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Note minime su strumenti finanziari derivati e mezzi di tutela dell’investitore

19 Giugno 2012

Matteo De Poli

1 – Cenni introduttivi sulla contrattazione in derivati.

A causa della sua evidente maggior complessità1, la contrattazione in materia di strumenti finanziari derivati presenta, senza dubbio, caratteristiche tali da renderla diversa da quella in materia di strumenti finanziari tout court, ma queste singolarità (pensiamo, ad esempio, alla frequente scansione dell’operazione in più rinegoziazioni) non sono accentuate al punto da far sì che l’articolazione dei rimedi attivabili dall’investitore che dia l’avvio a una controversia contro l’intermediario in questa materia sia diversa, in linea generale, da quella esperibile nelle controversie aventi per oggetto altri strumenti finanziari: se l’intento sarà quello di coprire, ad abundantiam, l’intero arco dei rimedi, il catalogo si aprirà con la richiesta di dichiarare la nullità del contratto quadro e conseguentemente delle operazioni di acquisto o di vendita; proseguirà domandando l’annullamento del contratto quadro, sia per errore sia per dolo, e delle operazioni. A riguardo, non è semplice rispondere se sia meglio far precedere la domanda di annullamento per errore o quella per dolo, ma ciò che conta è che da tempo la giurisprudenza ha ammesso il cumulo delle due domande (che, però, dovranno essere fondate su circostanze diverse, almeno in buona parte); si passerà poi alla domanda di risoluzione del contratto per inadempimento per poi finire chiedendo, in via di estremo subordine, il risarcimento del danno.

E’ osservazione istituzionale – che si formula solo perché contribuisca alla chiarezza dell’esposizione – quella secondo cui i primi tre rimedi (pur se, volendo essere rigorosi, la nullità stenta a collocarsi pacificamente tra i “rimedi”) hanno natura “demolitoria” dell’atto negoziale e, dunque, a cascata, anche del rapporto contrattuale che ne discende, provocando il ripristino dello status quo ante, mentre il risarcimento conserva il rapporto contrattuale, limitandosi a rettificarne l’esito economico. Come vedremo, rinunciare alla rimozione a vantaggio della sola conservazione è scelta da ponderare molto attentamente. Tra i casi meritevoli della massima attenzione vi è quello di una controversia su di un derivato instaurata quando questo scadrà lontano nel tempo: concentrarsi sul solo risarcimento del danno esporrebbe l’investitore alla necessità di instaurare un nuovo contenzioso e quellola cui assistenza professionale è stata meno qualificata al rischio di sentirsi eccepire, nel successivo giudizio, l’inammissibilità delle nuove domande in forza del principio di copertura del dedotto e del deducibile.

Sappiamo che il D.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, cd. T.U.F., non disciplina, se non in misura molto marginale, le quattro azioni giudiziali, il cui regolamento andrà tratto dalle disposizioni del Codice Civile e di quello di Procedura Civile. I profili disciplinati dal Testo Unico sono, infatti, solo i seguenti: i) quello della legittimazione – in capo al solo investitore – a esercitare l’azione di nullità nei casi di mancanza di forma scritta del contratto di prestazione di servizio di investimento (art. 23, comma 3, in connessione all’ipotesi disciplinata al comma 12) e di nullità del patto di rinvio agli usi per la determinazione del corrispettivo dovuto dal cliente (art. 23, comma 3, in connessione all’ipotesi disciplinata al comma 2), ipotesi, quest’ultima, di nullità necessariamente parziale; ii) quello dell’onere della prova nei giudizi di risarcimento del danno, gravante in capo ai soggetti abilitati (ossia, ai prestatori del servizio di investimento o di quello accessorio) ai quali spetterà la dimostrazione “di aver agito con la specifica diligenza richiesta”: art. 23, comma 6; iii) quello della legittimazione a far valere la nullità, anche qui spettante al solo investitore, in caso di contrasto con le disposizioni in materia di gestione di portafogli dettate dall’art. 24.

Un’altra ipotesi di nullità relativa è quella dettata in materia di offerta fuori sede: l’art. 30, comma 7, prevede infatti che “l’omessa indicazione della facoltà di recesso nei moduli o formulari comporta la nullità dei relativi contratti, che può essere fatta valere solo dal cliente”.

Regole di carattere processuale, o incidenti sulla dinamica processuale, il Regolamento Intermediari emanato dalla Consob non ne contiene. Del resto, sappiamo che neppure dal punto di vista sostanziale la materia è trattata in modo sensibilmente diverso da quanto è fatto per gli altri strumenti finanziari.

Ciò detto, è tempo di passare a esaminare un po’ più approfonditamente i singoli rimedi, cosa che faremo, però, solo dopo aver ricordato il contesto economico nel quale si è calata questo tipo di operatività e le sue caratteristiche più rilevanti ed aver precisato che ci riferiremo alla disciplina precedente il recepimento della Direttiva MiFID3, perché è sotto il vigore quella che è sorto e si è sviluppato il contenzioso.

La situazione macroeconomica che ha portato allo sviluppo del contenzioso tra banche e investitori in materia di strumenti derivati è nota ma richiamarla brevemente gioverà a una migliore comprensione delle riflessioni che di seguito si esporranno.

A spingere verso questo tipo di operatività furono, in linea di massima, il rapporto tra euro e dollaro e l’andamento dei tassi d’interesse nell’ultimo decennio. Sul rapporto tra le due valute tutti ricordiamo che, mentre la moneta unica europea si apprestava a debuttare, molti dubitavano che essa potesse competere ad armi pari con il dollaro; simili considerazioni furono fatte per i tassi d’interesse, che si riteneva fossero destinati a crescere. Entrambe le previsioni si dimostrarono sbagliate, ma le banche le avevano intanto cavalcate, offrendo a enti pubblici e imprese (ma anche a privati, seppure in modo marginale) strumenti finanziari il cui fine era, almeno nelle intenzioni iniziali, quello di dare una copertura a tali rischi.

