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Attualità

Polizze pluriennali: la Cassazione ammette il recesso anticipato sulla base del decreto Bersani (e perfezionatosi prima dell’entrata in vigore delle modifiche apportate dalla legge di conversione)

20 Giugno 2016

Avv. Giorgio Grasso, PhD – Of Counsel, Studio Legale Simmons & Simmons LLp

Cassazione Civile, Sez. III, 10 maggio 2016, n. 9386

Di cosa si parla in questo articolo

Con la recente decisione n. 9386 del 10 maggio 2016, gli ermellini ammettono il recesso anticipato dalle polizze pluriennali comunicato in base al noto “decreto Bersani”, prima dell’entrata in vigore delle modifiche apportate dalla legge di conversione (e, quindi, indipendentemente dal decorso triennale del contratto).

1. Il caso.

La società ricorrente, nell’anno 2005, stipulava due polizze assicurative di durata pluriennale.

Trascorsi due anni, il 16 marzo 2007 l’assicurata, si avvaleva della facoltà introdotta all’epoca dal D.L. 31 gennaio 2007, n. 7, entrato in vigore il 1.2.2007 (c.d. “decreto Bersani”), il cui art. 5, comma 4, accordava agli assicurati la facoltà di recesso ad nutum dai contratti di assicurazione pluriennali, con preavviso di 60 giorni.

Il successivo 2 aprile 2007 veniva pubblicata in Gazzetta ufficiale la L. 2 aprile 2007, n. 40, che convertì in legge, con modificazioni, il D.L. n. 7 del 2007.

Detta legge di conversione modificava il decreto-legge stabilendo che il recesso dalle polizze pluriennali stipulate prima dell’entrata in vigore della legge stessa (e quindi prima del 3.4.2007) fosse consentita dopo il decorso di almeno tre anni dalla stipula del contratto.

Sulla scorta di ciò, la compagnia assicuratrice contestava all’assicurata la validità del recesso (non essendo ancora trascorsi tre anni) e chiese in via monitoria al Tribunale di Lodi la condanna al pagamento dei ratei scaduti. Il Tribunale emetteva, quindi, apposito decreto ingiuntivo, che veniva opposto dall’assicurata e poi revocato dal giudice adito, in quanto il Tribunale ritenne che il recesso dell’assicurato fosse valido e consentito dal D.L. n. 7 del 2007 e che, al momento in cui venne esercitato, aveva provocato ipso facto lo scioglimento del contratto, sicché nessun rilievo poteva avere avuto, sulla ormai avvenuta dissoluzione del contratto, la successiva legge di conversione.

La Corte d’appello di Milano, adita dalla compagnia, con sentenza 3.7.2013 n. 2695 rigettò il gravame.

La sentenza d’appello, pertanto, veniva impugnata per cassazione dalla compagnia, con ricorso fondato su un solo motivo.

La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, ha rigettato il ricorso principale.

2 .Il principio di diritto statuito dalla Suprema Corte di Cassazione.

Con la sentenza n. 9386 del 10.05.2016, il Supremo Consenso, nel rigettare il ricorso e per l’effetto confermare la sentenza di appello, ha inteso correggere la motivazione in iure adottata dalla Corte d’Appello di Milano, statuendo il seguente “principio di diritto”: “E’ valido ed efficace il recesso dell’assicurato da un contratto di assicurazione pluriennale, avvenuto ai sensi del D.L. 31 gennaio 2007, n. 7, art. 5, comma 4, e perfezionatosi prima dell’entrata in vigore delle modifiche apportate dalla legge di conversione”.

3. Una breve premessa sul diritto di recesso dalle polizze poliennali. Evoluzione normativa.

Occorre, preliminarmente, ripercorrere l’evoluzione normativa dell’istituto in questione, prima di soffermarsi in modo più approfondito sul punto nodale affrontato in sentenza dai Supremi Giudici, ovvero sulla questione dell’efficacia intertemporale di norme contenute in decreti – legge e modificate o soppresse dalla legge di conversione.

