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Articoli

Libertà d’impresa, autonomia privata e nuove direttrici per l’interprete

18 Settembre 2023

Enrico Ginevra, Professore Ordinario di Diritto Commerciale, Università di Bergamo


[*] SOMMARIO: Il saggio si interroga circa le ragioni della moderna evoluzione dell’autonomia privata, puntando l’attenzione sull’autoregolamento e i relativi rapporti con l’autonomia contrattuale. Con la strategia di politica economica adottata dal legislatore italiano in coerenza con la spinta e gli obblighi europei e il conseguente accesso del privato a più ampi settori di produzione di utilità si è realizzato un implicito conferimento di una nuova legittimazione all’autoregolamento privato, nella direzione di estenderne l’ambito di rilevanza ai rapporti con i terzi. In tale contesto, va criticata la riconduzione delle nuove regole di trasparenza e correttezza alla solidarietà, trattandosi piuttosto di rafforzare la solidità del mercato e di intervenire sulla sua efficienza, curando pure, da ultimo, la coerenza dell’attività al valore della sostenibilità. Nel nuovo quadro programmatico sopra descritto il privato non è più visto soltanto come soggetto passivo del comando di legge ma è sollecitato a costruire valore. E tipica forma espressiva della manifestazione di una libertà privata così connotata diviene l’autoregolamento privato, che trova il proprio dato essenziale nel disciplinare la realizzazione di un fatto utile sul piano economico-sociale. Così, il contratto in sé sembra perdere a sua volta il ruolo di categoria di centrale riferimento dell’interpretazione, nei riguardi delle norme e figure giuridiche dell’azione privata in ambito economico, e all’interprete spetta di identificare le conseguenze che il diverso inquadramento in questione determina.

ABSTRACT: The essay questions the reasons for the modern evolution of private autonomy, focusing attention on the tool of the private regulation and its relationships with contractual autonomy. With the economic policy strategy adopted by the Italian legislator in coherence with the European Law and the consequent private access to broader utility production sectors, an implicit conferral of a new legitimation to private self-regulation has been achieved, in the direction to extend its scope of relevance to relationships with third parties. In this context, the common explaination of the new rules of transparency and correctness in the sense of solidarity must be criticized, since it is rather a question of strengthening the solidity of the market and intervening on its efficiency, also taking care, ultimately, of the coherence of the private production with the value of sustainability. In the new programmatic framework described above the private individual is no longer seen by the law only as a passive subject but is encouraged to build value. And a typical expressive form of the manifestation of a private freedom characterized in this way becomes private self-regulation, which finds its essential data in regulating the realization of a useful fact on an economic-social level. Thus, the contract itself seems to in turn lose its role as a central reference category for interpretation, with regard to the rules and legal figures of private action in the economic field, and the interpreter is responsible for identifying the consequences that the different framework in question determines.


1. L’evoluzione dell’autonomia e le domande per l’interprete

L’osservazione dei connotati che viene assumendo l’autonomia privata e la relativa rilevanza, poco allineati ai contenuti tradizionalmente classificati dalla dogmatica tradizionale[1], spinge a formulare l’interrogativo circa le ragioni di una tale, così significativa evoluzione. Per chi ritiene che la teoria generale di diritto privato abbia possa fornire ancora un utile supporto nell’interpretazione del diritto positivo, si tratta di comprendere come spiegare tali deviazioni rispetto alle categorie tradizionali e se da esse possa indursi una nuova serie di principi da adottare in sede applicativa, in aggiunta o sostituzione con quelli più consueti al giusprivatista.

In tale prospettiva, in termini se si vuole più concreti si tratta di verificare se possa formularsi l’ipotesi che l’autoregolamento privato, in coerenza con l’evoluzione in discorso, si stia emancipando dalla sua tradizionale forma di derivazione ed espressione, ossia la fonte contrattuale: insomma, se quella di cui stiamo parlando sia, nella sua sostanza ultima, autonomia contrattuale – come generalmente si continua a ritenere[2] – o non debba diversamente qualificarsi, e quali ne siano eventualmente le conseguenze in termini di principi generali e regole puntuali applicabili

