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Approfondimenti

L’obbligo di consolidamento di società non controllate di diritto secondo l’ordinamento italiano

13 Settembre 2016

Enrico Di Tomaso e Rosanna Arleo, Caiazzo Donnini Pappalardo & Associati – CDP Studio Legale

Introduzione

L’obbligo di consolidamento dei conti di una società si verifica, di regola, allorquando una società (di seguito anche “società consolidante”) detenga la maggioranza del capitale sociale di un’altra società (di seguito anche “società partecipata”) e, di conseguenza, controlli, in assenza di circostanze particolari[1], la maggioranza dei diritti di voto esercitabili nell’assemblea ordinaria della società partecipata. Al di fuori di tale situazione classica, ci si domanda in quali altri casi di controllo o di influenza su una società partecipata sorga l’obbligo di consolidamento per la società consolidante. L’individuazione di tali casi si rivela gravida di importanti conseguenze pratiche, potendo determinare la sussistenza dell’obbligo stesso di redigere il bilancio consolidato ovvero l’attrazione all’interno di quest’ultimo dei dati contabili di una o più società partecipate, con tutte le conseguenze, attive o passive, che da ciò possono derivare.

Il presente articolo è strutturato come segue:

  • la sezione I esplora le disposizioni rilevanti ai nostri fini contenute nella legislazione nazionale in materia di preparazione del bilancio consolidato, unitamente alle disposizioni del codice civile a cui fanno rimando e all’interpretazione fornita dalla dottrina e dalla giurisprudenza;
  • la sezione II fornisce un quadro delle regole fornite in materia dagli International Accounting Standards, che, a determinate condizioni, le società italiane sono tenute a rispettare nella preparazione dei propri bilanci d’esercizio, inclusi i bilanci consolidati d’esercizio;
  • la sezione III è dedicata alle conclusioni.

I. Le società soggette all’obbligo di consolidamento ai sensi del decreto legislativo n. 127/1991

I.1 Le disposizioni rilevanti

Le norme regolanti la redazione del bilancio consolidato sono stabilite dal capo III (articoli 25-43) del d. lgs. 9 aprile 1991, n. 127, emanato in attuazione delle direttive 78/660/CEE e 83/349/CEE.

Più precisamente, l’art. 25 c. 1 del d. lgs. 127/1991 stabilisce che “le società per azioni, in accomandita per azioni e a responsabilità limitata che controllano un’impresa debbono redigere il bilancio consolidato secondo i criteri stabiliti dalle disposizioni degli articoli seguenti”.

Il successivo comma 2 assoggetta al medesimo obbligo gli enti pubblici esercenti in via esclusiva o prevalente un’attività commerciale, le società cooperative e le mutue assicuratrici che controllano una delle società citate al comma 1 dell’articolo in esame.

Risulta, pertanto, fondamentale definire la nozione di controllo rilevante ai fini dell’art. 25 del d.lgs. 127/1991. La questione non è scontata, attesa la molteplicità di definizioni di controllo di società presenti nella normativa italiana, quali si rinvengono, a titolo esemplificativo, nel codice civile (art. 2359 c.c.), nei testi unici in materia bancaria (art. 23 del d. lgs. 385/1993) e in materia di intermediazione finanziaria (art. 93 del d. lgs. 58/1998), nella legislazione antitrust (art. 7 della l. n. 287/1990) e nella normativa in materia di informazione e consultazione dei lavoratori all’interno di imprese e gruppi di imprese (art. 3 del d. lgs. n. 113/2012).

A tale riguardo, l’art. 26 del d. lgs. 127/1991 rimanda, innanzitutto (c. 1), alla definizione civilistica prevista dai numeri 1) e 2) dell’art. 2359 c. 1 c.c., i quali definiscono società controllate:

“1) le società in cui un’altra società dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria;

2) le società in cui un’altra società dispone di voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria”.

Il caso previsto al n. 1) si riferisce alla fattispecie, già accennata nell’introduzione del presente contributo, del “controllo di diritto”, esclusa dall’oggetto del presente contributo, in quanto costituente il caso più comune e intuitivo di controllo; diversamente, l’ipotesi di cui al n. 2), spesso indicata con l’espressione “controllo di fatto”, fa riferimento alla possibilità per un’azionista di minoranza di determinare le decisioni dell’assemblea ordinaria in presenza, per il resto, di un azionariato disperso e/o inattivo[2]. Si noti che, per essere rilevante, tale potere di condizionamento delle deliberazioni assembleari deve essere stabile e continuativo nel tempo[3], non rilevando l’esito di singole occasionali delibere.

