie esaminate dall’ABF Milano, 24 settembre 2014, n. 6210 e dall’ABF Napoli, 19 giugno 2014, n. 6210.

Nel merito, non si può dimenticare, inter alia, che la misura del criterio aggiuntivo indicato dalla Vigilanza (o «tasso moratorio medio») è frutto di un’indagine fatta solo a campione, parecchio risalente nel tempo e riferita in modo indiscriminato a qualunque genere di operazione.

[10] Cfr. la recentissima decisione di Trib. Pescara, 28 novembre 2014, in dirittobancario.it, secondo cui, per la verifica di usurarietà della fattispecie concreta, occorre conteggiare pure la penale per estinzione anticipata in quanto la stessa «rappresenta un costo del mutuo erogato, seppure solo incerto e potenziale circa il verificarsi in concreto»: «in armonia alle più recenti mentovate statuizioni della giurisprudenza di legittimità, deve ritenersi che assumono rilevanza ai fini della disciplina anti-usura e del superamento del tasso soglia qualsiasi onere collegato alla erogazione del credito e quindi anche il costo pattuito per la estinzione anticipata del mutuo».

Sul punto della penale per estinzione anticipata v. pure la nota che immediatamente segue.

[11] Nel pensiero della Banca d’Italia, tutti i costi eventuali sono – in quanto tali – privi di rilevanza usuraria: «gli interessi di mora sono esclusi dal calcolo del TEG, perché non sono dovuti dal momento dell’erogazione del credito, ma solo a seguito di un eventuale inadempimento da parte del cliente» (così, il documento Chiarimenti in materia di applicazione della legge antiusura, citato nella precedente nota 5); «le penali a carico del cliente previste in caso di estinzione anticipata del rapporto, laddove consentite, sono da ritenersi meramente eventuali, e quindi non vanno aggiunte alle spese di chiusura della pratica» (così, le Istruzione dell’agosto 2009, C4 in fine, p. 14).

Questo modo di ragionare, tuttavia, non riesce per nulla a convincere. In effetti, lo stesso risulta peccare per difetto (come pecca per eccesso, invece, la tesi opposta per cui gli oneri in questione rilevano sempre e comunque per il conto dell’usura). Il fatto che l’applicazione degli oneri eventuali non sia automatica, bensì supponga il verificarsi di dati eventi, all’evidenza non implica che questi oneri non concorrano mai a formare il corredo economico dell’operazione, né che la loro applicazione sia priva di peso per il cliente (anzi!). Se la prospettiva della vigente legge sull’usura è quella di prendere in considerazione il carico economico che complessivamente affligge il rapporto, è corretto ritenere che gli oneri eventuali divengono rilevanti al riguardo se e quando si aprano i presupposti in concreto della loro applicazione (non sempre, né mai). Detto in altri termini: una è la fattispecie per l’usura «automatica», che ha le sue voci economiche; altra è la fattispecie per l’usura «eventuale» (per così dire), con le caratteristiche voci proprie (e volta a volta specifiche; su queste nozioni v. amplius il mio Problemi dell’usura: sul perimetro del carico economico rilevante, citato; è da segnalare, ancora, che una linea prospettica prossima a quella qui tracciata compare talvolta, per quanto in modo sostanzialmente incidentale, in certe decisioni dell’ABF: cfr., così, Napoli,12 agosto 2014, n. 5175).

D’altra parte, se il sistema anti usura intende prendere in considerazione davvero il carico complessivo dell’operazione – secondo un obiettivo assolutamente prioritario, a mio avviso – la scelta della rilevanza degli oneri eventuali nella (sola) prospettiva della loro applicazione diventa, nei fatti, inevitabile. Si ponga mente, così, al tema della cessazione anticipata del rapporto. Un conto è il caso in cui la stessa segua all’esercizio di una facoltà del debitore (cfr. la precedente nota 10); un conto è quello in cui si leghi alla decadenza del debitore dal beneficio del termine (su cui v. sopra, nel corpo della nota 3) o comunque si traduca in una risoluzione per inadempimento, per facoltà del creditore (sempre ivi). Presupposti diversi e diverse voci economiche: sarebbe assurdo fare di tutte queste cose un unico calderone.