A questo proposito, va allora notato che il fenomeno dell’espansione del raggio di intervento dell’autonomia nella forma dell’autoregolamento, con la copertura di ambiti non tradizionali alla sua recente storia, nonché del mutamento dei suoi tradizionali caratteri, è in realtà tutt’altro che sorprendente. E’ da ritenere, infatti, che una tale vicenda sia: da un lato, collegata a un’espansione degli spazi tematici assegnati all’iniziativa privata, con la connessa maggiore considerazione della rilevanza economico-sociale delle manifestazioni della libertà d’impresa, da tempo preannunciata dalla più autorevole dottrina[3], in particolare nel momento in cui si è dato atto di un avvenuto passaggio di fase nell’attuazione legislativa dell’impianto costituzionale in ordine ai rapporti economici[4]; dall’altro, collocabile nel contesto di un più generale programma di sviluppo, sempre formulato all’interno della Carta fondamentale, del rapporto individuo-società[5].

È quindi approfondendo tali direttrici che pare potersi provare a fornire una prima risposta, per necessità incompleta o approssimativa, alle domande sopra poste.

2.1. Il mercato come istituzione di utilità sociale e la rilevanza esterna dell’autoregolamento

Sul piano dei rapporti economici è ben noto – ed è stato appunto adeguatamente sottolineato – che a partire dagli anni ’90 si è registrato un significativo mutamento nella strategia di politica economica adottata nel nostro ordinamento in coerenza con la spinta e gli obblighi europei, realizzandosi un arretramento dello Stato dall’intervento diretto nella produzione: con la parallela apertura all’autonomia, non solo nel senso dell’avvenuta privatizzazione delle iniziative in precedenza di titolarità pubblica, ma soprattutto nella direzione del “primato del mercato”, con la connessa esigenza di regolamentazione[6].

Ciò ha per vero comportato, in Italia ma in attuazione di direttive europee, secondo quanto sempre autorevolmente ricordato, la previsione di nuove norme “ordinate a tutela della concorrenza e a garanzia della correttezza e della trasparenza delle operazioni commerciali, cioè delle condizioni che qualificano il mercato come istituzione di utilità sociale”[7]. In altre parole, affidare al mercato il compito di realizzare, in via pressoché esclusiva, interessi economici comunque riferibili alla collettività ha significato, da un lato, l’accesso del privato a settori di produzione di utilità prima poco o nulla frequentati, dall’altro, una maggiore attenzione ordinamentale nei confronti della effettiva compatibilità (o non incoerenza) delle regole private di produzione nei riguardi di un processo di realizzazione a un  benessere sociale, e dunque un mutamento di logica rispetto a un passato invece caratterizzato da un più comprensibile approccio, da parte dello stesso legislatore oltre che degli interpreti, d’impronta marcatamente liberista[8].

Si tratta, è vero, di evidenziazione non nuova. Tuttavia, è mancata una soffermata meditazione sul riflesso che la riferita vicenda ha determinato e determina nei riguardi dell’autonomia, vista dal punto di vista dei suoi elementi identificativi, ossia della fattispecie oggetto di tale osservazione. Invero, nonostante il processo abbia comportato l’introduzione o l’esplicitazione di apparenti maggiori vincoli all’autonomia rispetto al passato, a ben vedere questa, nel suo collegamento con la conformazione della libertà d’impresa, ha in realtà conosciuto “nuova vita”. In modo maggiore rispetto a quanto in precedenza accaduto, la programmazione del privato è stata infatti, parallelamente a una progressiva responsabilizzazione della libertà d’impresa, sollecitata a incidere oltre la sfera individuale del relativo autore, peraltro subordinando o vincolando il soddisfacimento delle sue aspirazioni alla realizzazione di bisogni socialmente condivisi.

Sulla scorta di tale osservazione, può già rinvenirsi nel mutato atteggiamento legislativo in discorso l’implicito conferimento di una nuova legittimazione all’autoregolamento privato: in particolare nella direzione di estenderne l’ambito di rilevanza, peraltro in piena coerenza col rafforzamento dell’autonomia derivante dalle libertà fondamentali stabilite all’interno dell’UE[9], a un contesto di relazioni che a esso è invece precluso là dove ci si muova nella tradizionale orbita contrattuale, ossia quello del rapporto con i terzi.