Il successivo comma 2 dell’art. 26 del d. lgs. 127/1991 aggiunge altri due casi di controllo, derivanti:

  1. dalla possibilità di esercitare un’influenza determinante su una società in virtù di un contratto o di una clausola statutaria (a condizione che tali contratti o clausole statutarie siano ammessi dalla legge applicabile);
  2. dal controllo della maggioranza dei diritti di voto grazie ad accordi con altri soci.

L’ultimo comma dell’art. 26 specifica, quindi, che ai fini dell’applicazione del precedente comma 2 occorre tenere conto dei diritti spettanti a società controllate, a società fiduciarie e a persone interposte, laddove non rilevano quelli spettanti per conto di terzi.

E’ il caso, infine, di osservare che gli articoli 26 e 27 del d. lgs. 127/1991 prevedono casi di esonero dall’obbligo di consolidamento per alcune società, identificate sulla base di livelli patrimoniali, di fatturato o del numero di dipendenti impiegati ovvero dal fatto di essere a loro volta controllate da un’altra società tenuta alla redazione del bilancio consolidato o ancora da altre considerazioni di opportunità[4].

I.2 Analisi

Le disposizioni dell’art. 2359 c.c., richiamate, come visto, dall’art. 26 c. 1 del d. lgs. 127/1991, concentrano la propria attenzione sulla disponibilità[5] della maggioranza o, quantomeno, di un numero di voti sufficiente ad influenzare l’assemblea ordinaria. Ciò sembrerebbe escludere, ad una prima lettura, altre forme di influenza sulla società nel suo complesso, non necessariamente limitate alla sua assemblea ordinaria.

La dottrina specifica, tuttavia, che l’accento posto dai nn. 1) e 2) dell’art. 2359 c. 1 c.c. sull’assemblea ordinaria deriverebbe dagli importanti poteri riconosciuti a tale organo nel tradizionale sistema delle società per azioni: ciò per quanto riguarda, in particolare, l’approvazione del bilancio ordinario di esercizio, la distribuzione degli utili, la nomina dei membri del collegio sindacale e, soprattutto, la nomina e revoca degli amministratori[6].

Detto altrimenti, l’importanza attribuita al potere di influenzare l’assemblea ordinaria sarebbe giustificato dal fatto che ciò costituisce un indice della possibilità di controllare o meglio influire sulle più importanti decisioni della società, incluse quelle di natura gestionale, in ragione del potere di scegliere gli amministratori della società[7]. Così, parte della dottrina si spinge ad individuare il controllo ai sensi dell’art. 2359 c. 1 nn. 1) e 2) c.c. in capo ai soli azionisti dotati dei voti necessari alla nomina degli amministratori, anche qualora i medesimi soci non dispongano del numero di voti necessari per imporre la propria volontà in altre materie di competenza dell’assemblea ordinaria[8]: di converso, non sarebbe qualificabile come controllante un socio che, seppur titolare della maggioranza dei voti esercitabili all’assemblea ordinaria, non sia in grado di determinare la nomina, né la revoca, degli amministratori della società[9] (a causa, ad esempio, di clausole specifiche che limitino il suo diritto di voto su tali materie o della presenza di azioni con diritto di voto limitato o di strumenti finanziari partecipativi che incidano sulle stesse[10]).

L’importanza ai fini in esame della possibilità di determinare la composizione dell’organo amministrativo è confermata dalla sopraccitata direttiva 83/349/EEC[11], che, quale condizione (sebbene, poi, non recepita a livello nazionale dal d. lgs. 127/1991) facente sorgere l’obbligo di consolidamento, cita proprio “il diritto di nominare o revocare la maggioranza dei membri dell’organo di amministrazione, di direzione o di vigilanza di un’impresa (impresa figlia)” da parte di un azionista o socio di tale impresa(art. 1 c. 1, lettera b). Riferimenti al diritto di nominare o revocare la maggioranza degli amministratori di una società compaiono, inoltre, nella definizione di controllo prevista da alcune delle già citate normative speciali nazionali[12], nonché, in una prospettiva comparatistica, nella definizione generale prevista, tra le altre, dalla normativa francese, spagnola e del Regno Unito[13].

La rilevanza del potere di nominare la maggioranza degli amministratori emerge, ancora, dalle due ipotesi di controllo previste dall’art. 26 c. 2 del d. lgs. 127/1991, le quali ruotano attorno alla possibilità di esercitare un’influenza dominante:

  1. sulla società in virtù di un contratto o di una clausola statutaria; ovvero
  2. sull’assemblea ordinaria in base ad accordi con altri soci.