Tutto ciò anche a sottolineare con forza, tra l’altro, l’opportunità che le rilevazioni trimestrali contengano pure un’esposizione disaggregata delle componenti considerate del TEGM (cfr. il mio Trasparenza, cit. p. 153; l’idea sta iniziando a circolare: cfr. la «Relazione riunione sezione VI Tribunale di Milano», febbraio 2014, pubblicata in stralcio su dirittobancario.it, a specifico proposito, e per il mutuo, della distinzione tra tasso compensativo e tasso di mora).

[12] A tanto induce, del resto, la stessa clausola generale (di agire dell’impresa, ma che pure è rilevante sotto il profilo direttamente negoziale) di «sana e prudente gestione» che il TUB e anche la Banca d’Italia predicano alquanto.

Non meno evidente è, poi, che la professionalità delle banche e gli interventi dei relativi servizi di compliance non possono ignorare il carattere quasi «istituzionale» della divergenza tra le indicazioni della Banca d’Italia e gli orientamenti della Corte di Cassazione e Banca d’Italia (che finisce per rappresentare, anzi, il punto saliente che il diritto vivente viene a presentare in materia di usura), come anche la forte ampiezza che dei filoni interpretativi emergenti, su più e più punti della materia, al livello di giurisprudenza di merito. Non possiede nulla di paradossale, anzi, l’affermazione che – circa il riscontro di eventuale usurarietà dei contratti concretamente posti in essere (e a differenza, ovviamente, dalle indicazione per le rilevazioni trimestrali, su cui v. sopra, la nota 5) – le Istruzioni emanate dalla Banca d’Italia finiscano ormai per porsi come strumento decisamente secondario di consultazione e orientamento delle banche.

[13] Copiose indicazioni della giurisprudenza (giustamente) orientata a negare valore, per i contratti all’epoca in corso, alla semplice indicazione in Gazzetta Ufficiale, raccomandata dalla Delibera, in Marcelli, L’anatocismo e le vicissitudini della Delibera CICR 9/2/00, in Assoctu, dicembre 2014, p. 8, nota 9.

[14] Questo il testo della clausola esaminata dal provvedimento di Trib. Parma, 25 luglio 2014 (che, tra l’altro, è un provvedimento di parziale esclusione dallo stato passivo del fallimento del mutuatario): «l’importo complessivamente dovuto alla scadenza di ciascuna rata … e non pagato, produce interessi di mora … La parte finanziata approva specificamente il diritto del Banco di imputare gli interessi di mora sull’intero importo della rata scaduta e non pagata».

[15] Per quest’ultima, in particolare, «un possibile cumulo di tasso corrispettivo e tasso di mora potrebbe rilevare, non già con riferimento a una teorica somma numerica di detti tassi, da raffrontare al tasso soglia, ma con riferimento alla concreta somma degli effettivi interessi (corrispettivi e di mora) conteggiati a carico del mutuatario» e così nel caso in cui, «in presenza di inadempimento, il conteggio dell’interesse di mora sull’intera rata scaduta e impagata, comprensiva d’interessi, sommato all’interesse corrispettivo della rata in scadenza, determinasse un conteggio complessivo d’interessi che, rapportato alla quota capitale, si esprimesse in una percentuale superiore al tasso soglia».

[16] Entrambi i provvedimenti sono reperibili su dirittobancario.it: il primo con annotazione di De Simone; il secondo di La Lumia.

Sarebbe ancora da chiedersi se uno spunto nell’indicata direzione non sia eventualmente rintracciabile nei contenuti della recente sentenza di Cass., 25 settembre 2013, n. 21885 (il cui testo integrale è attualmente leggibile su Jusletter). Si tratterebbe, in ogni caso, di un semplice obiter indiretto, perché nei fatti la Corte taglia il problema con il decidere che, essendo il contratto del 1979, la «normativa antiusura … non era applicabile ratione temporis».

