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Principi comunitari di libera circolazione dei capitali e di non discriminazione: “nuove” possibili ricadute sull’ordinamento tributario italiano?

15 Marzo 2017

Giovanni Barbagelata e Sara Flisi, Studio Tributario Associato Facchini Rossi e Soci

Conclusioni dell’Avvocato Generale Melchior Wathelet, 21 dicembre 2016, Causa C-628/15

Il caso portato all’attenzione della Corte di Giustizia[1] verte sull’interpretazione degli articoli 49 e 63 del T.F.U.E. con riferimento al (da tempo soppresso) regime fiscale inglese c.d. FID (“Foreign Income Dividend”) in materia di utili provenienti da società non residenti nel Regno Unito. La questione sottoposta alla Corte potrebbe essere di interesse non tanto per le disposizioni fiscali inglesi oggetto di indagine quanto per alcuni principi di carattere generale espressi nelle Conclusioni, che offrono spunti di riflessione circa eventuali residui profili di incompatibilità con il diritto comunitario della normativa fiscale italiana in materia di imposizione degli utili da partecipazione.

La fattispecie al vaglio della Corte di Giustizia

Il caso riguarda un fondo pensione inglese, che ha investito in qualità di azionista parte del proprio patrimonio in diverse partecipazioni societarie, tra le quali vi erano partecipazioni in società residenti nel Regno Unito che avevano optato per il regime FID[2].

A differenza del regime ordinario per i dividendi “in entrata”, il regime FID comportava vantaggi in termini di Advance Corporation Tax (ACT) per la società distributrice di dividendi a loro volta formati da utili di fonte estera; di contro, ai suoi azionisti non spettava più il credito di imposta sui dividendi. Il regime fiscale ordinario prevedeva, invece, che i dividendi distribuiti da società residenti determinassero in capo alla società distributrice l’obbligo di versare un acconto dell’imposta sul reddito delle società (l’ACT, appunto) e, al contempo, attribuiva un credito d’imposta ai suoi azionisti[3].

Nel seguito si riporta una schematizzazione semplificata del funzionamento del regime fiscale riservato ai dividendi “in entrata” dalla normativa inglese vigente all’epoca dei fatti di causa[4].

Il caso sottoposto al vaglio della Corte affronta nuovamente le tematiche connesse all’applicabilità dell’art. 63 del T.F.U.E. a situazione potenzialmente “domestiche”, nonché i confini della causa di giustificazione sub specie della coerenza del sistema fiscale.

Le posizioni contrapposte del governo inglese e dell’Avvocato Generale

Il governo inglese ha osservato come il regime FID fosse effettivamente in contrasto con il diritto dell’Unione Europea, ma limitatamente al trattamento fiscale riconosciuto alle società residenti “intermediarie” che percepiscono dividendi da società residenti in altri Stati[5]. Il governo inglese ha, quindi, eccepito l’assenza di fattori di collegamento diretto tra le circostanze della fattispecie oggetto del procedimento principale e l’art. 63 del T.F.U.E. in quanto i diritti degli azionisti residenti beneficiari di una distribuzione da parte di una società residente di dividendi di origine estera qualificati come FID riguarderebbero una situazione “meramente interna” al Regno Unito e, pertanto, non idonea ad essere ricompresa nell’ambito applicativo del diritto dell’Unione Europea.

In aggiunta, il governo inglese ha osservato che, anche qualora si dovesse applicare il diritto dell’Unione Europea, la disparità di trattamento degli azionisti beneficiari derivante dal regime FID (ai quali, come detto, veniva negato il credito d’imposta), può essere giustificata dalla necessità di preservare la coesione dell’ordinamento tributario, in quanto il vantaggio fiscale riconosciuto agli azionisti beneficiari di dividendi di origine nazionale (ossia il credito di imposta) sarebbe controbilanciato dal versamento in anticipo dell’ACT da parte della società residente.

Sul punto, l’Avvocato Generale ha osservato che il governo inglese ha concentrato la propria attenzione esclusivamente sulla distribuzione di dividendi tra i due soggetti residenti nel medesimo Stato membro, ignorando l’esistenza di un fattore di collegamento con l’ordinamento dell’Unione Europea, ossia il fatto che il regime FID presuppone la distribuzione di dividendi di fonte estera. Secondo l’Avvocato Generale, quindi, l’art. 63 del T.F.U.E. riguarda anche gli investimenti “indiretti” di capitale.