2.2. Evoluzione economica e riflessi normativi

Si può tentare di svolgere con un maggior grado di dettaglio il ragionamento, collocandolo nel quadro dell’evoluzione del contesto economico, cui abbiamo assistito negli ultimi decenni. Il tutto, muovendo nel presupposto della piena condivisione dell’insegnamento Ascarelliano secondo cui le forme dell’iniziativa privata partecipano alla struttura istituzionale con cui il legislatore, in coerenza con le scelte di politica economica operate, indirettamente interviene nei rapporti commerciali e assolve così al suo compito di curare lo sviluppo economico del Paese[10].

La parabola di tale vicenda credo possa tracciarsi – sebbene in termini largamente approssimativi – secondo lo schema che segue. La piena apertura all’ottica concorrenziale, decisa negli anni ’90 in obbedienza agli obblighi comunitari e inaugurata con le note privatizzazioni, ha da subito messo in crisi – come si diceva – il precedente impianto liberista, occasionando da subito una disciplina che ha innervato la normativa sui contratti in generale, con le nuove disposizioni rivolte alla tutela del consumatore e guidate dai principi di trasparenza e correttezza.

Sebbene l’intervento sia stato spiegato, da studiosi e giudici, unicamente nel prisma di una speciale emersione del principio di solidarietà[11], una tale lettura sembra in realtà suscettibile di verifica, in quanto potenzialmente riduttiva. Infatti, va evidenziato che nel momento in cui all’impresa privata si viene ad affidare in via esclusiva il compito di muoversi in modo compatibile con la realizzazione di una diffusa utilità sociale, l’ordinamento non può evitare di fissare presidi affinché, oltre a non averne pregiudizio il singolo, la generale fiducia nella gestione imprenditoriale delle risorse affidate non venga tradita, poiché a ciò seguirebbe una depressione della capacità produttiva e una deviazione delle corrette dinamiche allocative. Insomma, l’attenzione nei riguardi della tutela del contraente è, se guarda a tale vicenda dal punto di vista della rilevanza economica generale dell’attività d’impresa, strumento di rafforzamento del mercato e dunque di crescita del risultato a esso delegato: ciò che con la solidarietà con evidenza sembra avere poco a che fare.

Rileva del resto notare come l’integrazione normativa non si sia limitata alla formulazione di una normativa incidente, in vari settori espressivi di interessi sociali, su alcune regole generali dei contratti d’impresa. La forte promozione di uno sviluppo del mercato finanziario e la connessa sollecitazione agli investimenti, in considerazione del coinvolgimento di una serie di valori sociali (soprattutto il risparmio, ma non solo) ha nel tempo sollecitato una sempre più pervasiva integrazione della disciplina, oltre che dello svolgimento dell’attività d’impresa nei rapporti con i terzi, delle regole interne all’impresa incidenti nei riguardi delle modalità di esercizio dell’iniziativa. Ciò, con un processo – largamente percepito – che si è svolto parallelamente a ulteriori evoluzioni del contesto di mercato e che ha ogni volta interessato inizialmente l’ambito finanziario per poi estendersi all’intero settore commerciale. Qui non si è trattato solo di rafforzare la solidità del mercato garantendo a esso l’apporto dei consumatori: ma di intervenire sulla sua efficienza, attraverso un attento controllo e indirizzo dei meccanismi organizzativi della produzione e della relazione tra unità produttive.

La parabola normativa in commento non può essere qui adeguatamente tracciata. Ci si limiterà qui pertanto a mettere in risalto gli ultimi momenti del processo in osservazione, ricordando quanto già osservato altrove[12], e cioè che la più moderna spinta competitiva innescata dalla c.d. globalizzazione, di cui è come noto figlia la nostra riforma del diritto societario di inizio millennio, nel definire un’ampia detipizzazione delle forme di investimento[13] ha generato al contempo l’esigenza di fissare nuovi vincoli nei riguardi dell’esercizio dell’attività d’impresa. In particolare, l’effettiva tutela degli interessi sociali coinvolti – quali ingranaggi essenziali – nel gioco concorrenziale, ha spinto il legislatore europeo e italiano ad anticiparne la rilevanza sul piano dell’organizzazione d’impresa: come avvenuto nelle recenti normative concernenti la c.d. product governance finanziaria e gli adeguati assetti societari, da ultimo pure divenuti istituto fondamentale della disciplina della crisi.