Un fine assolutamente meritevole, dunque, se non fosse che molte caratteristiche di quegli strumenti potevano far presagire – ma solo all’osservatore più attento – uno sviluppo pericoloso dei rapporti che essi instauravano. A tacere della loro rischiosità, vi era anche il fatto della loro mancanza di liquidità e, conseguentemente, dell’impossibilità di liberarsene se non trattando direttamente con la banca4. Invero, come sappiamo, questi contratti, costruiti sul fabbisogno di protezione del singolo investitore, non avevano un mercato secondario organizzato ed erano (come accade per altro tutt’oggi) trattati over the counter (OTC), in un contesto di scarsa trasparenza, illiquidità, propensione a sviluppare conflitti di interesse per il connubio tra offerta e consulenza atto a mettere in crisi il dovere dell’intermediario di curare l’interesse dell’investitore5.

Il pur breve tempo trascorso dall’inizio di questo tipo di operatività ha consentito, dal punto di vista storico, di chiarire che furono in genere le banche a proporre questi strumenti alla propria clientela, non viceversa, come potrebbe apparire dalla lettura della documentazione contrattuale: alla fine degli anni novanta, conoscenza e comprensione dei meccanismi di funzionamento degli stessi erano quasi inesistenti. Perché clientela inesperta e incompetente abbia assunto rischi così alti è cosa nota: la responsabilità è di Consob e della sua scrittura dell’art. 31 del Regolamento Intermediari n.11522/98 (successivamentesostituito con delibera 16190/2007 in attuazione della Direttiva 2004/39/CE, cd. MiFID), redatto in virtù del potere conferitole dalla versione iniziale dell’art. 6 comma 2, D. lgs. n. 58/986. L’art. 31 del Regolamento Consob n. 11522/1998 distingueva tre categorie di operatori qualificati: società e persone giuridiche, presunte tali in ragione della specifica attività esercitata; persone fisiche che, per essere considerate tali, avrebbero dovuto documentare di essere in possesso di determinati requisiti; società e persone giuridiche che, per essere considerate operatori qualificati, dovevano dichiarare per iscritto di essere in possesso di specifica competenza ed esperienza in materia. Non è stata un’opera complessa accorgersi che, nell’ambito di un rapporto contrattuale gestito in modo burocratico e in forma scritta, il cliente avrebbe sottoscritto senza grossi problemi una dichiarazione con la quale attestava di possedere competenza ed esperienza; senza grossi problemi, dicevo, e – in particolare – senza rendersi conto di quanta protezione avrebbe perduto sottoscrivendo quella dichiarazione. Ne è seguito un aspro contenzioso di merito – i cui termini sono noti7 – che, a mio avviso, più che essere risolto da una decisione della Suprema Corte8 che ha lasciato insoluti molti nodi, lo sarà una volta che sarà stato adeguatamente valorizzato il principio secondo cui correttezza, trasparenza e buona fede sono dovute anche agli operatori qualificati, come ha recentemente affermato il Tribunale di Milano9.

2 – Sulla nullità del contratto derivato

Passo ora a esaminare – senza alcuna pretesa di completezza – i rimedi contro le patologie più ricorrenti in materia, che ruotano tutte – direttamente o indirettamente – intorno agli obblighi informativi posti in capo all’intermediario10. Ricordiamo, infatti, che – ai sensi dell’art. 21, comma 1, lett. b) del T.U.F. – questi devono (acquisire le informazioni necessarie dai clienti e) operare in modo che essi siano sempre adeguatamente informati. Il Regolamento n. 11522/199811, poi, precisa e specifica questo obbligo e, quanto agli strumenti finanziari derivati, prevede espressamente – all’art. 28 c. 3 – l’obbligo, in capo agli intermediari, di informare prontamente e per iscritto il cliente qualora le operazioni in derivati da questi concluse con finalità estranee a quella di copertura avessero determinato una perdita almeno pari al 50 % del valore dei mezzi costituiti a titolo di provvista e garanzia per l’esecuzione delle operazioni; disposizione che però non assume spessore rilevante nella gestione delle patologie più ordinarie della fase informativa.

Patologie che, volendo sintetizzare al massimo, sono spesso derivate dal contrasto, anche in termini di efficienza causale sul consenso del cliente, tra informazioni scritte, da una parte, e informazioni orali dall’altro. Perché, se dovessimo valutare la condotta dell’investitore solo sulla base della quantità di informazioni scritte fornite al cliente, ebbene, nulla si potrebbe, ovviamente, contestare all’intermediario, perché tutti gli operatori del settore hanno, oramai da molto tempo, adeguato la loro modulistica ai più alti standard comunicativi e, comunque, al rispetto più formale dei precetti di legge.

Il problema, però, è emerso perché i rapporti contrattuali non sono ancora divenuti scambi tra automi. Gli uomini – le loro esperienze, il loro carisma, la fiducia che ripongono e quella che attraggono – sono ancor’oggi driver formidabili delle scelte umane, e così – esattamente come tutti noi ascoltiamo il consiglio del farmacista che conosciamo da qualche tempo e utilizziamo il farmaco che ci ha consigliato senza guardare, o badare, ai terrificanti avvertimenti contenuti al suo interno – molti investitori hanno trascurato le burocratiche informazioni contenute nella mole di documentazione ricevuta e hanno ascoltato chi gli consigliava quello strumento finanziario.

Nei derivati la centralità del ruolo dell’informazione è risultata maggiore che in molti altri tipi di negoziazioni perché, come si è già scritto, la scansione dell’operazione è stata, generalmente, molto ricca, passando dal contratto base a una o più rinegoziazioni dello stesso, crescendo ogni volta la forbice tra informazione scritta e orale (o, anche, gestuale e comportamentale).

Più volte ho insistito, ad esempio, sulla capacità ingannatoria delle rassicurazioni, o quella dei giri di parole12. Sono e resto della convinzione che si debba uscire dall’angustia della coppia “detto/non detto”, ossia da quella “informazione/reticenza”, e che l’avvocato che assista un investitore in una causa in materia di derivati debba ricostruire con minuzia l’effettivo svolgimento delle trattative, alla ricerca di quelle “fattispecie ricche”13 che, sole, sono capaci di riconoscere natura di “raggiri”, ex art. 1439 cod. civ., ad un comportamento comunicativo imperfetto.