Con riferimento all’ipotesi sub a), occorre premettere che il riferimento all’influenza determinata per il tramite di un contratto sembra fare riferimento alla figura dei c.d. “patti di dominio”; fattispecie originariamente ritenuta dalla dottrina contraria al diritto nazionale[14] e, pertanto, inserita dal legislatore al solo fine di attrarre nell’area di consolidamento società partecipate aventi sede in paesi esteri che riconoscano validità giuridicaa tale genere di accordi contrattuali[15], come suggerisce l’inciso finale della norma “quando la legge applicabile consenta tali contratti (…)”.

Nell’ipotesi in oggetto, come si può vedere l’”influenza dominante” non è limitata all’assemblea ordinaria, ma si esplica sulla società in generale. Dal momento che tradizionalmente nelle società di capitali italiane l’esercizio dei poteri gestori è riservato al consiglio di amministrazione (ed, eventualmente, da questo delegato parzialmente ad alcuni dei suoi componenti), è chiaro che tale influenza dominante verrà identificata, di fatto, con il potere di nominare la maggioranza degli amministratori. Ciò è confermato dalla relazione di accompagnamento al d. lgs. 127/1991, che, con riferimento all’espressione “diritto, in virtù (…) di una clausola statutaria, di esercitare un’influenza dominante”, forniva l’esempio di un’influenza dominante esercitata su una società da un azionista minoritario ente pubblico mediante una clausola statutaria che attribuisca a quest’ultimo il diritto di nominare e revocare la maggioranza degli amministratori[16].

L’ipotesi b) si riferisce, invece, al caso di un’influenza dominante esercitata sull’assemblea ordinaria attraverso un patto parasociale, mediante il quale due o più azionisti concordino le modalità di voto all’assemblea ordinaria o su alcune materie riservate alla stessa.

Al di là di alcuni casi di immediata lettura[17], nella realtà l’accertamento dell’influenza decisiva ai sensi di quest’ultima, come di altre[18], ipotesi può rivelarsi particolarmente complesso. Tale accertamento, infatti, andrà svolto caso per caso, facendo riferimento ad indici specifici, tra i quali, ancora una volta, si cita la nomina della maggioranza degli amministratori in carica, oltre che l’esercizio continuo del controllo operativo e finanziario della società partecipata[19]. Quest’ultimo risultato, in particolare, può essere conseguito attribuendo ad un solo socio il potere di determinare la strategia commerciale, industriale e, in genere, la gestione ordinaria della società partecipata: una prassi riscontrabile, generalmente, in presenza di una compagine azionaria composta da un solo socio industriale e da altri partner di natura finanziaria o istituzionale, ai quali vengono, invece, attribuiti meri poteri di veto su decisioni di carattere straordinario (es. aumenti di capitale, liquidazione della società, trasferimento d’azienda), finalizzati alla protezione dell’investimento.

II. L’obbligo di consolidamento secondo i principi contabili internazionali

Il regolamento n. 1606 adottato dal Parlamento Europeo e dal Consiglio in data 19 luglio 2002 (il “Regolamento IAS”)[20] impone agli Stati membri l’applicazione dei principi contabili internazionali (“International Accounting Standards”, IAS, a partire dal 2001 denominati IFRS, “International Financial Reporting Standards”, di seguito per comodità IAS/IFRS).

Gli IAS/IFRS sono un insieme di principi contabili, accettati a livello internazionale, la cui adozione e utilizzo mirano all’armonizzazione delle informazioni finanziarie contenute nei bilanci consolidati di società quotate dell’Unione Europea al fine di assicurare un alto grado di trasparenza e confrontabilità dei bilanci e, di conseguenza, un efficace funzionamento del mercato dei capitali dell’Unione Europea.

In adempimento del Regolamento IAS, recepito in Italia con d. lgs. 38/2005, i bilanci consolidati di società italiane i cui titoli siano negoziati in un mercato pubblico devono essere redatti in conformità agli IAS/IFRS, così come attualmente emanati dall’Organismo internazionale di normazione contabile (International Accounting Standards Board) e adottati dall’Unione Europea.

Ai fini della nostra analisi, occorre fare riferimento all’IFRS 10 “Consolidated Financial Statements”[21], adottato dal Regolamento UE n. 1254/2012 dell’11 dicembre 2012[22], così come successivamente modificato e integrato.

Quale regola generale, l’IFRS 10 impone ad un ente che controlla una o più società di redigere il bilancio consolidato.