Questa, da parte sua, la fattispecie presa in concreta considerazione dalla sentenza e che, nella sua non nitida descrizione, fa sorgere il dubbio della pertinenza: «nella specie era stato previsto un piano quadriennale di preammortamento, ovvero di ratei formati solo di una quota a scalare degli interessi corrispettivi complessivamente dovuti, peraltro, in virtù della natura agevolata del mutuo, posti solo in misura modesta (3,30%, mentre il restante 11,40% era di pertinenza dell’ente territoriale) a carico del mutuatario. Quest’ultimo non aveva corrisposto alcun rateo e ne era conseguita l’operatività della clausola risolutiva espressa e la richiesta di pagamento della quota (integrale a causa dell’omesso versamento dei ratei) degli interessi di preammortamento che fossero scaduti alla data di cessazione della vigenza del rapporto».

[17] Da segnalare è ancora che Marcelli, nella sua recente opera sopra citata, dà conto di entrambe le prospettive sintetizzate nel testo focalizzandole rispetto alle indicazioni contenute nella Delibera CICR del febbraio 2000 (p. 6 ss.). Nel senso dell’irrilevanza usuraria l’autore annota, così, che la delibera «legittima il pagamento degli interessi con l’addebito in conto: l’obbligazione accessoria … muta in obbligazione principale»; «in una diversa lettura del comma 1 dell’art. 2 della menzionata Delibera» per contro – prosegue lo stesso – «senza una specifica indicazione, gli interessi conserverebbero la loro distinta natura, ancorché si consenta loro di produrre ulteriori interessi … la formulazione del precedente testo del comma 2 dell’art. 120 TUB non sembrerebbe escludere questa seconda lettura …».

[18] Quanto meno per le prescrizioni di base della noma (quelle cioè segnate nelle lettere a. e b. dell’attuale art. 120, comma 2, TUB), atteso che la stessa espressamente ne dispone l’applicazione «in ogni caso» (cfr. Sole-24 ore. Plus, 15 marzo 2014). Ma va pure aggiunto che le prescrizioni del CICR, comunque di contorno, non potrebbero in ogni caso remare in direzione contraria alla filosofia della riforma. Così non sarebbe corretta, mi pare, una prescrizione che stabilisse un’imputazione delle rimesse di conto aperto agli interessi prima che al capitale (posto, tra l’altro, il consolidato orientamento giurisprudenziale per cui l’applicazione della norma dell’art. 1194 suppone la c.d. «doppia esigibilità»: tanto del capitale, quanto degli interessi).

Nel senso dell’applicazione della nuova norma anche per tutta l’annata 2014 v., altresì, la Relazione riunione sezione VI Tribunale di Milano; App. Genova, 17 marzo 2014, in dirittobancario.it; Marcelli, op. cit., p. 15 ss.; Quintarelli, Conto corrente bancario: anatocismo e capitalizzazione; prescrizione; azioni di accertamento e condanna, distribuzione dell’onere probatorio e saldo zero, in Assoctu, dicembre 2014; Farina, Le recenti modifiche dell’art. 120 TUB e la loro incidenza sulla delibera CICR 9 febbraio 2000, in dirittobancario.it. (il quale sottolinea in modo particolare come l’avvenuto mutamento legislativo venga pure a travolgere, per l’effetto, pure la Delibera CICR del 2000, che si trova così compiutamente caducata dall’1 gennaio 2014). Sulla nuova norma v. pure le osservazioni di Colombo, Gli interessi nei contratti bancari, Roma, 2014, p. 97 ss.;Maimeri, La capitalizzazione degli interessi fra legge di stabilità e decreto sulla competitività, in dirittobancario.it; Mucciarone, La trasparenza bancaria, in Tratt. contratti diretto da Roppo, V, Milano, 2014, p. 689 ss.

[19] Come correttamente rileva la citata Relazione riunione sezione VI Tribunale di Milano, «non si può ritenere legittimo che una norma regolamentare possa protrarne nel tempo l’entrata in vigore [del nuovo regime di anatocismo bancario] a danno del correntista nel cui interesse la norma di legge è stata emanata».