In secondo luogo, è stato osservato come l’argomentazione del governo inglese, secondo cui la restrizione troverebbe giustificazione nella salvaguardia della coerenza del sistema tributario, sarebbe la mera reiterazione di quanto già evidenziato nella causa Test Claimants in the FII Group Litigation (C-446/04) e, ivi, implicitamente respinte dalla Corte di Giustizia. Vale la pena ricordare che in quest’occasione la Corte si era espressa nel senso che lo svantaggio in termini di liquidità subito da una società residente rispetto ad una società che aveva optato per il regime FID, rendeva una partecipazione in una società non residente un investimento meno attraente rispetto ad una partecipazione detenuta in una società residente.[6]

Contrapponendosi alla posizione assunta dal governo inglese, l’Avvocato Generale ha quindi concluso in senso favorevole alla questione pregiudiziale posta dagli azionisti beneficiari del fondo pensione inglese, affermando che gli stessi sono oggetto di una discriminazione rispetto ad azionisti di società residenti che percepiscono dividendi di origine nazionale.

Prescindendo dal regime fiscale oggetto del procedimento principale, da un’attenta lettura delle conclusioni dell’Avvocato Generale emergono due tematiche ricorrenti nella giurisprudenza della Corte di Giustizia: i) l’individuazione dell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione Europea e ii) la coerenza del sistema fiscale interno quale causa di giustificazione di misure nazionali restrittive.

Al riguardo, la Corte ha più volte osservato come nell’analisi di una fattispecie sia necessario prendere in considerazione l’insieme delle circostanze di fatto che caratterizzano la stessa e non soffermarsi unicamente su singoli elementi del procedimento[7]. Ciò posto, la Corte si è poi espressa affermando che l’assenza di un elemento di transnazionalità è decisivo al fine di valutare se una situazione sottoposta al proprio giudizio risulta puramente interna a uno Stato membro e, come tale, non rientri nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione in materia di libera circolazione[8]. In merito alla ricerca dell’elemento di transnazionalità, la Corte si è pronunciata asserendo che lo stesso non dovrebbe essere ricercato esclusivamente in elementi “formali” del caso oggetto di esame, ma tale indagine dovrebbe considerare anche i possibili collegamenti, diretti o indiretti, con gli scambi intracomunitari[9]. Pertanto, la mera assenza di elementi di transnazionalità nei fatti di causa non implica l’automatica non applicabilità del diritto dell’Unione Europea: l’irrilevanza ai fini comunitari potrà essere confermata solo in caso di assenza di effetti negativi prodotti dalle norme nazionali nei confronti della libera circolazione intracomunitaria.

Con riferimento al secondo tema affrontato dall’Avvocato Generale, occorre evidenziare come la possibilità di ritenere giustificata una misura discriminatoria adducendo la motivazione della necessità di preservare la coerenza dell’ordinamento tributario dello Stato membro può essere invocata solo quando esiste un collegamento diretto tra il vantaggio fiscale riconosciuto e l’onere fiscale imposto in compensazione[10]. Di conseguenza, quando non è possibile individuare un simile nesso diretto (in quanto ci si trova innanzi al trattamento fiscale di soggetti passivi diversi o ad imposte distinte tra loro), l’argomentazione della difesa della coerenza del sistema fiscale non può essere accettata quale motivo imperativo di interesse generale[11].

Uno sguardo all’ordinamento italiano

Alla luce di quanto sopra, nonostante l’ordinamento tributario italiano si sia adeguato ai principi in tema di dividendi “in entrata” sanciti dalla Corte con la sentenza Manninen[12], ci si chiede se lo stesso, non possa in qualche modo costituire una restrizione al principio di libera circolazione dei capitali con riferimento a taluni scenari impositivi. Si pensi, ad esempio, al caso di una società residente in Italia che detiene la totalità delle quote di un OICR di diritto italiano, il quale a sua volta ha investito il proprio patrimonio in una società residente in altro Stato membro. L’OICR italiano non è soggetto alle imposte sui redditi delle società (IRES)[13] e, pertanto, non subisce alcuna tassazione sui redditi da partecipazione. Supponiamo, poi, che l’OICR effettui una distribuzione alla società residente: in tal caso, quest’ultima, dovrà far concorrere alla basa imponibile IRES l’intero provento distribuito dall’OICR secondo le ordinarie disposizioni del D.P.R. 917/1986, senza che possa trovare applicazione l’art. 89, comma 2 del D.P.R. 917/1986[14].

