Il presente contributo analizza la possibile integrazione dei principi ESG nel Modello 231, quale scelta strategica dell’impresa, volta a definire un sistema integrato di compliance 231 e regolamentazione ESG.
1. Introduzione
Negli ultimi anni, la crescente complessità normativa e le aspettative elevate di stakeholder, investitori e mercato in tema di sostenibilità, responsabilità sociale e trasparenza hanno spinto le imprese a ripensare i propri sistemi di compliance.
In questo scenario, la convergenza tra Modello Organizzativo ex D.Lgs. 231/2001 e tematiche ESG si configura come una risposta strategica: entrambi condividono l’obiettivo di promuovere comportamenti responsabili, prevenire i rischi e garantire la sostenibilità dell’impresa nel lungo termine.
L’evoluzione normativa, sia a livello nazionale che europeo, ha rafforzato questa tendenza.
A livello nazionale, il D.Lgs. 231/2001, infatti, ha rappresentato il primo tentativo sistemico di responsabilizzare gli enti collettivi, attraverso l’adozione di Modelli Organizzativi – fondati su presidi di controllo e regole di condotta destinati a prevenire la commissione di reati nell’interesse o a vantaggio dell’ente – e, a seguito dell’emersione di alcune istanze cogenti, ha progressivamente ampliato il proprio ambito a nuove fattispecie, includendo rischi potenzialmente connessi anche all’ambito ESG.
A livello europeo, le più recenti direttive – dalla Direttiva 2014/95/UE (“Non-Financial Reporting Directive” – NFRD), alla Direttiva 2022/2464/UE (“Corporate Sustainability Reporting Directive” – CSRD), alla Direttiva (UE) 2024/1760 (“Corporate Sustainability Due Diligence Directive” – CS3D), fino alla Direttiva (UE) 2024/825 (“Direttiva Empowering”) e alla proposta di Direttiva sulle “Green Claims” – hanno introdotto obblighi sempre più stringenti in materia di trasparenza, due diligence lungo la catena di fornitura e rendicontazione sui temi ESG[1].
2. Analisi dei rischi comuni tra Modello 231 e principi ESG
L’analisi comparata tra i due ambiti in oggetto evidenzia una significativa area di sovrapposizione tra i rischi sanzionatori disciplinati dal D.Lgs. 231/2001 e i fattori ESG: si pensi, ad esempio, ai reati ambientali, agli infortuni sul lavoro, alla corruzione o al riciclaggio. Si può, quindi, astrattamente prospettare un’integrazione tra le procedure e i sistemi di controllo previsti dal Modello 231 con quelli adottati per la gestione dei rischi ESG, così da gestire insieme i rischi comuni (come ambiente, sicurezza e anticorruzione), essere compliant alle normative di riferimento e ottimizzare i processi.
Ambiente (E)
Il D. Lgs. 121/2011, in attuazione della Direttiva 2008/99/CE, ha determinato l’inclusione dei reati ambientali nel catalogo dei reati-presupposto del D.Lgs. 231/2001, entro l’art. 25-undecies, modificato, da ultimo, dal D.L. 116/2025, recante “Disposizioni urgenti per il contrasto alle attività illecite in materia di rifiuti, per la bonifica dell’area denominata Terra dei fuochi, nonché in materia di assistenza alla popolazione colpita da eventi calamitosi”, mediante l’introduzione, inter alia, della fattispecie di combustione illecita di rifiuti ex art. 256-bis, D.Lgs. n. 152/2006
L’introduzione dei reati ambientali nel catalogo dei reati-presupposto ex D. Lgs. 231/2001 ha rappresentato un passaggio fondamentale nell’evoluzione della responsabilità amministrativa degli enti, sulla scorta del principio per cui la tutela dell’ambiente non può più essere affidata unicamente alla responsabilità penale individuale, ma deve investire anche le persone giuridiche, che, attraverso le proprie scelte organizzative e produttive, incidono in maniera significativa sull’ecosistema.
Se si guarda al contesto internazionale e all’evoluzione dei principi ESG, emerge chiaramente una consonanza di fondo: l’elemento “E” (Environmental) richiama l’esigenza di minimizzare l’impatto ambientale delle attività economiche, promuovendo la transizione ecologica, l’efficienza energetica, la riduzione delle emissioni e l’uso sostenibile delle risorse naturali.
Vi è dunque una chiara correlazione: le fattispecie ambientali previste nel catalogo dei reati-presupposto coincidono con alcune delle aree di maggior rischio ESG – quali la gestione illecita dei rifiuti, le emissioni inquinanti, la protezione della biodiversità e la salvaguardia degli habitat naturali.
Sociale (S)
La circostanza per cui le medesime aree di rischio sono state oggetto di intervento tanto ai fini del D. Lgs. 231/2001 quanto ai fini delle normative e best practice in materia ESG si apprezza anche rispetto alla componente Sociale.