Per quanto concerne la durata delle polizze di assicurazione ed il relativo diritto di recesso, ricordiamo come l’art. 1899, comma 1, secondo periodo, c.c., cosi come da ultimo modificato dall’art. 21, L. 23 luglio 2009, n. 99 (G.U. 31.07.2009, n. 176, S.O. 136), prevede che “L’assicuratore, in alternativa ad una copertura di durata annuale, può proporre una copertura di durata poliennale a fronte di una riduzione del premio rispetto a quello previsto per la stessa copertura dal contratto annuale. In questo caso, se il contratto supera i cinque anni, l’assicurato, trascorso il quinquennio, ha facoltà di recedere dal contratto con preavviso di sessanta giorni e con effetto dalla fine dell’annualità nel corso della quale la facoltà di recesso è stata esercitata”[1].

Come noto, il 1° febbraio del 2007 entrava in vigore il c.d. “Decreto Bersani” che interveniva sulla norma in parola, introducendo la facoltà per l’assicurato di recedere annualmente dalle polizze poliennali “senza oneri e con preavviso di sessanta giorni”. Il D.L. 31 gennaio 2007, n. 7, art. 5, comma 4, nel testo pubblicato in Gazzetta ufficiale, recitava: “al comma 1, dell’articolo 1899 del codice civile, il secondo periodo è sostituito dal seguente”: “In caso di durata poliennale, l’assicurato ha facoltà di recedere annualmente dal contratto senza oneri e con preavviso di sessanta giorni”.

In sede di conversione vennero, però, apportate alcune modifiche con le quali si aggiunse un periodo alla norma sopra trascritta, che di seguito si riporta integralmente: “All’art. 1899 c.c., comma 1, il secondo periodo è sostituito dal seguente: In caso di durata poliennale, l’assicurato ha facoltà di recedere annualmente dal contratto senza oneri e con preavviso di sessanta giorni. Tali disposizioni entrano in vigore per i contratti stipulati dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto. Per i contratti stipulati antecedentemente alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, la facoltà di cui al primo periodo può essere esercitata a condizione che il contratto di assicurazione sia stato in vita per almeno tre anni.

Pertanto, con la legge di conversione il legislatore intese subordinare il diritto di recesso, per tutti i contratti pluriennali stipulati prima dell’entrata in vigore della medesima legge di conversione, alla condizione dell’esistenza in vita del contratto di assicurazione da almeno tre anni, al momento dell’esercizio del diritto di recesso da parte dell’assicurato.

Nel caso sottoposto al vaglio della Suprema Corte il contratto di assicurazione era in essere da soli due anni, ma essendo stato esercitato il recesso circa 15 giorni prima dell’entrata in vigore della legge di conversione e, nulla prevedendo detta legge per i contratti stipulati prima della L. n. 40 del 2007, per i quali il recesso era già avvenuto ai sensi del D.L. n. 7/07, gli Ermellini hanno ritenuto che il legislatore avesse implicitamente ammesso la validità del recesso così posto in essere.

Difatti, la Corte di Cassazione, dopo aver ripercorso l’annosa questione riguardante l’efficacia intertemporale delle norme contenute nei D.L. (e modificate o soppresse dalla legge di conversione di cui si dirà nel paragrafo successivo), ha individuato tre ipotesi di recesso:

(a) contratti stipulati prima della L. n. 40 del 2007, e per i quali era già avvenuto il recesso dell’assicurato ai sensi del D.L. n. 7/07:

– per tali contratti il legislatore nulla ha formalmente disposto, implicitamente ammettendo la validità del recesso;

(b) contratti stipulati prima della L. n. 40 del 2007, ed ancora vigenti:

– per tali contratti il legislatore ha accordato la facoltà di recesso all’assicurato con il limite del decorso del triennio dalla stipula del contratto;

(c) contratti stipulati dopo la L. n. 40 del 2007, per i quali:

– vi è piena facoltà di recesso dell’assicurato, con il solo obbligo di preavviso di 60 giorni.