Analogamente alle disposizioni analizzate nella precedente sezione, il principio di controllo è, pertanto, alla base dell’obbligo di consolidamento; tale principio viene ravvisato nell’IFRS 10 “allorquando un investitore è esposto, o ha il diritto, a ritorni variabili legati al suo coinvolgimento nella società in cui investe ed ha la possibilità di influire su tali ritorni attraverso il potere che esercita sulla società in cui investe”[23].

In virtù di tale definizione, al fine di determinare se una società (“l’investitore”) eserciti un controllo sulla società partecipata (di seguito anche “società in cui investe”), occorre valutare la presenza cumulativa dei seguenti elementi:

  1. potere sulla società in cui si investe;
  2. esposizione al rischio o ai diritti a ritorni variabili legati alla sua partecipazione;
  3. effettiva capacità dell’investitore di influire sull’ammontare dei ritorni variabili.

Come si può vedere, l’IFRS 10, diversamente dalle norme nazionali analizzate nella precedente sezione, non fa esplicito riferimento al possesso della maggioranza dei diritti di voto nell’assemblea, come invece avveniva nella previgente regola dello IAS 27, ma preferisce focalizzarsi sul concetto più generale di potere (simile a quello di influenza determinante) sulla società partecipata e di esposizione ai ritorni variabili della medesima società.

In ragione del riferimento agli anzidetti concetti indeterminati, la valutazione sulla sussistenza di un controllo ai sensi dell’IFRS 10 richiederà un’analisi caso per caso, avente ad oggetto tutti i fatti e le circostanze rilevanti nel caso di specie: questi avranno, in particolare, ad oggetto la composizione del capitale sociale e l’effettiva partecipazione degli azionisti alle decisioni della società, il sistema di governance adottato, la sottoscrizione di patti parasociali per l’esercizio dei diritti di voto o altri accordi contrattuali che influiscano sulle attività rilevanti della società partecipata, così come la natura delle relazioni tra le società in questione.

Di seguito provvederemo ad analizzare gli elementi da considerare al fine di stabilire la sussistenza di un controllo rilevante ai sensi dell’IFRS 10.

a) Potere sulla società in cui si investe

Una società ha potere sulla società in cui investe allorquando è in possesso di diritti idonei a dirigere le attività rilevanti della seconda.

La fonte di tale potere può essere varia: prima di tutto, tale potere può discendere dai diritti di voto connessi alle azioni o agli altri strumenti di equity detenuti dall’investitore. La proprietà di una quota azionaria che conferisca la maggioranza dei diritti di voto è il caso più semplice ed immediato. In tale circostanza, il potere di dirigere la società sussiste anche qualora i diritti di voto non siano stati effettivamente esercitati (diritti di voto potenziali).

In mancanza della maggioranza dei diritti di voto, il potere può derivare dalla sottoscrizione di un patto parasociale o di altri accordi contrattuali con altri titolari dei diritti di voto, che permettano all’investitore di influire su un numero di diritti di voto sufficiente ad adottare le decisioni più importanti della società partecipata, quali, a titolo esemplificativo, le decisioni concernenti l’attività finanziaria e le spese in conto capitale, come l’approvazione del budget, così come decisioni riguardanti la nomina e la remunerazione del top management (inclusi i direttori generali) ovvero i fornitori di servizi e la risoluzione di contratti di fornitura o di lavoro.

In altri casi, l’esame del controllo sarà più complesso e richiederà la valutazione di più fattori. Esempi di diritti che, individualmente o in combinazione tra loro, possono conferire ad un investitore il potere di dirigere una società sono i seguenti:

  1. a parte il caso in cui sussista un patto parasociale, diritti di nomina, di sostituzione o di revoca di esponenti chiave del management (e a maggior ragione dell’organo di gestione) della società in cui si investe, i quali abbiano, a loro volta, il potere di dirigere le rilevanti attività sociali;
  2. diritti di istruire e guidare la società in cui si investe alla conclusione, o all’esercizio di diritto di veto su eventuali modifiche, di operazioni significative che vadano a beneficio dell’investitore; e
  3. altri diritti (quali diritti decisori specificati nel contratto di gestione), che conferiscano al titolare il potere di dirigere le rilevanti attività della società in cui si investe.