Passo ora a trattare il rimedio della nullità, proponendo di distinguere tra cause di nullità testuale (ad esempio, la mancanza di forma scritta del contratto), fondate su violazioni di tipo “procedurale”; e cause di nullità virtuale, fondate su violazioni di natura “sostanziale” (proprio comela violazione degli obblighi informativi o dei divieti di contrarre con l’investitore non adeguatamente informato). Le prime, a ragione della loro testualità, impongono al giudice la mera valutazione della sussistenza della causa e, generalmente, non richiedono l’espletamento di attività istruttoria perché le prove precostituite (la loro presenza, o la loro assenza) sono sufficienti allo scopo. Le seconde, invece, rappresentano una deviazione dall’ambito ortodosso del rimedio della nullità: il loro accertamento postula la previa discussione intorno alla possibilità di far conseguire alla violazione di un determinato obbligo la nullità del contratto. In più, esse si appalesano, in genere, attraverso lo svolgimento di un’articolata attività istruttoria, solo all’esito della quale il giudice valuterà la vicenda in termini di validità/invalidità, godendo però di margini di discrezionalità inconfrontabili con quelli di quando egli è chiamato a esercitare lo stesso giudizio nell’ambito di una situazione del primo tipo, ossia di tipo “procedurale”.

Il fatto che l’accertamento di una nullità di tipo non formale passi – almeno in genere – attraverso fasi istruttorie sofisticate e articolate non snatura il rimedio ma ne appassisce gli elementi caratteristici e quelli differenziali, avvicinandolo molto all’annullamento. L’azione di nullità resta preferibile in ragione della sua imprescrittibilità ma, in subjecta materia, spesso il confronto non si pone tra imprescrittibilità e termine quinquennale di prescrizione ma tra prescrizione decennale dell’azione di ripetizione dell’indebito e prescrizione quinquennale, decorrente – come sappiamo – dalla scoperta dell’errore o del dolo14.

Ciò detto in via di premessa, tutti sappiamo che la nullità è, sicuramente, il rimedio esplorato dalla dottrina con maggiore attenzione, in modo particolare dopo la presa di posizione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con le due sentenze “gemelle” 26724 e n. 26725 del 200715, decisioni con le quali la Corte ha escluso la possibilità di dichiarare la nullità del contratto di prestazione di servizio di investimento quale conseguenza della violazione, da parte dell’intermediario, degli obblighi posti a suo carico dal legislatore con le “regole di comportamento” del T.U.F. o del Regolamento Intermediari, essendo la nullità destinata a colpire solo la violazione di norme che fissano requisiti di struttura dell’atto negoziale e non mere regole di comportamento.

Questa non è l’occasione più indicata per esaminare criticamente i termini del ricchissimo dibattito che è seguito a tali pronunciamenti. E’ sufficiente ricordare che se la gran parte della dottrina si è schierata a fianco della Corte di Cassazione, riconoscendo l’utilità di mantenere distinte, anche in questa materia, le regole di validità da quelle di buona fede, o – meglio – di comportamento16, non sono mancate meditate prese di posizione di segno contrario17, caratterizzate dalla convinzione che la materia della prestazione dei servizi finanziari, il fatto che essa sia attraversata da considerazioni di tipo giuspubblicistico, il rilievo costituzionale del bene “risparmio”, l’irriducibilità alle regole di buona fede delle regole di comportamento dettate dalla coppia T.U.F. – Regolamento Intermediari; dalla convinzione, dicevo, che tutte queste ragioni consigliassero di non escludere aprioristicamente agli obblighi posti in capo all’intermediario la natura di regole proibitive, la cui violazione ben potrebbe essere sanzionata con la nullità del contratto.

In particolar modo, a me sembra che il rigore della distinzione tra regole di comportamento e regole di validità abbia un’origine almeno in parte condizionata da prese di posizione ideologiche superate – il disfavore dell’ortodossia civilistica verso forme d’intervento giudiziale troppo discrezionali e giustizialiste – e che, in altra parte, calzi sì ancora bene a un tipo di regola di comportamento che trova la sua fonte in una clausola generale (come la buona fede), meno, invece, a una regola assolutamente predeterminata, come quelle imposte dalla Consob nell’alveo tracciato dall’art. 21 T.U.F. Si può consentire, credo, sul fatto che se i criteri di comportamento dettati dall’art. 21 – “generali”, come vengono anche intitolati – non fossero stati specificati, come lo sono stati per mano della Consob, un dubbio non si sarebbe potuto nemmeno porre, ma in un ambito normativo di obblighi ben determinati quale quello vigente, la violazione di una regola di comportamento strutturata in modo da far emergere un divieto di concludere il contratto può, a mio avviso,tradursi nella nullità.

Guardo poi con la massima attenzione a quella tesi secondo cui chi investe sul mercato dei capitali non “acquista valori mobiliari per le loro caratteristiche formali”18: non è, infatti, sul tipo di strumento finanziario che egli fonderà la propria decisione d’investimento, ma sull’andamento successivo ed effettivo dei propri investimenti, che egli potrà ipotizzare solo grazie alle informazioni fornitegli dall’intermediario. Se così è, come credo, se ne ricava l’assoluta centralità – meglio: l’essenzialità – di un corretto adempimento degli obblighi informativi, quale mezzo necessario per forgiare non già il consenso dell’investitore, ma il suo consenso informato. Un consenso reso, invece, in condizioni di disinformazione renderà invalido il contratto, e l’invalidità sarà sub specie di nullità per mancanza dell’accordo.

L’autorevolezza del decisum delle Sezioni Unite non ha, dunque, chiuso definitivamente la questione, anche perché alcuni giudici di primo grado hanno ugualmente deciso a favore della nullità del contratto19, e ciò è sufficiente segno del fatto che quelle sentenze non hanno convinto appieno. E’ vero, però, che c’è da attendersi che, man mano che si risalirà la piramide delle fasi di giudizio, la tendenza sarà inevitabilmente quella di allinearsi alla decisione delle SS.UU. Per queste ragioni, pertanto, la nullità non appare il rimedio sul quale l’investitore dovrà fare maggiore affidamento, e quest’aspetto andrà considerato perché, coltivandolo inopportunamente, egli potrebbe risultare, seppure in parte, soccombente ai fini del regolamento delle spese di lite.