L’art. 25-septies del Decreto, infatti, annovera tra i reati fonte di responsabilità amministrativa dell’ente, a titolo esemplificativo, l’omicidio colposo e le lesioni colpose gravi o gravissime commessi con violazione delle norme antinfortunistiche e sulla tutela dell’igiene e della salute nei luoghi di lavoro, nonché l’intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro.
L’inclusione di tali fattispecie nel catalogo dei reati-presupposto, oltre a veicolare il principio di responsabilizzazione dell’impresa nella prevenzione dei rischi per la vita e l’integrità dei lavoratori, supera l’obsoleto paradigma della sola responsabilità individuale del datore di lavoro o del dirigente preposto e pone al centro della struttura aziendale il lavoratore e la tutela dei propri diritti, oggi oggetto dei più recenti casi di cronaca[2].
Dal punto di vista dei principi ESG, la “S” richiama proprio la centralità della dimensione sociale dell’impresa, che si esplica nella garanzia di condizioni di lavoro sicure, eque e rispettose della dignità dei lavoratori. La tutela della salute e della sicurezza non si riduce a mero obbligo giuridico, ma costituisce oggetto di crescente attenzione da parte di investitori, Autorità Giudiziarie e di Vigilanza, nazionali e sovranazionali, e stakeholder.
Governance (G)
Da ultimo, completando la disamina delle tre direttrici dell’ESG, la convergenza tra i principi ispiratori dei due sistemi si apprezza, seppure in maniera meno evidente, anche rispetto al segmento ultimo del trinomio in parola, ossia la Governance.
In proposito, nel catalogo dei reati-presupposto assumono particolare rilievo, quale pietra angolare, i reati di market abuse, i reati societari – con particolare riguardo alle false comunicazioni sociali – i reati associativi e transnazionali, nonché i reati connessi all’erogazione di finanziamenti pubblici e le varie forme di corruzione e i rapporti con le Autorità di Vigilanza.
Il tema ESG si correla anche a quelli che la dottrina individua come “reati economici informativi”, vale a dire quelle fattispecie in cui il pregiudizio agli interessi economici altrui deriva da una deliberata manipolazione ovvero dall’omissione di informazioni dovute in forza di legge o di buona fede contrattuale.
Le informazioni ESG sono, infatti, ormai parte integrante della comunicazione societaria e della rendicontazione obbligatoria. Se queste informazioni sono false, ingannevoli o omesse, possono integrare reati già previsti dall’ordinamento (come false comunicazioni sociali, truffa, ostacolo alla vigilanza, ecc.). A titolo esemplificativo si può ipotizzare l’integrazione di una condotta di greenwashing, ovverosia la pratica con la quale le aziende cercano di attirare il consumatore, mediante un’immagine che simula una sostenibilità ambientale dei propri processi produttivi o dei propri prodotti: se una società utilizzasse in documenti ufficiali, bilanci, comunicati o nelle relazioni con le Autorità, tali informazioni ambientali false o ingannevoli, potrebbero essere integrati reati che ricadono nel perimetro del D.Lgs. 231/2001, come le false comunicazioni sociali (artt. 2621 c.c. e ss.).
I presidi ESG sono stati interessati da interventi normativi in un’ottica di rendicontazione di sostenibilità trasparente.
In proposito, con l’entrata in vigore della CSRD, sono stati rafforzati gli obblighi di trasparenza già previsti dalla NFRD e, al tempo stesso, è stato ampliato il perimetro dei soggetti coinvolti. Le nuove regole prevedono che le informazioni sulla sostenibilità siano inserite direttamente nella relazione sulla gestione, di cui all’art. 2428 c.c., e non più in una relazione separata come avveniva in precedenza. Questa scelta mira a favorire una maggiore integrazione e accessibilità delle informazioni, oltre a rafforzare la responsabilità degli amministratori, equiparando di fatto la rendicontazione di sostenibilità a quella finanziaria.
In conclusione, il sistema 231 e i principi ESG si uniscono in un binomio che si sta rivelando sempre più inscindibile: l’integrazione tra Modello 231 e principi ESG consente alle imprese di adottare un sistema di controllo più completo, in quanto il Modello 231 offre strumenti per la prevenzione dei reati, mentre i criteri ESG guidano l’azienda verso una gestione responsabile e sostenibile delle proprie attività.
3. Verso un modello organizzativo integrato
Integrare i principi ESG nel Modello 231 rappresenta una scelta strategica, poiché consente di gestire anche quegli aspetti di sostenibilità che non sono ancora regolati da norme cogenti, e di accompagnare l’evoluzione normativa verso una sempre maggiore convergenza tra compliance 231 e regolamentazione ESG.