[20] E’ sicuramente valida, così, la «convenzione» anatocistica «posteriore alla … scadenza» degli interessi («sempre che si tratti di interessi dovuti per almeno sei mei»), di cui discorre la parte centrale dell’art. 1283 c.c. Non è comunque pensabile, invero, che la riforma dell’art. 120 TUB venga a mettere le banche in posizione deteriore rispetto agli altri soggetti dell’ordinamento.

[21] Su questa disposizione – chiave di volta della struttura normativa della trasparenza bancaria – v. adesso (oltre al mio Trasparenza, cit., p. 293 ss., e ai contenuti della nota che subito qui consegue) Girolami, Le nullità dell’art. 127 TUB, di prossima pubblicazione in Banca, borsa tit. cred., e Mucciarone, op. cit., p. 715 ss.

[22] Sulla regola di protezione del cliente – propriamente desumibile dalla norma dell’art. 127 comma 2 TUB ed espressione prima della «clausola madre della buona fede oggettiva» – da intendere come regola generale della materia relativa alla gestione dei prodotti immessi dalla banca sul mercato v. il mio Trasparenza, cit., p. 39 ss. (ivi pure, p. 44, il rilievo che la stessa si presenta come «regola a spettro aperto, suscettibile di applicazioni ampie e di utilizzi oggi neppure prevedibili»; e p. 48 s., quello sui rapporti peculiarissimi che vengono a delinearsi tra questa regola e il divieto di venire contra factum proprium).

Con immediato riferimento alla tematica trattata nel testo può essere utile trascrivere un esempio applicativo – di livello proprio operativo – del principio espresso da tale regola (l’esempio è tratto dal mio «Scoperti senza affidamento» e usura, in Contratti, 2013, p. 1147). «Così, il cliente avrà di sicuro interesse alla “riqualificazione” di un rapporto dalla categoria dello sconfinamento a quello dell’apertura, perché il tasso soglia di quest’ultima è più basso di quello del primo (e sinché lo è). Per contro, e sempre ad esempio, lo stesso non avrà interesse alla dichiarazione di nullità (in ogni caso di non debenza) di uno sconfinamento meramente contabile (quale, per schizzare l’idea, quello per “valuta fittizia”), quando la permanenza del medesimo venga a comportare l’usurarietà del rapporto».

A livello giurisprudenziale, una prima applicazione della regola di protezione è stata fatta dall’interessante pronuncia di Trib. Torino, 31 ottobre 2014, in dirittobancario.it. Nella specie, il documento contrattuale contemplava solo l’eventualità dello scoperto, di cui pure regolava il tasso; di fatto, tuttavia, la banca aveva concesso un’apertura di credito, la cui esistenza e i cui tassi risultavano – come sempre accade, o quasi – dagli scalari. Correttamente, il giudice ha ritenuto di non potere rilevare d’ufficio la nullità per mancanza di forma scritta dell’apertura (in quanto ciò significherebbe applicare in danno del cliente un limite probatorio previsto per il solo caso dei contratti formali).

[23] Cosa che, ad esempio, potrebbe avvenire nel caso di concreta applicazione in cumulo di interessi compensativi e di interessi moratori (applicazione cumulativa che pure non sia prevista, per l’appunto, da clausole di contratto). Assai improbabile nel caso di tasso di mora conformato come maggiorazione di quello compensativo, l’ipotesi lo è meno, a me pare, in quello (non poi così infrequente) in cui il tasso di mora sia costruito in modo autonomo (sul tema v. anche sopra, nel n. 3).

Sulla tesi secondo cui, ai fini del riscontro dell’usura delle fattispecie concrete, andrebbero senz’altro sommate le previsioni pattizie relative agli interessi compensativi e quelle inerenti ai moratori, v. le osservazioni critiche che ho svolto in Problemi dell’usura: sul perimetro del carico economico rilevante, cit.