3 – Sulla risoluzione per inadempimento

Logica avrebbe voluto che dopo la nullità fosse trattato l’annullamento. A ben pensarci, però, non è per niente certo che l’annullamento sia rimedio più efficace della risoluzione per inadempimento20, che – tra l’altro – è il rimedio che la S.C. a sezioni unite ha ritenuto come il più corretto. Come vedremo a breve, le condizioni di annullabilità del contratto – errore e sua riconoscibilità; raggiri determinanti del consenso – sono spesso di difficile dimostrazione. La risoluzione, per contro, postula solo la dimostrazione dell’inadempimento di non scarsa importanza, ma la gravità dell’inadempimento è una condizione che va argomentata, non dimostrata. Vi è poi da aggiungere che la gravità è (quasi) in re ipsa quando a essere violati siano gli obblighi di fonte legale – regolamentare, perché è intorno agli stessi che il legislatore ha costruito il nuovo sistema di tutela dell’investitore.

Territorio elettivo della risoluzione per inadempimento mi pare sia la disciplina dell’adeguatezza. Nonostante vi siano voci contrarie, nel regime ante MiFID la soluzione più appropriata per il caso di conclusione di un’operazione inadeguata passava attraverso la costruzione della fattispecie nei termini di una violazione, da parte dell’intermediario, del divieto di prestare uno strumento finanziario (o un servizio) che non risponda a certi requisiti, sempre che l’investitore non avesse dato il proprio previo consenso in forma scritta. Di conseguenza, assomigliando la vicenda a uno dei casi d’irregolare attribuzione traslativa, il rimedio più adatto incideva sul rapporto contrattuale, non sul contratto, ed è dunque proprio la risoluzione di questo.

Vi è, però, un’ipotesi che potrebbe far perdere appeal alla risoluzione.

Ricordo che la contrattazione in strumenti derivati si sviluppa, al pari di quella riguardante ogni generico strumento finanziario, attraverso la stipulazione di un contratto quadro (master agreement) cui seguono gli ordini di acquisto o di vendita (o, direttamente, gli acquisti e le vendite). Mentre del primo è certa la natura contrattuale, dei secondi essa è discussa: secondo alcuni, il contratto di negoziazione riproduce lo schema del mandato ad acquistare o vendere strumenti finanziari e i successivi ordini del cliente alla banca intermediaria integrano mere istruzioni (ex art. 1711 cod. civ.) impartite dal cliente all’intermediario21; per altri, invece, – e noi tra questi – ilcontratto quadro ha natura squisitamente normativa e i successivi negozi natura di contratti di mandato22.

Si ritiene, in genere, che a essere risolto debba essere il contratto quadro, e ciò perché l’inadempimento consisterebbe nella violazione di obblighi, in genere informativi, la cui fonte starebbe in quello. Quegli obblighi, poi, sarebbero funzionali all’irrobustimento del consenso dell’investitore all’atto d’acquistare il derivato. Così scomposta la vicenda, l’informazione sarebbe dovuta in virtù della nascita del rapporto contrattuale tra intermediario e investitore – e, così, essa avrebbe natura di obbligazione contrattuale –, e in ragione dell’importanza di consentire a quest’ultimo di scegliere lo strumento finanziario solo in modo consapevole – assumendo pertanto, e contestualmente, i connotati di un obbligo precontrattuale –.

Nel caso di violazione, da parte dell’intermediario, dell’obbligo di informare il cliente (pensiamo, ad esempio, all’informazione sul rischio), ne consegue una responsabilità di questi per inadempimento di obbligazione, cui sembrerebbe potersi far seguire la possibilità di risoluzione del contratto quadro. Ma, come sappiamo, si può risolvere solo il contratto sinallagmatico, e non è per niente certo che il contratto quadro abbia questa natura. In effetti, esso contiene molta disciplina dei futuri rapporti ma pochi obblighi; quei pochi, sono generalmente in capo al solo intermediario.

Se si dovesse giudicare il contratto quadro come privo del carattere della sinallagmaticità, l’investitore perderebbe la possibilità di ottenere la risoluzione dell’“operazione” perché il suo eventuale tentativo di ottenere la risoluzione dell’ordine d’acquisto del derivato sarebbe destinato a sicuro insuccesso. In questo caso, la questione non è opinabile come quella precedente: il Giudice obietterebbe che l’obbligo violato ha natura precontrattuale e che la violazione di tale obbligo non consente il rimedio della risoluzione. Un’ipotesi di questo genere dovrebbe, pertanto, essere gestita domandando, in via subordinata, l’annullamento dell’atto esecutivo dell’operazione.

4 – Sull’annullamento del contratto

Spetta ora svolgere qualche osservazione su tale rimedio23. Limitando l’indagine ai vizi del consenso – il contratto, invero, potrebbe essere annullato anche a causa di un conflitto d’interessi – le ipotesi in discussione sono, ovviamente, solo quelle dell’errore spontaneo e di quello provocato, ossia del dolo, non essendo ragionevole supporre che la violenza morale possa entrare in gioco.

Se nei casi precedenti la patologia del momento cognitivo è solo una delle ipotesi di attivazione del rimedio, in questo caso essa è invece essenziale, perché le due forme del rimedio sono accomunate dalla necessaria presenza, in entrambe, di una falsa rappresentazione o di un’ignoranza. Vicenda che non è per niente raro ritrovare nella contrattazione in strumenti finanziari derivati, ove l’opacità dello strumento è, direi, consustanziale, inevitabile, endemica. Si pensi solamente alla difficoltà di spiegare, e di capire, il meccanismo della leva; o di quello dell’up front. E, naturalmente, il rischio24, in tutte le sue componenti: quello di andamento antitetico dei due tassi di riferimento nel tempo, quello di volatilità, quello di liquidità ecc..