Qualora, invece, la società residente investisse direttamente nella società residente in altro Stato membro, gli utili percepiti in via “disintermediata” dall’OICR sarebbero esclusi da IRES per il 95% del loro ammontare; questo comporterebbe, pertanto, un livello impositivo effettivo pari all’1,2% (rispetto al 24%).

Ciò posto, ci si potrebbe interrogare se lo svantaggio fiscale a cui la società italiana sarebbe esposta nella prima ipotesi rappresenti o meno un ostacolo alla libera circolazione dei capitali. D’altra parte, dacché sono in egual modo penalizzati anche gli investimenti in società residenti “mediati” da OICR, con riferimento a tale ultima ipotesi, l’ordinamento tributario italiano non sembra porre discriminazioni e, quindi, ostacoli alla libera circolazione dei capitali.

Ciò nonostante, in considerazione dei principi sanciti in ambito comunitario in materia di non discriminazione, si pone l’interrogativo se quanto sopra possa configurare una sorta di discriminazione dissimulata[15] fondata, nel caso di specie, sulla diversità di struttura societaria adottata dal soggetto residente. È evidente, infatti, come nella prima ipotesi, la società residente subisce un aggravio in termini impositivi rispetto al secondo scenario rappresentato per il semplice fatto di detenere la partecipazione nella società non residente per il tramite di un OICR[16]. In altre parole, mentre nel primo caso la società residente sconterà un’imposizione pari al 24% sul totale del dividendo percepito, nella seconda ipotesi la stessa applicherà l’art. 89, comma 2 del D.P.R. 917/1986 e, quindi, tasserà il dividendo al 24% solo per il 5% del suo ammontare. Sul tema, tuttavia, la Corte di Giustizia ha affermato che una discriminazione comporta l’applicazione di norme diverse a situazioni analoghe ovvero l’applicazione della stessa norma a situazioni diverse[17]. Pertanto, se prima facie potrebbe ravvisarsi un’ipotesi di discriminazione, si dovrebbe esaminare la questione in un’ottica di effettiva comparabilità tra i due diversi scenari descritti.

 


[1] Al momento della redazione del presente articolo, la causa in esame risulta ancora pendente.

[2] Si evidenzia che la Corte di Giustizia si era già espressa circa l’incompatibilità di un simile regime fiscale nella sentenza del 12 dicembre 2006, Test Claimants in the FII Group Litigation (C-446/04). In tale causa, tuttavia, le ricorrenti del procedimento principale erano società residenti nel Regno Unito che detenevano partecipazioni in società non residenti, mentre i ricorrenti nella causa in commento sono gli azionisti di tali ultime società.

[3] Per completezza, si evidenzia che la normativa fiscale inglese permetteva ai gruppi inglesi di optare anche per il regime dell’imposizione di gruppo, il quale comportava il rinvio del pagamento dell’ACT fino a che la distribuzione di dividendi “interni” non veniva realizzata dalla società capogruppo.

[4] Si sottolinea che, per motivi di chiarezza, si è omessa la rappresentazione delle conseguenze fiscali derivanti dal primo flusso di distribuzione di dividendi. Per maggior dettagliosi rimanda al documento “High Court of Justice – Chancery Division, The Trustees of the BT Pension scheme and The Commissioners for Her Majesty’s Revenue & Customs, [2008] EWHC 2893 (Ch)”, par.8-14.

[5] Cfr. Corte di Giustizia, 12 dicembre 2006, causa C-446/04, Test Claimants in the FII Group Litigation, punti 140 – 164.

[6] Cfr. Corte di Giustizia, 12 dicembre 2006, causa C-446/04, Test Claimants in the FII Group Litigation, punti 153 e 154.

[7] Cfr. Corte di Giustizia, 18 marzo 1986, causa C-24/85, Spijkers, punto 13.

[8] Cfr. ex multis, Corte di Giustizia, 11 aprile 2000, cause riunite C-51/96 e C-191/97, Deliège, punto 58.

[9] Cfr. ex multis Corte di Giustizia, 23 febbraio 2006, causa C-471/04, Keller Holding, punti 21-24; Corte di Giustizia, 10 marzo 2005, causa C-39/04, Laboratoires Fournier SA, punti 13-18; Corte di Giustizia, 15 maggio 2003, causa C‑300/01, Salzmann, punto 32; Corte di Giustizia, 5 marzo 2002, causa C-515/99, Reisch; Corte di Giustizia, 12 aprile 1994, causa C-1/93, Halliburton Services BV, punto 20.