Deve però porsi in evidenza che, come già anticipato all’inizio del paragrafo, il legislatore è intervenuto a modificare nuovamente l’istituto con l’art. 21, L. 23 luglio 2009, n. 99 (G.U. 31.07.2009, n. 176, S.O. 136), prevedendo che l’assicurato possa recedere con preavviso di sessanta giorni e con effetto dalla fine dell’annualità in corso, nella sola ipotesi in cui il contratto superi i cinque anni e sia trascorso il quinquennio.

A decorrere, dunque, dalla riforma del 2009 le compagnie possono proporre un contratto di assicurazione con durata superiore all’anno, ma dovranno concedere uno sconto sulla tariffa (“L’assicuratore, in alternativa ad una copertura di durata annuale, può proporre una copertura di durata poliennale a fronte di una riduzione del premio rispetto a quello previsto per la stessa copertura dal contratto annuale”). In giurisprudenza si è ritenuto che se la compagnia non applichi o non espliciti lo sconto sulla tariffa, il contraente potrebbe recedere ad ogni annualità, fermo restando il preavviso dei 60 giorni[2].

4. Il punto nodale della sentenza. L’efficacia intertemporale delle norme contenute in decreti-legge e modificate o soppresse in sede di conversione.

I Giudici della Suprema Corte, prima di giungere alle conclusioni di cui si è detto al paragrafo che precede, hanno ripercorso nella parte motiva della sentenza l’annosa questione che da sempre ha tenuto vivo il dibattito in dottrina, l’efficacia intertemporale delle norme contenute nei decreti legge e modificate o soppresse dalla legge di conversione.

Prevede l’art. 77 della Costituzione che quando il Governo adotta provvedimenti con forza di legge, deve il giorno stesso presentarli per la conversione alle Camere.

Risulta pacifico in dottrina che con la legge di conversione sia possibile emendare il testo del decreto-legge.

La tesi di taluna autorevole dottrina[3] dell’inammissibilità degli emendamenti al decreto-legge, che consisteva nel considerare come oggetto di conversione l’atto in sé e non le sue disposizioni particolari, è da subito stata superata nella prassi, anche perché l’art. 77 Cost. nulla espressamente dispone circa il contenuto della legge di conversione.

La compagnia, impugnando la sentenza della Corte d’appello che aveva confermato la legittimità del recesso, sottolineava come la norma del decreto legge non convertita o convertita con modifiche, dovrebbe sviluppare i propri effetti anche per il passato. Interpretazione che non convince la Cassazione, che pone invece l’accento sulla necessità di distinguere tra norme modificate e norme sostituite o soppresse, con effetto retroattivo solo per queste ultime.

Negli anni, sia la dottrina che la giurisprudenza hanno avuto modo di tipizzare i vari emendamenti ai decreti-legge contenuti nelle leggi di conversione, distinguendoli in emendamenti soppressivi, sostitutivi, modificativi, interpretativi e aggiuntivi.

Si legge in sentenza che: “secondo un primo e tradizionale orientamento dottrinario, per risolvere tale questione si dovrebbe distinguere tra emendamenti soppressivi e sostitutivi da un lato, ed emendamenti modificativi dall’altro.

Mentre, si sostiene, i primi travolgerebbero il decreto-legge con effetto ex tunc, i secondi hanno effetto solo ex tunc. Pertanto le norme contenute in un decreto-legge, e successivamente modificate dalla legge di conversione, continuano ad applicarsi ai fatti avvenuti sotto la loro vigenza temporale. Altri autori hanno contestato l’utilità della distinzione tra emendamenti soppressivi, modificativi e sostitutivi: sia per l’oggettiva difficoltà di distinguere tra “modifica” e “sostituzione” d’una norma; sia perché sul piano dogmatico sostituire una norma significa, per ciò solo, modificarla; e qualsiasi modifica normativa in altro non consiste che nel sopprimere il precedente precetto e sostituirlo con uno nuovo.