Com’è noto, l’annullamento per errore postula la mancata conoscenza di uno degli elementi indicati dall’art. 1429 cod. civ. – per quanto ci interessa oggi, natura e oggetto del contratto; identità dell’oggetto della prestazione o una qualità dello stesso che, secondo il comune apprezzamento o in relazione alle circostanze, deve ritenersi determinante del consenso –, senza possibilità di attrarre nel novero elementi ivi non indicati, come il valore25. I margini per l’utilizzo di questa forma di annullamento sono, dunque, ristretti.

Cercando di valorizzare quelli a disposizione, si potrà indagare sul rapporto tra la natura dell’operazione contrattuale (o l’oggetto: distinguere i due concetti non è sempre facile) così come l’aveva intesa l’investitore, e quella che si è in concreto realizzata. Dovesse emergere una differenza tra attesa e sostanza, il n. 1 dell’art. 1429 potrebbe entrare in gioco. Si pensi al caso dell’investitore che voleva “liquidità” e ha ricevuto uno strumento finanziario derivato con l’erogazione di denaro a titolo di up front. In casi come questi non è peregrino parlare di errore sulla funzione del contratto, dunque sulla sua natura.

Il derivato, a dispetto di quanto pensano molti, non ha una causa “tipica” (chi lo pensa la individua nella finalità di copertura), né, anche se l’avesse, lo sviamento dalla stessa (ad esempio, come quando il derivato persegue schiette ragioni speculative) non produrrebbe ex se la nullità del contratto. Esso, allora, ha una causa variabile in funzione degli obiettivi d’investimento del contraente: può avere finalità di copertura come di speculazione, ma anche una finalità che è un po’ dell’una e un po’ dell’altra (si pensi al derivato concluso per controbilanciare un tasso di interesse sull’operazione creditizia che gli sta alle spalle più alto di quello di mercato), come prima dell’una (di copertura, nell’operazione iniziale) poi dell’altra (nella rinegoziazione).

Sicché, la rinegoziazione conseguente a un’iniziale “perdita” (in senso a-tecnico, ovviamente, perché nei derivati non si hanno perdite), quand’anche giunga a snaturare l’iniziale logica economica dell’operazione, non renderà mai il contratto nullo per ragioni ruotanti intorno alla sua causa ma potrà, invece, aprirsi alla possibilità di essere colpito da annullamento quando l’investitore dimostri di aver malinteso la nuova funzione contrattuale, e di tale errore dimostri la riconoscibilità da parte dell’intermediario.

Formulo subito l’unica riflessione che farò sul requisito della riconoscibilità. Sono convinto che esso sarà – debitamente, credo – svalutato dagli organi giudicanti in misura tale da farne perdere, in sostanza, la forza di effettivo requisito. La riconoscibilità, da parte di una banca, dell’errore di un investitore mi pare, infatti, percepita come un dato in re ipsa, e ciò perché sarebbe paradossale una diversa soluzione quando il ruolo caratteristico dell’intermediario in questa materia è proprio quello di “produttore d’informazioni” e, dunque, di depositario di conoscenze.

Dicevo che il “valore economico” – la “convenienza economica” del contratto – è elemento non compreso nell’elenco degli errori essenziali. Le ragioni dell’esclusione del valore sono legate al fatto che questo, in genere, riguarda i motivi della contrattazione, non il suo oggetto.

Gli errori che l’investitore può compiere contrattando in derivati si riflettono sovente, direttamente o indirettamente, sul valore dell’operazione (effetto leva, esistenza di commissioni non dichiarate); non solo sul valore, ma spesso su quello. Se ciò è vero, delle due forme di annullamento avrà più possibilità di essere accolta quella per dolo, che richiede la dimostrazione dell’incidenza determinante sul consenso dell’errore provato dai raggiri, ma che non distingue a seconda di dove cade l’errore.

L’investitore che voglia agire utilizzando questo rimedio dovrà portare la massima attenzione sull’allegazione e sulla dimostrazione dei fatti integranti i raggiri. In più occasioni mi sono speso a favore della tesi secondo cui il mero silenzio non costituisce raggiro invalidante perché i raggiri sono integrati solo da un comportamento articolato che, proprio grazie a tale articolazione, evidenzia l’intento di ingannare e la sua effettiva capacità ingannevole:ciò non dovrebbe costituire, però, un problema troppo serio per l’investitore se è vero ciò che ho segnalato in precedenza, ossia che la fase precontrattuale di questo tipo di operatività è, generalmente, “ricca” di forme comunicative. Basta cercarle.

5 – Sul risarcimento del danno.

Chiudo queste mie osservazioni trattando un aspetto del rimedio risarcitorio non consueto.

Varie ragioni possono portare l’investitore ad agire in giudizio prima della conclusione del contratto.

In questo caso, sarà all’udienza di precisazione delle conclusioni che si determinerà definitivamente il quantum risarcitorio; dopo quel momento, però, i differenziali continueranno a correre, e se sono stati negativi in precedenza è alta la possibilità che continuino a esserlo.

Occorrerà, allora, aver proposto una domanda di risarcimento che non precluda l’instaurazione di un nuovo giudizio, teso a recuperare le perdite successive. La riserva andrà formulata all’atto introduttivo del giudizio e con grande chiarezza, a meno che non si scelga di agire con una domanda di condanna generica, scelta che considero, però, insoddisfacente perché, pur quando accolta, lascerebbe intatta l’esposizione in conto corrente dell’investitore, con i noti effetti ai fini dell’iscrizione in Centrale dei Rischi.

 

1 Va ricordato che gli strumenti finanziari derivati over the counter (cd. “OTC”) sono strumenti complessi ed opachi fin dalla loro più semplice strutturazione. Si tratta di operazioni definite “di investimento” ma che, a ben vedere, di investimento hanno molto poco, dato che esse non richiedono l’impiego di una somma iniziale, contrariamente alle altre più tradizionali forme di investimento. Ciò significa che il cliente tende a non percepire con immediatezza ed evidenza il rischio insito in tali prodotti, né è in grado di percepire l’effetto leva posseduto da tali contratti, derivante dal fatto che gli oneri finanziari che maturano a carico delle parti si poggiano su valori finanziariamente elevati ma puramente nominali.