[24] Secondo Marcelli, op. cit., p. 30, l’impatto economico dell’anatocismo di conto corrente si apprezza nell’ordine di grandezza di 2 miliardi di euro l’anno.

[25] Per delle fattispecie di anatocismo mensile v., a titolo meramente esemplificativo, quelle presentatesi avanti al Collegio Napoli, 3 aprile 2013, n. 1796; e al Collegio Napoli, 1 luglio 2014, n. 4135 (entrambe relative a carte di credito revolving regolate in conto). Ma per un caso di computo addirittura giornaliero v. il riferimento contenuto nel Collegio Napoli, 15 settembre 2011, n. 1883 (per «linea di fido rotativa»).

[26] Per gli arresti del Supremo Collegio, v., tra gli altri, Cass. pen 14 maggio 2010, n. 28743 e Cass. pen., 18 febbraio 2010, n. 12028. Tra le più recenti pronunce di merito v. ad esempio, ma in modo particolarmente perspicuo, App. Venezia, 18 febbraio 2013, in IlCaso.it; App. Cagliari, 31 marzo 2014, ivi; Trib. Padova, 12 agosto2014, di prossima pubblicazione in Banca, borsa, tit. cred., con nota di Scagliotti, Ancora sul problema dell’usurarietà sopravvenuta: il rapporto con l’esercizio del ius variandi; per quest’ultima, in particolare, nel conto usurario «va computato tutto ciò che possa configurarsi come somma richiesta per la restituzione della somma ottenuta a mutuo o comunque quale costo del danaro …, trovando applicazione la normativa non solo ai mutui, ma a tutti rapporti contrattuali che possano contenere pattuizioni di interessi usurari, risultando poi irrilevanti le diverse indicazioni fornite al riguardo dalla Banca d’Italia, le cui indicazioni non possono di certo prevalere su di un chiaro dettato normativo».

Nel milieu circola ancor oggi, comunque, una tendenza volta a «targare» l’usura, in maniera più o meno surrettizia venendo così a scomporre, a trattare separatamente, ciò che, per contro, la legge n. 108/1996 considera in modo unitario. Si parla così di «usurarietà degli interessi moratori» o di quella delle spese, mescolando all’evidenza la parte con il tutto: esemplare di questa impostazione è l’approccio di Mucciarone, op. cit., p. 685 ss. E non meno paradigmatica appare la recente decisione del Trib. Taranto, 17 ottobre 2014, in dirittobancario.it, la quale – dopo avere ravvisato l’usurarietà degli «interessi moratori, se superiori al tasso soglia» – ha stabilito che, peraltro, «non può … autorizzarsi la estensione automatica della sanzione applicabile per il tasso moratorio anche al tasso corrispettivo … la nullità della clausola che contempla gli interessi moratori non può implicare la nullità di quell’altra clausola che contempla gli interessi corrispettivi».

In realtà, una cosa è l’eccessività dell’onere complessivo caricato sul cliente (dove le singoli voci rilevano come mere componenti e tutto rifluisce nel risultato), secondo il focus che connota la legge sull’usura; un’altra è l’eccessività delle singole distinte voci (che, tra l’altro, è profilo senz’altro successivo), come per i moratori avviene alla stregua della norma dell’art. 1384 c.c. (cfr. amplius il mio Trasparenza, p. 141 ss.). Discorso del tutto diverso, poi, è che nella valutazione della (eventuale) eccessività delle singole e distinte voci possa adoperarsi anche un metro di comparazione con il peso delle altre, ovvero di proporzione reciproca tra le varie voci del carico economico (cfr., in proposito, l’interessante decisione dell’ABF Napoli, 17 settembre 2014, n. 6037).

[27] Dovendosi all’evidenza pure tenere conto delle clausole penali c.d. «una tantum» e delle spese varie che la banca connette all’inadempimento del cliente (su quelle per recupero credito, molto elevate nel presente periodo, v. il cenno contenuto nella precedente nota 3).