[10] Cfr. Corte di Giustizia, sentenza 7 settembre 2004, causa C-319/02, Manninen, punto 46.

[11] Cfr. ex multis Corte di Giustizia, sentenza 18 settembre 2003, causa C-168/01, Bosal, punti 29-30; Corte di Giustizia, sentenza 6 giugno 2000, causa C-35/98, Verkooijen, punti 56-58.

[12] Il D.Lgs. 12 dicembre 2003, n. 344 ha, infatti, da un lato abrogato il vecchio art. 14 del D.P.R. 917/1986 relativo al credito d’imposta sui dividendi e, dall’altro, ha introdotto il regime di esenzione per i dividendi agli artt. 47 e 89 del D.P.R. 917/1986.Nella relazione illustrativa il legislatore ha affermato che “(c)iò consente di assoggettare sia i dividendi nazionali che quelli di provenienza estera al medesimo trattamento consistente, in linea di principio, nella loro esclusione da imposizione in capo al percettore. In tal modo, così come già avviene in molti ordinamenti europei, si afferma il principio secondo cui l’utile viene tassato solo al momento della produzione, in capo alla società che lo produce, e non anche in sede di distribuzione ai soci”.

[13] Per completezza si evidenza che ai sensi dell’art. 3, comma 2 del D.Lgs n. 15 dicembre 1997, n. 446, gli OICR (ad esclusione delle SICAV) non sono soggetti passivi nemmeno ai fini dell’imposta regionale sulle attività produttive (IRAP). E’ opportuno evidenziare che, nonostante il regime di esenzione previsto per gli OICR, ai sensi del combinato disposto del comma 1, lett. c) e del comma 3 dell’art. 73 del D.P.R. 917/1986, i fondi istituiti in Italia si considerano soggetti residenti nel territorio dello Stato e, pertanto, agli stessi è attribuita la qualifica di soggetti passivi d’imposta (Cfr. Circolare dell’Agenzia delle Entrate del 28 marzo 2012, n. 11/E).

[14] In tal senso, si veda la Circolare dell’Agenzia delle Entrate del 15 luglio 2011, n. 33/E. In particolare, l’art. 89 del D.P.R. 917/1986 prevede che i dividendi percepiti dai soggetti di cui all’art. 73, comma 1, lettere a), b) e c) sono tassati per il 5% del loro ammontare e l’art. 79 del medesimo D.P.R. prevede lo scomputo dall’imposta sulle società dovuta per un determinato periodo d’imposta delle ritenute subite a titolo d’acconto. Tale principio, tuttavia, non si applica per i proventi derivanti dalla partecipazione in OICR e SICAV (Cfr. Circolari dell’Agenzia delle Entrate n. 26/E e 36/E del 2004) a prescindere dalla formazione dei proventi.

[15] Cfr. Corte di Giustizia, sentenza 12 febbraio 1974, causa C-152/73, Sotgiu, punto 11. In tale sede, la Corte ha affermato che il principio della parità di trattamento “[…] vieta non soltanto le discriminazioni palesi in base alla cittadinanza, ma altresì qualsiasi discriminazione dissimulata che, pur fondandosi su altri criteri di riferimento, pervenga al medesimo risultato”.

[16] Al riguardo, si veda la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale della Lombardia n. 9819 del 2 dicembre 2015, con la quale il giudice si è espresso favorevolmente circa il comportamento tenuto da una società italiana, che in qualità di detentrice di quote partecipative di un fondo di investimento (straniero), aveva ricevuto dallo stesso utili che aveva poi assoggetto a tassazione ai sensi dell’art. 89, comma 2 del D.P.R. 917/1986. In tale sede, la Commissione Tributaria Provinciale ha osservato come la Circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 26/E del 2004 afferma che l’applicazione dell’esclusione da tassazione non è subordinata ad alcuna condizione e che, pertanto, le società soggette all’IRES possono beneficiare di tale regime anche se gli utili percepiti non siano stati assoggetti ad imposta dalla società distributrice. In tal senso, l’Agenzia delle Entrate si è espressa anche nella Circolare del 16 giugno 2004, n. 25/E.

[17] Cfr. Corte di Giustizia, sentenza 14 settembre 1999, causa C-391/97, Gschwind, punto 21.


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