2 L’obbligo di redigere il contratto in forma scritta è disciplinato, come abbiamo detto, dall’art. 23, comma 1, T.U.F. ma anche dall’art. 37, comma 1, Reg. Intermediari n. 16190/2007, secondo cui “gli intermediari forniscono a clienti al dettaglio i propri servizi di investimento, diversi dalla consulenza in materia di investimenti, sulla base di un apposito contratto scritto; una copia di tale contratto è consegnata al cliente”. Lo scopo che la forma scritta persegue è, in primis, la trasmissione d’informazioni e, come tale, ha, dunque, anzitutto finalità informativa a vantaggio della parte debole del rapporto. Indirettamente, però, la forma scritta, produce anche l’effetto di promuovere la concorrenza per l’ausilio alla circolazione delle informazioni tra concorrenti che essa produce.

3 Per un’analisi critica dei più rilevanti profili del rapporto tra cliente e intermediario alla luce del nuovo Reg. Intermediari, si rinvia a Morera, I rapporti banca-cliente nella normativa MiFID. Un primo commento, in La nuova normativa MiFID, a cura di De Poli, Padova, 2009, p. 41 ss.

4 Si è rilevato, correttamente, che senza l’intervento dell’intermediario finanziario “è molto difficile rintracciare operatori con necessità esattamente eguali e contrarie” così Catalano, “Swaps”: pregiudizi inglesi e (prospettive di) disciplina italiana, in Foro it., 1992, IV,p. 314.

5 Così Girino, I contratti derivati, Milano, 2010, p. 526. Si vada anche la recente decisione di Trib. Milano, 19 aprile 2011, n. 5443, in www.il caso.it, secondo cui “[…] La contrattazione in derivati over the counter, a differenza di quella in derivati ed. uniformi, porta con sé un naturale stato di conflittualità tra intermediario e cliente, che discende dall’assommarsi, nel medesimo soggetto, delle qualità di offerente e di consulente; dalla centralità, in relazione al futuro andamento del rapporto, della disciplina stipulata ab origine; dal fatto che si tratta di prodotti di secondo livello che possono essere strutturati in funzione delle specifiche esigenze delle controparti, quanto alla scadenza, alla tipologia del sottostante, alla liquidazione di profitti e perdite, etc; dall’evidente interesse dell’intermediario, controparte contrattuale portatore di un proprio interesse economico, a costruire e proporre un prodotto che possa risultare svantaggioso o inadatto al cliente, in quanto fabbricato (o rinegoziato) in termini geneticamente (o successivamente) alterati in sfavore del cliente. Il conflitto di interesse tra banca e cliente in tema di derivati di secondo livello Over the counter sussiste per tutti questi motivi, e sussiste anche quando la stessa banca si trova ad avere in vigore operazioni uguali e contrarie con altri soggetti. […] Anzi, deve notarsi che tale circostanza, peraltro, almeno in linea astratta, fa emergere ulteriori aspetti di conflitto di interesse, potendo, gli istituti di credito usi ad operare in derivati trovarsi nella situazione di dover industriarsi a “piazzare” prodotti sul mercato solo per esigenze di riposizionamento e, quindi, di propria copertura (su altri derivati), in ipotesi non sempre coincidenti con le necessità di copertura dei clienti. Premesso quindi che le operazione in derivati su valuta sono state poste in essere in evidente conflitto di interessi, […] La gestione non equa e non trasparente del conflitto di interessi costituisce l’inevitabile approdo delle violazioni di diligenza, professionalità e correttezza nella stipula dei contratti sopra evidenziate […]”.

6 L’art. 31, peraltro, riproduceva sostanzialmente il contenuto dell’art. 13, Regolamento 2 luglio 1991, n. 5387, disposizione con la quale aveva fatto ingresso nel nostro ordinamento il principio di graduazione delle tutele.

7 A riguardo si sono formati almeno tre orientamenti diversi. Secondo il primo, definito di matrice ambrosiana, la dichiarazione richiesta dall’art. 31 per poter inserire una “società o persona giuridica” tra gli operatori qualificati deve essere valutata in termini di “autoresponsabilità” del dichiarante, e si deve conseguentemente escludere che “gli intermediari finanziari avessero l’obbligo di verificare l’effettiva sussistenza del possesso della specifica competenza ed esperienza in materia di operazioni e servizi finanziari dichiarata dal legale rappresentante di una società”: App. Milano, 12 ottobre 2007, in Giur. It., 2008, p. 1164. Così come, in senso analogo, Trib. Milano 20 luglio 2006, n. 8969, in Nuova giur. civile, 2007, I, p. 809 con nota di Tommasini. Secondo altre decisioni, l’investitore non doveva dichiarare la propria competenza, ma limitarsi “ad indicare le proprie esperienze in misura idonea a ritenere di essere in grado di comprendere la complessità dei contratti che si venivano a proporre in ragione della propria esperienza dichiarata”. Sarebbe stato compito dell’intermediario giudicare quelle esperienze come idonee a comprendere la particolare complessità dei contratti che proponeva. Così, App. Trento, 5 marzo 2009, in Giur. merito, 2009, p. 11512; Trib. Torino, 18 settembre 2007 in Nuova giur. civ. comm., 2008, I, p. 337 ss. Alla stregua di questo secondo orientamento, la dichiarazione ex art. 31 si tradurrebbe in una mera enumerazione di fatti storici rilevanti per il giudizio, fatti riguardanti le esperienze concrete sulle quali il dichiarante avrebbe costituito la propria competenza in materia di strumenti e servizi finanziari. Quanto alla banca, questa non sarebbe tenuta ad accertare la veridicità dei fatti narrati ma, solamente, a valutare se essi siano sufficienti a far acquisire al cliente lo status di operatore qualificato. Infine, un terzo orientamento si è distinto per aver ritenuto che l’intermediario dovesse preliminarmente illuminare il cliente sul significato della dichiarazione e sulle conseguenze che da essa ne sarebbero derivate in termini di minore protezione legale. Effettuato tale warning, null’altro l’intermediario avrebbe dovuto fare o verificare, salvo il caso in cui non fosse particolarmente evidente che tale dichiarazione era palesemente inattendibile. Così Trib. Milano,15 ottobre 2008, in Foro ambr., 2008, p. 402; in modo analogo, Trib. Catania, 13 febbraio 2009, disponibile in www.ilcaso.it.