Alla luce delle considerazioni sin qui esposte, appare opportuno formulare alcune riflessioni conclusive circa la potenzialità e, al contempo, la necessità di un sistema integrato di compliance 231-ESG.
Nella cornice delineata – caratterizzata dalla crescente diffusione delle strategie di sostenibilità e dalla conseguente esigenza di adottare strumenti di governance idonei a garantire una gestione responsabile dei rischi ESG – il Modello organizzativo ex D.Lgs. 231/2001, unitamente ai propri elementi complementari, come il Codice Etico, si configura quale strumento privilegiato per veicolare il processo di integrazione tra compliance e sostenibilità.
Pertanto, gli elementi costitutivi del sistema 231, funzionali e prodromici all’adozione del Modello Organizzativo, dovrebbero e potrebbero essere implementati perseguendo una duplice finalità: da un lato, prevenire i rischi sanzionatori derivanti dalla responsabilità amministrativa dell’ente; dall’altro, concorrere al conseguimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile cui deve essere orientata l’attività d’impresa.
In primo luogo, l’adozione di un Codice Etico, tradizionalmente inteso quale elemento complementare al Modello 231, assume una rilevanza strategica quando venga integrato con i principi ESG. Configurandosi quale documento di indirizzo valoriale, nonché quale enunciazione dei principi su cui improntare l’attività all’interno e all’esterno dell’ente, il Codice Etico consente l’integrazione del Modello 231 con le istanze, sempre più cogenti, di sostenibilità ambientale, sociale e di governance, assicurando una cornice unitaria entro cui collocare tanto gli obblighi normativi previsti dal D.Lgs. 231/2001, quanto gli impegni derivanti dalle politiche ESG.
Inoltre, al fine di pervenire alla realizzazione di un sistema integrato e sinergico, l’attività di risk assessment, prodromica all’adozione del Modello 231, dovrà essere orientata non soltanto alla rilevazione e alla valutazione dei rischi di commissione dei reati-presupposto ai sensi del D.Lgs. 231/2001, ma altresì estendersi all’analisi dei rischi ESG. Tra questi ultimi rientrano, a titolo meramente esemplificativo, i rischi connessi al cambiamento climatico, alla violazione dei diritti umani fondamentali, nonché quelli relativi alla mancata osservanza dei principi di equità, trasparenza e inclusione.
Parimenti, i protocolli e le procedure interne dovranno essere concepiti e implementati secondo un approccio forward looking, coniugando i rischi in ambito 231 a quelli in materia ESG, in un’ottica di miglioramento continuo dei sistemi di controllo e di governo societario.
L’elaborazione di protocolli operativi e di procedure conformi a tale impostazione implica, dunque, l’inclusione dei fattori ESG tra i parametri valutativi e gestionali, in modo da assicurare un allineamento sostanziale tra i principi di compliance normativa e gli obiettivi strategici di sostenibilità.
In questa prospettiva, i principi ispiratori del D.Lgs. 231/2001 – prevenzione, responsabilizzazione degli enti collettivi, rafforzamento dei controlli – trovano naturale completamento nei principi ESG: l’impresa, oltre a prevenire la commissione di reati-presupposto ed evitare le gravi sanzioni conseguenti, si posiziona come attore responsabile, impegnato a rispettare gli obblighi normativi di sostenibilità, previsti a livello nazionale e sovranazionale.
[1] La CSRD, per esempio, ha rafforzato il principio di doppia materialità, imponendo alle aziende di valutare non solo l’impatto delle proprie attività sull’ambiente e sulla società, ma anche come i fattori ESG possano influire sulle proprie performance e sulla resilienza aziendale.
[2] In particolare, recenti decisioni del Tribunale di Milano hanno sottolineato la responsabilità di alcune società, operanti nel settore della moda, nella gestione della propria supply chain, mettendo in evidenza come la condotta di alcuni operatori, pur non sempre messa in atto consapevolmente, possa integrare una “condotta agevolatrice” di illeciti legati allo sfruttamento del lavoro. Tali violazioni, in particolare quelle previste dall’art. 603-bis c.p. (Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro), hanno portato alla misura dell’amministrazione giudiziaria. In tali circostanze, infatti, le aziende sono state ritenute responsabili di aver, seppur indirettamente, contribuito a favorire illeciti legati al caporalato attraverso la scelta di fornitori che adottano pratiche di sfruttamento. La responsabilità per questi illeciti è stata, quindi, estesa anche alle capogruppo, ove sussistano i presupposti di legge. L’applicazione della misura dell’amministrazione giudiziaria, ai sensi dell’art. 34 del D. Lgs. 159/2011, ha evidenziato l’importanza per le aziende di monitorare con attenzione la propria supply chain e le pratiche dei fornitori e subappaltatori, prevenendo così potenziali violazioni della legge e conseguenti danni reputazionali e sanzioni significative.