Inoltre, al fine di valutare se un investitore abbia potere su una società, occorrerà altresì fare riferimento alla “relazione speciale” tra l’investitore e la società partecipata. La presenza, infatti, di determinati indicatori – diversi da diritti di voto o da accordi contrattuali – può indicare che l’investitore abbia l’effettiva capacità di dirigere unilateralmente le attività rilevanti della società in cui investe. Le seguenti circostanze dovrebbero pertanto essere scrupolosamente valutate, dal momento che potrebbero rivelare la sussistenza di “potere”:

  • i manager chiave della società in cui si investe, dotati del potere di dirigere le attività sociali rilevanti, sono attuali o precedenti dipendenti dell’investitore;
  • le operazioni della società in cui si investe dipendono dall’investitore, vale a dire l’investitore finanzia una frazione significativa delle operazioni della società, fornisce alla società servizi o beni critici per le sue attività ovvero detiene diritti su autorizzazioni o marchi che rivestono notevole importanza per l’operatività della società in cui investe;
  • una porzione significativa delle attività della società in cui investe coinvolge ovvero è svolta per conto dell’investitore;
  • il diritto ai ritorni nella società da parte dell’investitore è sproporzionato rispetto alla quota azionaria detenuta (come avviene nel caso in cui un investitore che detenga meno del 50% del capitale sociale di una controllata ha diritto di ricevere più della metà dei suoi dividendi in ragione di una clausola di liquidazione preferenziale).

Dopo aver delineato i principali diritti che possono dare vita ad un potere nei confronti di una società partecipata, occorre osservare che tali diritti devono essere “sostanziali”, vale a dire il titolare deve avere la possibilità concreta di esercitare gli stessi (in altre parole, non devono esservi ostacoli all’esercizio dei suoi diritti, come nel caso di penali economiche ovvero obblighi regolatori o di legge che vietino al titolare di esercitare gli stessi oppure poteri di blocco da parte di altri investitori).

Il possesso, invece, di meri diritti di protezione non è idoneo a conferire potere nei confronti di una società partecipata ed in tal caso, pertanto, non è possibile ravvisare un controllo sulla stessa. I diritti di protezione sono esclusivamente finalizzati a proteggere l’investimento in una società, ma non conferiscono il potere generale di dirigere la stessa, né di impedire ad un altro investitore di determinare le rilevanti attività della medesima società. Tali diritti hanno generalmente ad oggetto cambiamenti strategici nelle attività della società partecipata, così come il compimento di operazioni rilevanti che possono avere un impatto negativo o comunque significativo sull’investimento nella società partecipata. Esempi di tali diritti di protezione comprendono il diritto dell’investitore di approvare spese in conto capitale superiori ad un determinato importo, così come l’emissione di equity da parte della società partecipata mediante aumenti di capitale (con relativo effetto di diluzione), deliberazione di liquidazione oppure ancora l’emissione di strumenti di debito.

Il potere di dirigere una società può essere altresì individuato nel caso in cui altri enti abbiano diritti concorrenti a partecipare alla direzione delle attività rilevanti della società partecipata, nel qual caso occorre valutare quale investitore detenga diritti maggiormente in grado di influire sui ritorni variabili[24]. Diversamente, qualora due o più investitori dirigano congiuntamente una società partecipata – ad esempio perché nessuno può singolarmente determinare le attività rilevanti di quest’ultima senza la collaborazione dell’altro – nessun investitore sarà ritenuto in grado di controllare individualmente la partecipata e quindi obbligato a consolidarne la partecipazione nel proprio bilancio. In quest’ultimo caso, l’investitore contabilizzerà la propria quota nella società partecipata secondo il metodo del patrimonio netto conformemente allo IAS 28 “Investments in Associates and Joint Ventures”.

(b) Esposizione o diritti a ritorni variabili

Nell’individuazione di un eventuale controllo su una società, occorrerà determinare se un investitore disponga effettivamente di diritti a “ritorni variabili” derivanti dalla sua partecipazione nella società in cui investe.

Il concetto di ritorni variabili (“variable returns”) ha sostituito quello di “benefits” precedentemente utilizzato nello IAS 27, al fine di ricomprendere chiaramente i risultati sia positivi, sia negativi della società partecipata.

Per il resto, il concetto di ritorni variabili ha carattere auto-esplicativo: esso si riferisce a ritorni che non sono fissi e che hanno la caratteristica di variare in ragione della performance della società partecipata, quali sono:

  1. i dividendi o altre distribuzioni di benefici economici da parte della società partecipata (ad es. interessi da titoli di debito emessi dalla società partecipata);
  2. la remunerazione per la fornitura di asset ad una società partecipata, commissioni o esposizione a perdite per aver fornito supporto finanziario o liquidità alla stessa, benefici fiscali e accesso a liquidità futura derivante dalla partecipazione dell’investitore nella società in cui investe;
  3. altro genere di ritorni economici derivanti dall’investimento, quali economie di scala nel caso in cui l’investitore abbia la possibilità di utilizzare i propri asset in combinazione con gli asset della società in cui investe, risparmi di costo, accesso a know-how e rafforzamento del valore degli asset dell’investitore.