Naturalmente, nell’ipotesi in cui all’inadempimento venga poi a congiungersi la risoluzione del rapporto andranno conteggiate anche tutte le voci economiche relative. Il punto sembra particolarmente importante per il contratto di leasing, vista la prassi delle relative società indicata nella parte finale della precedente nota 3. Appena il caso di aggiungere, in proposito, che secondo le Istruzioni della Banca d’Italia neppure queste voci sarebbero da prendere in considerazione, per il loro rientrare nella categoria degli oneri eventuali (sopra, nota 11).

[28] Per la constatazione che le chiusure periodiche (sono mere strutture serventi, che) vengono poste in essere al «fine di consentire la liquidazione e la capitalizzazione degli interessi» v. già Molle, I contratti bancari, nel Tratt. Cicu e Messineo, Milano, 1966, p. 425.

[29] Un cenno a parte occorre, in proposito, per le poste da sconfinamento (quale che sia la ragione concreta della posta e quale che sia la situazione che configura, da supero del limite concesso in apertura di credito o da esaurimento delle somme versate in deposito). Di per sé, in effetti, lo sconfinamento è (o sarebbe) operazione «a rientro immediato». Da qui l’esigenza delle precisazioni che seguono (su cui v., altresì, Dolmetta in Dolmetta e Malvagna, Il conto corrente bancario, in Tratt. contratti diretto da Roppo, V, Milano,2014, p. 729 ss.; Idem, «Scoperti senza affidamento», cit., p. 1149 s.).

Nel caso in cui lo sconfinamento si concentri nell’ambito esclusivo di un rapporto diretto tra banca e cliente (prelievi per contanti; sconfinamenti per maturazione di debito pregresso; ecc.), l’operazione annotata in conto dà strutturalmente vita a un credito «a vista», in cui il rientro si conforma ad esigibilità immediata (art. 1183, comma 1, c.c.) e in cui non trova applicazione la regola delle obbligazioni pecuniarie per cui dies interpellat pro homine (artt. 1182, comma 3, e 1219, comma 2, n. 3,c.c.): per fare scadere il credito, insomma, basta – ma è pure necessaria – una specifica e puntuale richiesta di rientro da parte della banca (impregiudicato restando il punto, che qui non interessa, dello spazio temporale che il cliente ha in concreto per pagare, senza cadere in inadempimento).

Nel caso in cui, invece, lo sconfinamento segua a un versamento di denaro fatto dalla banca a terzi, si configura come un’anticipazione del mandatario ex art. 1719 c.c., con la conseguenza che il rientro, pur sempre immediato, non dovrebbe per sé passare attraverso la necessità di una preventiva richiesta. Sennonché, la prassi delle banche italiane è – per solito, ma pure per lunga tradizione – quella di lasciare vegetare sul conto anche questo tipo di situazioni, senza procedere ad alcunché: non certo ad atti di rigore, ma nemmeno a bonari solleciti. Viene così a innestarsi, e per l’effetto, un rapporto affidante che si basa sulla tolleranza (che comunque può apprezzarsi in modo compiuto solo a livello di fattispecie concreta): se il credito nasce come anticipazione del mandatario, il prolungamento temporale del medesimo nell’indifferente inerzia della banca (che, per l’appunto, si limita all’applicazione anatocistica dei relativi tassi) viene a trasformarlo in «credito a vista», con tutte le conseguenze che ne derivano anche in punto di qualificazione delle voci economiche che, nei fatti, vengono ad accompagnare lo svolgimento del rapporto.

[30] Sullo specifico tema v. funditus Dolmetta e Perrone, Risarcimento dei danni da inadempimento di obbligazione di interessi e anatocismo, in Banca, borsa, tit. cred., 1999, II, p. 408 ss.

[31] Per la tradizionalissima lettura che il divieto di anatocismo – delle usurae usurarum, secondo il lessico del diritto romano – è dettato dall’idea di contrastare l’usura ovvero comunque un carico economico troppo gravoso (e non facilmente comprensibile) v., per tutti, Quadri, Le obbligazioni pecuniarie, in Tratt. Rescigno, 9, Torino, 1984, p. 567; Bianca, Diritto civile. 4.Le obbligazioni, Milano, 1990, p. 202.