8 CASS. 26 maggio 2009, n. 12138, secondo cui “In mancanza di elementi contrari emergenti dalla documentazione già in possesso dell’intermediario in valori mobiliari, la semplice dichiarazione, sottoscritta dal legale rappresentante, che la società disponga della competenza ed esperienza richieste in materia di operazioni in valori mobiliari – pur non costituendo dichiarazione confessoria, in quanto volta alla formulazione di un giudizio e non all’affermazione di scienza e verità di un fatto obiettivo – esonera l’intermediario stesso dall’obbligo di ulteriori verifiche sul punto e, in carenza di contrarie allegazioni specificamente dedotte e dimostrate dalla parte interessata, può costituire argomento di prova che il giudice – nell’esercizio del suo discrezionale potere di valutazione del materiale probatorio a propria disposizione e apprezzando il complessivo comportamento extraprocessuale e processuale delle parti (art. 116 c.p.c.) – può porre a base della propria decisione, anche come unica e sufficiente fonte di prova in difetto di ulteriori riscontri, per quanto riguarda la sussistenza in capo al soggetto che richieda di compiere operazioni nel settore dei valori mobiliari dei presupposti per il riconoscimento della sua natura di operatore qualificato”.

9 Trib. Milano, 19 aprile 2011, n. 5443, cit., secondo cui i doveri di diligenza e professionalità fissati dall’art. 21 T.U.F. sono norme imperative di settore, espressione del generale dovere di buona fede oggettiva, doveri su cui l’esclusione degli adempimenti di cui agli artt. 27, 28, 29 Reg. Intermediari, non può incidere in alcun modo. La correttezza, o la buona fede in senso oggettivo devono in ogni caso essere applicati “altrimenti si avrebbe la paradossale conseguenza per cui, per il semplice fatto di essere operatore qualificato (per possesso di competenza ed esperienza e certificazione scritta), verrebbe legittimato un regime deteriore del cliente dell’intermediario rispetto a quello emergente dalla teoria generale dei contratti, ove è pienamente operante il principio di buona fede nella stipula e nell’esecuzione del contratto previsto in via generale dall’art. 1173 cod. civ., e sotto il profilo degli obblighi integrativi, dagli artt. 1374 e 1375 cod. civ., anche in un contesto di protezione degli interessi della controparte.”

10 Anche la disciplina dell’adeguatezza ante MiFID è, a ben vedere, centrata sull’informazione, quella – rafforzata – che andava data all’investitore che intendesse procedere con l’acquisto di uno strumento inadeguato. Così ora non è più, perché il servizio o lo strumento inadeguato non possono essere più forniti, pena l’inadempimento dell’intermediario.

11 Il quale continua ad applicarsi alle controversie aventi la propria fonte in (presunte) violazioni degli obblighi informativi anteriori al 2 novembre 2007 (data di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della delibera Consob n. 16190/2007, la quale per altro non contiene alcuna ipotesi di disciplina degli obblighi informativi riguardante specificamente gli strumenti finanziari derivati).

12 Ho proposto un’elaborazione dei vari mezzi ingannatori molto più articolata di quanto sto facendo qui in De Poli, I mezzi dell’attività ingannatoria e la reticenza: da Alberto Trabucchi alla stagione della “trasparenza contrattuale”, in Riv. dir. civ., 2011, I, p. 647 ss.

13 De Poli, Servono ancora i “raggiri” per annullare un contratto per dolo? Note critiche sul concetto di reticenza invalidante, in Riv. dir. civ., 2004, II, p. 911 ss.

14 Scoperta che, vista la complessità dello strumento, emergerà in genere solo grazie all’intervento di un terzo altamente specializzato, con la conseguenza che appare sostenibile che essa si faccia decorrere, ad esempio, dallo svolgimento di una consulenza tecnica di parte ante causam ma anche da eventi endoprocessuali, quali la prova per testimoni o una consulenza tecnica d’ufficio, assunte entrambe su cause azionate da domande diverse da quella di annullamento.

15 Su cui vedi gli immediati commenti di Sangiovanni, Inosservanza delle norme di comportamento: la Cassazione esclude la nullità, in Contratti,2008, p. 231. Sconditti, La violazione delle regole di comportamento dell’intermediario finanziario e le sezioni unite, in Foro it. 2008, p. 786. Mariconda, L’insegnamento delle Sezioni Unite sulla rilevanza della distinzione tra norme di comportamento e norme di validità, in Corr. Giur. 2008,p. 230.

16 Tra i vari, Cottino, La responsabilità degli intermediari finanziari e il verdetto delle Sezioni unite: chiose, considerazioni e un elogio dei giudici, in Giur. It. 2008, p. 347, Luminoso, Contratti di investimento, mala gestio dell’intermediario e rimedi esperibili dal risparmiatore, in Resp. Civ e Prev., 2007, p. 1428; Mariconda, L’insegnamento delle Sezioni Unite sulla rilevanza della distinzione tra norme di comportamento e norme di validità, inCorr. Giur., p. 230; Roppo, La nullità del contratto dopo la sentenza Rordorf, in Danno e Resp. 2008, p. 536; Perrone, Servizi di investimento e violazione delle regole di condotta, in Riv. Soc. 2005, p. 1019.