Al fine di valutare l’esposizione dell’investitore ai ritorni variabili, occorrerà infine fare riferimento alla sostanza degli accordi esistenti tra le società interessate, a prescindere dalla forma legale di tali ritorni[25], sempre avendo riguardo, comunque, “[al]l’abilità [dell’investitore] di influire su tali ritorni attraverso il proprio potere sulla società in cui investe”[26].

(c) Legame tra potere e ritorni

Da ultimo, occorre valutare se l’investitore abbia, in concreto, il potere di influire sui propri ritorni attraverso il suo coinvolgimento nella gestione della società partecipata.

A tal fine, appare di fondamentale importanza determinare se l’investitore agisca nella società partecipata quale “principale” o non quale mero “agente” di altro ente: quest’ultima figura ricorre nel caso in cui un soggetto eserciti principalmente il proprio potere per conto e nell’interesse di un altro soggetto, il principale per l’appunto, nel quale caso esso non sarà considerato detenere il controllo sulla società partecipata; diversamente il principale è un soggetto che agisce principalmente per suo conto e nel suo interesse, esercitando in questo modo un controllo sulla società in cui investe[27].

Al fine di valutare se l’investitore sia un principale o un agente, occorrerà considerare il rapporto nel complesso tra l’investitore, la società partecipata e altre parti coinvolte in quest’ultima (c.d. “linkage test”), avendo particolare riguardo ai fattori di seguito indicati:

  • la portata del potere esercitato sulla società partecipata;
  • i diritti detenuti dalle altre parti;
  • la remunerazione alla quale l’investitore ha diritto;
  • l’esposizione alla variabilità di ritorni derivanti da altre interessenze detenute nella società partecipata.

III. Conclusioni

Le disposizioni nazionali contenute nel d. lgs. 127/1991 prevedono un obbligo di consolidamento allorquando una società, pur non disponendo della maggioranza dei diritti di voto, sia in grado di determinare gli esiti delle deliberazioni dell’assemblea ordinaria di un’altra società, quantomeno per quanto riguarda la nomina della maggioranza dei componenti del suo organo di gestione.

Tale risultato può essere ottenuto:

  • in presenza di situazioni di fatto, ricollegabili all’elevato frazionamento della restante compagine azionaria o ad uno scarso attivismo della stessa – situazioni spesso rinvenibili congiuntamente – che consentano ad un socio di minoranza di imporre continuativamente la propria volontà sull’assemblea ordinaria;
  • per mezzo di patti parasociali, che assicurino ad un socio di minoranza lo stesso risultato derivante dalla situazione di fatto appena descritta;
  • per mezzo di apposite clausole statutarie che riservino alla società consolidante la decisione su determinate materie ovvero specifiche prerogative (quali la nomina della maggioranza degli amministratori).

Il principio contabile internazionale attualmente stabilito nell’IFRS 10 concentra, invece, la propria attenzione sull’esposizione di una società ai ritorni variabili della società partecipata e sulla sua concreta possibilità di incidere sul diritto agli stessi.

Come tale, l’IFRS 10 testimonia una preferenza per una nozione di “controllo” di matrice maggiormente “economica” e “sostanziale” e concentra la propria attenzione più sugli indici e sulle situazioni effetto del controllo che sugli strumenti (come diritti di voto, patti parasociali, patti di dominio) utilizzabili a tal fine, che sono invece oggetto delle disposizioni nazionali.

Tuttavia, pur nella diversità dei criteri di partenza, sia le norme interne, sia le previsioni contenute nell’IFRS 10 convergono generalmente a rinvenire l’obbligo di consolidamento negli stessi casi, quali, oltre al caso più immediato di possesso (e concreta possibilità di esercizio) della maggioranza dei diritti di voto nell’assemblea, il diritto di nominare la maggioranza dei membri dell’organo di gestione e del top management della società partecipata, nonché la possibilità di influire in maniera determinante sulle scelte più rilevanti di carattere operativo o finanziario della società partecipata.

 


[1] Tali situazioni possono ravvisarsi, ad esempio, nella previsione, attualmente consentita nel nostro ordinamento, di azioni con diritto di voto plurimo e di maggiorazione del diritto di voto, nonché nelle azioni di risparmio già previste per le società quotate dalla l. 216/1974.