Di più. La sempre maggiore consapevolezza che l’impatto delle regole di produzione, e non solo dei singoli comportamenti finali, nei riguardi dell’utilità sociale è in grado di generare riflessi nei confronti delle stesse basi della convivenza civile e del godimento dei diritti individuali, sta generando una nuova spinta verso un più intenso intervento diretto o indiretto nei riguardi dell’organizzazione d’impresa, per stimolare la coerenza dell’attività al valore della sostenibilità, divenuto trend culturale quasi assorbente rispetto a ogni altra istanza.

Il risultato di un siffatto processo, per quanto qui interessa, è che i contratti dell’impresa sempre più divengono fatti la cui piena rilevanza si legittima e si coglie solo nel contesto dell’organizzazione d’impresa e dunque quali strumenti con cui i terzi aderiscono a quella organizzazione, contribuendo alla realizzazione di un preciso evento produttivo[14]: il quale scorre lungo binari di “compatibilità sociale” tracciati da un regolamento privato predefinito a monte, che non può non essere oggetto di attenzione normativa.

3. Autoregolamento e pluralismo sociale

Per tentare di comprendere meglio i riflessi in termini “microecoeconomici” della vicenda appena descritta, e dunque avendo riguardo alle forme dell’azione privata, è utile volgere lo sguardo sul secondo profilo prima menzionato, quello della lettura della stessa in relazione al programma costituzionale (e unionista) di sviluppo del rapporto individuo-società. Si tratta, di nuovo, di operare al riguardo pochi cenni, data l’impossibilità di un reale approfondimento in questa sede dei temi in rilievo.

L’autonomia contrattuale è espressione, in modo incontestabile, di libertà individuale[15]. Col contratto il privato assegna una regola alla propria azione, nell’ottica del soddisfacimento di un interesse che egli nutre come individuo e rispetto al quale non può che essere sovrano nei limiti in cui si muova in un ambito proprio. Il vincolo contrattuale è quindi per definizione vincolo tra più sfere individuali, funzionale all’espressione della rispettiva libertà e nel soddisfacimento di bisogni strettamente legati alla collaborazione delle parti del negozio. La libertà individuale è, tuttavia, in forza di quanto detto, non solo fonte ma allo stesso tempo confine invalicabile dell’autonomia contrattuale. A questa, infatti, altra legittimazione nel dettato costituzionale non si rinviene, falliti i tentativi di rinvenire nella Carta un principio a sé di libera autoregolamentazione[16].

Ciò premesso, secondo quanto chi scrive ha già avuto modo di notare altrove[17] sulla scorta della considerazione degli studi sul pluralismo sociale[18], per fondare invece la legittimazione alla libera assunzione di una regola interindividuale, che rilevi quindi quale vincolo di una comunità, l’azione privata trova un punto d’appoggio nel disposto dell’art. 2 Cost.: precisamente, nella parte in cui consente al privato di darsi regole non “come singolo” ma come componente delle “formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità”. Il che è come dire, con evidenza, che lo svolgimento della personalità dell’uomo – nel nostro territorio nazionale – non passa necessariamente dalla (limitata prospettiva della) libertà individuale ma può servirsi della tecnica dell’assunzione di vincoli nel perseguimento di interessi interindividuali. In buona sostanza, pertanto, si disegna per tale via una categoria di autonomia privata in cui la realizzazione dell’individuo trascorre non unicamente dal perseguimento di suoi esclusivi interessi ma dall’assoggettamento volontario del medesimo alle esigenze condivise da una comunità sociale e la conseguente condivisione, oltre che di esse, dell’attività strumentale al loro soddisfacimento.