[32] La prima citazione è tratta da Trib. Torino, 8 ottobre 2014, citata; la seconda da Marcelli, op. cit., p. 9.

[33] Per la rilevazione che, al di là di ogni (e promiscua) terminologia corrente, gli interessi che producono interessi «non si trasformano in capitale» v. Ferro-Luzzi, Una nuova fattispecie giurisprudenziale: l’«anatocismo bancario»; postulati e conseguenze, in Giur. comm., 2001, I, p. 18.

[34] Riconosce Marcelli, op. cit., p. 18 che «a norma dell’art. 1283 c.c. [gli] interessi conservano la loro natura, senza fondersi con il capitale …».

Il testo del nuovo art. 120 TUB, in ragione delle «espressioni contraddittorie usate» (questa frase è mutuata dalla Relazione riunione sezione VI Tribunale di Milano, sopra citata), non consente, mi pare, speculazioni in proposito (né in un segno, né nell’altro).

[35] Osserva Fausti, Il mutuo, Napoli, 204, p. 132, nota 216: «il principio per cui, quando sia previsto un piano di restituzione differito nel tempo mediante il pagamento di rate comprensive di capitale e di interessi, questi ultimi conservano la loro natura e non si trasformano in capitale da restituire al mutuante, risulta costantemente affermato in giurisprudenza, fin da Cass., n. 3479 del1971».

[36] E’ noto come, per la materia dell’usura, sia profilo particolarmente importante quello relativo alla prova della concreta ricorrenza della medesima. Per il cliente, la prova spesso risulta assai difficile, non foss’altro perché si tratta di mettere insieme tutte le tante voci del carico economico applicato e perché si tratta di fare calcoli e utilizzare formule di cognizione non facilmente accessibile (tra l’altro, andrebbe dedicato uno sguardo di attenzione anche i metodi di calcolo scelti al riguardo dalla Banca d’Italia, posto che gli stessi dovrebbero essere indirizzati in funzione di protezione del cliente, in ragione della finalità specifica perseguita dalla legge n. 108/1996). Dall’altra parte, le banche dichiarano esplicite, nell’oggi, di essere dotate di applicativi atti a garantire costanti monitoraggi del rispetto delle soglie e limiti in vigore (così, ad esempio, nella fattispecie di cui alle decisioni ABF Milano, 2 ottobre 2013, n. 5018 e ABF Roma, 16 maggio 2014, n. 3260); ed è indubbiamente necessario che sia così, perché sarebbe grave e sconveniente agire di impresa quello di non preoccuparsi di controllare il rapporto tra carichi applicati e usura. Tutto concorre, insomma, perché al cliente, attore in accertamento dell’usura, siano concessi aiuti e semplificazioni probatori, in ossequio al regola della vicinanza della prova, quale principio correttivo delle storture che una rigida applicazione del criterio ex art. 2697 c.c. è senz’altro idoneo a comportare (cfr. Dolmetta e Malvagna,Vicinanza della prova e prodotti d’impresa del comparto finanziario, in Banca, borsa, tit. cred., 2014, I, p. 658 ss.).

Dato un simile contesto di riferimento, non può davvero accettarsi la scelta della pluricitata «Relazione riunione sezione VI Tribunale di Milano» di esigere che l’attore in usura venga in prevenzione (i.e.: in termini di prova precostituita rispetto al giudizio) ad «allegare conteggi (anche soltanto a campione) attestanti che il cumulo degli effettivi interessi corrispettivi e di mora pretesi al mutuatario abbia determinato nel corso del rapporto il superamento del tasso soglia (o già lo determinasse in sede di stipulazione del mutuo, ipotizzando l’inadempimento a decorrere dalla prima rata di ammortamento)»: oltretutto, una simile richiesta – traducendosi sostanzialmente nell’imporre al cliente l’onere, che è anche economico, di munirsi di un’apposita perizia in via preventiva – non pare particolarmente in linea con il pur fondamentale precetto dell’art. 24, comma 1, Cost.

 

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