[2] La previsione di cui all’art. 2359 c. 1 n. 2) c.c. includerebbe, in teoria, la possibilità di esercitare un’influenza dominante sull’assemblea ordinaria in virtù di un patto parasociale, che, tuttavia, ai fini dell’individuazione del controllo rilevante ai sensi dell’obbligo di consolidamento, è esplicitamente presa in considerazione, come di seguito specificato, dall’art. 26 c. 2 lett. b) del d. lgs. 127/1991.

[3] Cfr., tra gli altri, C. PASTERIS, Il controllo nelle società collegate e la partecipazione reciproca, Milano, 1957, p. 32; B. LIBONATI, Il gruppo insolvente, Firenze, 1981, p. 64; G. Mollo, D. Montesanto, Il controllo societario nel Testo unico della finanza, Problemi e prospettive di riforma, in Quaderni giuridici Consob, n. 8/2015.

[4] Queste riguardano i casi in cui (a) l’inclusione nel consolidamento della società partecipata sia irrilevante al fine di fornire una rappresentazione veritiera e corretta della situazione patrimoniale, finanziaria e di risultato economico a livello complessivo di gruppo; b) l’esercizio dei diritti della consolidante nella partecipata sia sottoposto a gravi e durature restrizioni; c) non sia possibile ottenere tempestivamente e senza spese sproporzionate le necessarie informazioni; d) le azioni e quote nella società partecipata siano detenute al solo scopo della successiva rivendita.

[5] Si noti che l’utilizzo nella disposizione in esame del termine “dispone” è da interpretare, secondo la dottrina, come riferibile non solo al caso di proprietà delle azioni attribuenti il diritto di voto, ma anche al mero possesso delle medesime azioni, in virtù, ad esempio, di pegno o usufrutto. Cfr., tra gli altri, L.A. Bianchi, La nuova definizione di società controllate e collegate, in La nuova disciplina dei bilanci di società, diretto da M. Bussoletti, Torino, 1993, p. 7; G. Olivieri, La redazione del bilancio consolidato, in Trattato delle Societa' per Azionidiretto da G. E. Colombo e G.B. Portale, vol. VII, Torino, 1994, pp. 679 ss.  

[6] M. Notari, J. Bertone, Commento sub art. 2359 c.c., in Azioni – Commentario alla riforma delle società, diretto da P. Marchetti, L.A. Bianchi, F. Ghezzi, M. Notari, Milano, 2008, p. 668.

[7] Le medesime considerazioni espresse per la nomina degli amministratori valgono per l’elezione dei membri del consiglio di sorveglianza e, attraverso di esso, del consiglio di gestione in caso di adozione del sistema dualistico disciplinato dagli artt. 2409oc­ties – 2409quinquiesdecies c.c.

[8] M. Notari, J. Bertone, Commento sub art. 2359 c.c., p. 711.

[9] M.S. Spolidoro, Il concetto di controllo nel codice civile e nella legge antitrust, in Rivista delle Società, 1995, p. 476; G.A. Rescio, I sindacati di voto, in Trattato delle società per azioni, diretto da G. E. Colombo e G. B. Portale, Torino, 1994, p. 688; L.A. Bianchi, La nuova definizione di società controllate e collegate, in La nuova disciplina dei bilanci di società, diretto da M. Bussoletti, Torino, 1993, p. 9.

[10] Cfr., in particolare, l’art. 2351 cc. 2 e 5 c.c.

[11] Settima direttiva 83/349/CEE del Consiglio del 13 giugno 1983 basata sull'articolo 54, paragrafo 3, lettera g), del Trattato e relativa ai conti consolidati, in GUCEn. L 193 del 18 luglio 1983, pp. 1-17.

[12] Cfr. art. 23 del d. lgs. 385/1993, art. 3 c. 2 lett. c) del d lgs. 113/2012.

[13] Per una ricostruzione delle varie definizioni di controllo presenti in alcune giurisdizioni europee si rimanda a G. Mollo, D. Montesanto, Il controllo societario nel Testo unico della finanza, cit., pp. 14-15.

[14] Attualmente, si ritiene che i patti di dominio siano ammessi dal diritto italiano sulla base del riferimento, contenuto nell’art. 2497-septies c.c., alla direzione e coordinamento esercitata su una società sulla base di un contratto. Ciò, viene interpretato, a contrario, come indice dell’ammissibilità di patti di dominio, quanto meno nella forma non “estrema” di accordi che non vincolino la società partecipata ad ottemperare persino a direttive che si rivelino pregiudizievoli del proprio interesse sociale. Sul punto, si veda, tra gli altri, F.M. Mucciarelli, L’autorizzazione all’acquisto di partecipazioni al capitale delle banche, in Il governo delle banche in Italia: commento al TU bancario ed alla normativa collegata, diretto da R. Razzante, L. Lacaita, 2006, pp. 132-133.