17 Su tutti: Maffeis, Discipline preventive nei servizi d’investimento: le sezioni unite e la notte (degli investitori) in cui tutte le vacche sono nere, in Contratti 2008, p. 403, Gentili, Disinformazione e invalidità: i contratti di intermediazione dopo le Sezioni Unite, in Contratti 2008, p. 393. Ampiamente in argomento anche Sartori, Le regole di condotta degli intermediari finanziari, Milano, 2004, passim, oltre che in ID, Violazione delle regole informative e modelli di responsabilità, in L’attuazione della direttiva MIFID in Italia, R. D’Apice (a cura di), Bologna, 2010, p. 163 ss.. Secondo Gobbo, La disciplina dell’informazione nei contratti d’investimento: tra responsabilità (pre)contrattuale e vizi del consenso, in Giur. Comm. 2007, p. 124, “la codificazione degli obblighi di protezione, anche sub specie di informazione, pare (…) aver trasformato le regole di correttezza in regole di validità: questa sarebbe proprio la cifra della disciplina speciale e il senso di una nuova regolamentazione che si innesta sulle questioni tradizionali di diritto civile”.

18 Gentili, Disinformazione e invalidità: i contratti di intermediazione dopo le Sezioni Unite, in Contratti 2008, p. 393. Secondo l’A. citato, il vero essentialenegotii, come già detto, “è la (ragionevolmente creduta) attitudine di ciascun prodotto – checché sia – a realizzare le finalità dell’investimento: difesa del capitale, speranza di reddito, opportunità speculative, secondo i casi. Insomma: l’investitore sceglie il prodotto (e quindi forma la sua volontà) per la sua convenienza, non per la sua struttura”.

19 Trib. Modena, 10 gennaio 2008, Trib. Ravenna, 12 ottobre 2009, Trib. Ferrara, 28 gennaio 2010, tutte reperibili in www.ilcaso.it, Trib. Bari, 2 novembre 2011, in www.giurisprudenzabarese.it.

20 Tra le varie decisioni che hanno fatto conseguire alla violazione di obblighi legali la risoluzione del contratto si vedano Trib. Milano, 15 aprile 2009, in Corr. Mer., 2009, II, p. 973 ss., Trib. Taranto 27 ottobre 2004, n. 2273, in Giur.It., 2005, p. 755, e Trib. Monza, 27 luglio 2004, in Giur. merito, 2004, p. 2189. Si veda anche Trib. Catania 21 ottobre 2005, in www.ilcaso.it , ove si afferma che “Il rafforzamento degli obblighi di condotta imposti all’intermediario finanziario in nome delle regole di correttezza, lealtà e diligenza dettate dal diritto comune con riferimento alla fase di esecuzione del contratto appare diretto non solo a realizzare una riduzione del gap informativo che connota i rapporti tra investitore e intermediario ma anche a garantire un interesse della collettività quale quello della “integrità dei mercati” espressamente richiamato dall’art. 21 del T.U.F. Riconoscendo tuttavia a tali norme natura imperativa (peraltro confermata dall’art. 190 del T.U.F.), si deve ritenere che la loro violazione non possa dar luogo a vizi genetici – incidenti cioè sulla conclusione del contratto – bensì a vizi funzionali inerenti alla fase esecutiva di un contratto già concluso. A fronte di un’asserita violazione delle norme di condotta dell’intermediario, all’investitore spetta pertanto il rimedio della risoluzione del contratto per inadempimento e/o della risarcimento del danno, con la precisazione che: 1) oggetto della domanda di risoluzione dovrà essere il contratto base e non l’ordine di negoziazione che ne costituisce solo un momento esecutivo; 2) la gravità dell’inadempimento andrà vagliata tenendo conto della natura degli interessi tutelati, non esclusivamente riconducibili alla sfera soggettiva del contraente investitore; 3)vertendosi in ipotesi di contratto di durata, la risoluzione travolgerà il contratto limitatamente al solo ordine negoziato in difformità agli obblighi di condotta, senza che la risoluzione si estenda agli altri ordini e acquisti posti in essere in forza del contratto base”.

21 Così Galgano, I contratti di investimento e gli ordini dell’investitore all’intermediario, in Contratto e impresa, 2005, p. 889ss.

22 Tra i primi ad aver rilevato la natura contrattuale degli ordini, Castronovo, Il diritto della legislazione nuova. La legge sulla  intermediazione mobiliare, in Banca borsa tit. cred., I, 1993, p. 309.

23 Hanno optato per l’annullamento del contratto per vizio de lconsenso: Trib. Parma, 16 giugno 2005, in Giur. It., 2005, p. 2096, riscontrando l’esistenza di un errore essenziale; e Trib. Pinerolo 14 ottobre 2005, in Giur. It., 2006, p. 521 ss. F ravvisato la presenza di un dolo contrattuale. Da ultimo, si vedano le opposte soluzione – l’una per l’annullamento, l’altra per la risoluzione – adottate dai seguenti Tribunali: Tribunale di Massa Carrara, con sentenza del 31 gennaio 2012, n. 576 ha stabilito che “il contratto di intermediazione finanziaria è annullabile ai sensi dell’art. 1429 n.2 c.c. qualora l’intermediario finanziario abbia fornito al risparmiatore informazioni erronee in merito alle qualità essenziali dell’oggetto della prestazione. In tal caso il risparmiatore avrà diritto alla restituzione delle somme corrisposte, anche a titolo di spese, in esecuzione del contratto”; il Tribunale di Livorno, con sentenza del 25 gennaio 2012, n. 949, ha stabilito invece che “la violazione della normativa di settore, che pone a carico degli Istituti di credito dei precisi obblighi di informazione in merito alle caratteristiche del prodotto finanziario, comporta la risoluzione del contratto con conseguente diritto del risparmiatore al risarcimento del danno”. Sull’annullabilità del contratto per vizio del consenso nel contesto dell’intermediazione mobiliare si veda Battelli, L’inadempimento contrattuale dell’intermediario finanziario, in I Contratti, 2006, p. 476 ss.; Gobbo, I servizi d’investimento nella giurisprudenza più recente, in Giur. comm., 2006, II, p. 36 ss.

24 Maffeis, Contratti derivati, in Banca borsa tit. cred., 2011, 05, p. 604.

25 Si pensi alla consueta contestazione sul valore “negativo” dello swap, in contrasto con l’informazione, contenuta generalmente nel documento sui rischi generali degli investimenti (parte B, punto 4.1, allegato 3 al Reg. Consob 11522/98), secondo la quale “alla stipula del contratto il valore di uno swaps è sempre nullo”.

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