Chi sostiene questa tesi conclude che la norma del decreto-legge “modificata”, “sostituita” o “soppressa” è, in ogni caso, una norma “non convertita”, e che pertanto perde efficacia ex tunc. Un terzo orientamento dottrinario, infine, ritiene che l’emendamento al decreto-legge contenuto nella legge di conversione non costituisca che “normale esercizio della funzione legislativa”, e quindi non possa che avere efficacia ex nunc, anche quando abbia effetto soppressivo di norme contenute nel decreto”.

Per quanto concerne gli emendamenti di tipo soppressivo, la giurisprudenza della Corte di Cassazione[4] li ha equiparati ad una mancata conversione parziale del decreto medesimo – e, quindi, riconoscendone l’efficacia ex tunc – sebbene la Corte costituzionale[5] (pur affermando che astrattamente possano darsi emendamenti che implichino una mancata conversione parziale del decreto-legge), ha rimesso la soluzione di questa problematica all’esame dell’interprete, da compiersi caso per caso.

Efficacia ex tunc va riconosciuta anche agli emendamenti interpretativi, mentre per le rimanenti tipologie emendative – e cioè quelle sostitutive, modificative ed aggiuntive – la giurisprudenza di legittimità è orientata nel ritenere che l’effetto ex tunc contenuto nella legge di conversione si produca nel caso di emendamenti sostitutivi, ma non nel caso di emendamenti modificativi, dovendosi, in questa ipotesi, riconoscere efficacia ex nunc alla nuova norma[6]. Tale ultima interpretazione, alla quale la Corte ha inteso aderire nel caso di specie è senza dubbio in linea con quanto previsto dall’art. 15, quinto comma, della l. n. 400/1988, il quale prevede che «le modifiche eventualmente apportate al decreto-legge in sede di conversione hanno efficacia dal giorno successivo a quello della pubblicazione della legge di conversione, salvo che quest’ultima non disponga diversamente».

Come sottolineato dalla medesima Corte “qualsiasi diversa interpretazione porrebbe seri problemi di legittimità costituzionale, quanto meno sul piano della ragionevolezza (principio, come noto, desumibile dall’art. 3 Cost.), giacchè esporrebbe il cittadino al rischio di conseguenze patrimonialmente svantaggiose non in conseguenza di proprie scelte illegittime od illecite, ma in conseguenza dei tentennamenti o, peggio, della irresolutezza nomopoietica del legislatore: esito interpretativo che, come icasticamente e correttamente rilevato dal Procuratore Generale nelle sue conclusioni in pubblica udienza, trasformerebbe quest’ultimo nel Leviatano di Thomas Hobbes”.

 



[1] L’originaria formulazione della norma prevedeva, invece, che in caso di durata superiore ai “dieci anni, le parti, trascorso il decennio e nonostante patto contrario, hanno facoltà di recedere dal contratto, con preavviso di sei mesi, che può darsi anche mediante raccomandata”.

[2] A ben vedere, il Legislatore ha inteso introdurre tale previsione, accordando al contraente uno sconto di tariffa. Sconto che deve essere ben evidenziato nel contratto o nella scheda di copertura : “La forma scritta prevista “ad substantiam”, a pena di nullità, infatti, dev’essere necessariamente rivestita da tutti gli elementi essenziali del contratto, quale certamente deve intendersi quello relativo all’obbligatorietà dello sconto sulla tariffa” (Giudice di pace Catania Sez. III, Sent., 19 gennaio 2015, non pubblicata). In difetto, il contraente sarà legittimato a recedere anticipatamente dal contratto.

[3] Esposito C., Decreto-legge, in: Enc. Dir., Milano, Giuffrè, XI, 1962, 849-850.

[4] Cass. Civ., Sez. V, sentenza n. 8056 del 28.03.2008, Rv. 602648.

[5] C. cost., 22.12.2010, n. 367, già nello stesso senso C. cost., 22.2.1985, n. 51.

[6] Cass. Civ., Sez. III, sentenza n. 11186 del 26.05.2005, Rv. 581930; (così pure Cass. Civ. Sez. 1, sentenza n. 3106 del 17.03.2000)

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