[15] Cfr. la previgente versione del principio n. 17 (Bilancio consolidato) dei principi contabili nazionali (in breve “OIC 17”) del 16 settembre 2005, § 5.1, disponibile all’indirizzo http://www.fondazioneoic.eu/wp-content/uploads/downloads/2010/11/2005-09-16_Principio-17_Bilancio-consolidato.pdf

[16] Tale parte della relazione d’accompagnamento al d. lgs. 127/1991 è citata nella previgente versione dell’OIC 17 del 16 settembre 2005, § 5.1, cit. Si noti che clausole del genere descritto nel testo sono ormai da considerarsi invalide a seguito dell’entrata in vigore del D. L. n. 21/2012, come convertito in L. n. 56/2012, nonché dell’attuale formulazione dell’art. 2449 c.c. 

[17] Ci si riferisce qui al caso in cui il patto parasociale coinvolga un numero di azionisti che detenga complessivamente la maggioranza dei diritti di voto dell’assemblea e che, quindi, consentirà al suo azionista maggioritario, titolare, in ipotesi, del solo 25% del capitale sociale della società, di controllare (qualora la decisione sul voto da assumere venga presa a maggioranza dei componenti del patto) la maggioranza dei diritti di voto esercitabili all’assemblea ordinaria.

[18] La problematica è, infatti, comune anche all’accertamento dell’influenza dominante ai sensi dell’art. 2359 c. 1 n. 2) c.c.

[19] Cfr. OIC 17 del 16 settembre 2005, § 5.1, cit.

[20] Regolamento (CE) n. 1606/2002 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 19 luglio 2002, relativo all'applicazione di principi contabili internazionali, pubbl. in G.U.U.E. L 243, 11.9.2002, pp. 1–4.

[21] Esso sostituisce la precedente regola fornita dallo IAS 27 e la relativa interpretazione ad opera del SIC-12 “Consolidamento – Società a destinazione specifica”.

[22] Regolamento (UE) n. 1254/2012 della Commissione, dell’ 11 dicembre 2012 , che modifica il regolamento (CE) n. 1126/2008 della Commissione che adotta taluni principi contabili internazionali conformemente al regolamento (CE) n. 1606/2002 del Parlamento europeo e del Consiglio, per quanto riguarda l’International Financial Reporting Standard 10, l’International Financial Reporting Standard 11, l’International Financial Reporting Standard 12, il Principio contabile internazionale (IAS) n. 27 (2011) e il Principio contabile internazionale (IAS) n. 28 (2011), pubbl. in GUUE L 360, 29.12.2012, p. 1–77.

[23] “When an investor […] is exposed, or has rights, to variable returns from its involvement with the investee and has the ability to affect those returns through its power over the investee”.

[24] IFRS 10, § B13.

[25] Ciò permette di ricomprendere nel concetto in esame anche un’obbligazione con tasso di interesse fisso, considerata “produttiva di rendimenti variabili”, in quanto “ai fini dello standard, espone l’investitore al rischio di credito dell’emittente il titolo” (A. Dello Strogolo, Il nuovo concetto di controllo ai fini del consolidamento secondo il principio contabile internazionale IFRS 10, § 4, disponibile su Diritto Mercato Tecnologia al seguente link http://www.dimt.it/2011/05/06/il-nuovo-concetto-di-controllo-ai-fini-del-consolidamento-secondo-il-principio-contabile-internazionale-ifrs-10/

[26] IFRS 10:8.

[27] La necessità di procedere alla qualificazione dell’investitore quale principale/agente e gli esempi forniti a tal proposito dall’IFRS 10 sono principalmente tratti dal settore dell’asset management, nel quale sovente un determinato ente viene costituito ai fini della gestione di un fondo (similmente a quanto avviene altresì nel caso di fondi immobiliari, infrastrutturali e attivi nel settore dell’estrazione di materie prime). A tal proposito, si veda il contributo di Deloitte Canada, Clearly IFRS, Moving ahead in an IFRS world. A practical guide to implementing IFRS 10 – Consolidated Financial Statements, p. 11, disponibile al link http://www2.deloitte.com/content/dam/Deloitte/ca/Documents/audit/ca-en-audit-clearly-ifrs-consolidated-financial-statements-ifrs-10.pdf 

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