In questo diverso ambiente, insomma, libertà non è puro sviluppo di un ego, bensì diviene in effetti partecipazione. E si tratta, va evidenziato, di una prospettiva alla cui realizzazione il privato non solo semplicemente procede in modo del tutto spontaneo ma può essere favorito nel farlo dall’ordinamento, nel perseguimento dell’ambizioso programma egualitario dell’art. 3, comma 2. Ancora attingendo, pertanto, alle indicazioni della migliore letteratura costituzionale, emerge che la strategia di “realizzazione privatistica” dell’utilità sociale si compie attraverso la sollecitazione dello stesso privato a rimuovere gli ostacoli alla concreta realizzazione dell’eguaglianza[19]: e una siffatta rimozione, ormai risulterà chiaro, piuttosto che doversi spiegare nella prospettiva individualista di un paternalistico richiamo al dovere di solidarietà[20], non può che significare auto-adozione di regole socialmente utili, ossia sollecitazione dei privati al ricorso a un autoregolamento che, in sede di programmazione come di esercizio dell’iniziativa privata, per il tramite di regole quali trasparenza e correttezza, si riveli illuminato.

4. Dalla libertà individuale alla libertà sociale; dal contratto al fatto organizzato

Se si segue la traiettoria indicata dai principi evidenziati, meglio può chiarirsi l’intervenuto mutamento nel rapporto privato-Stato sul piano delle regole programmatiche dell’agire individuale; e dovrà con ciò prendersi atto delle conseguenze di tale processo nei riguardi del ruolo dell’autonomia nell’ordinamento.

Nella trasposizione sul fronte della struttura comportamentale del privato della parabola economico-giuridica prima (benché forse troppo velocemente) riassunta, la giustificazione dei nuovi vincoli imposti dalla legge alla governance finanziaria e societaria la si rinviene nel citato art. 2 Cost., che astrattamente consente al privato di godere di maggiori spazi di attrazione di beni cui è collegato un valore sociale quale il risparmio, al prezzo di autolimitarsi nella definizione delle proprie regole di azione, nel rispetto del suddetto valore sociale così intercettato. Su tali basi, l’ulteriore più recente vincolo nella definizione nell’impresa di adeguate regole di combinazione di risorse, ulteriormente può ricollegarsi a un’ancora più invasiva istanza di sostenibilità, con una sollecitazione del privato a consentire un’effettiva virtuosa partecipazione al mercato dei soggetti a vario titolo coinvolti nell’impresa.

In una tale prospettiva, ove condivisa, come negare di essere in presenza di una radicale evoluzione? Nel nuovo quadro programmatico sopra descritto il privato non è più visto soltanto come soggetto passivo del comando di legge, cui riconoscere (artt. 2; 41, comma 1; 42, comma 2, Cost.) posizione sovrana (art. 1372 c.c.), sebbene in un ambito rigorosamente delimitato dai confini della sfera individuale e nei contenuti vincolato da alcune scelte imperative[21]. Piuttosto, egli è sollecitato a costruire valore, col realizzare fatti suscettibili di generare utilità sociale (artt. 2; 41, comma 2; 47, comma 2, Cost.), e in quanto tali rilevanti ed efficaci, pure promuovendo il concorso virtuoso delle energie derivanti dall’altrui partecipazione alla produzione sociale: concorso il quale è tanto più valorizzato quanto più sia adeguatamente indirizzato dall’ordinamento (art. 3, comma 2), attraverso norme di più moderna fattura[22] che inducano una diffusa conoscenza (grazie alla relativa trasparenza) delle condizioni  della partecipazione all’attività ed evitino (per il tramite dell’imposizione di obblighi di correttezza) situazioni di potere ingiustificate dal concreto ruolo giocato nel perseguimento del dato obiettivo utile.

Tuttavia, ove si convenga con un tale schema, pure se ne devono trarre le conseguenti conclusioni. Tipica forma espressiva della manifestazione di una libertà privata così connotata diviene non già la posizione di un interesse patrimoniale individuale, accompagnata dalla definizione del percorso inteso al suo soddisfacimento, bensì appunto la realizzazione, programmata all’interno di un contesto socialmente riconoscibile, di un fatto utile sul piano economico-sociale. E compito principale dell’ordinamento in tale prospettiva non è limitarsi a dare avallo – o addirittura garantire solo l’enforcement [23]– alla regola privata (ossia permettere che essa abbia “forza di legge” tra le sfere individuali direttamente coinvolte), bensì identificare un tale fatto e sorvegliarne i modi privati di realizzazione compatibili con la perseguita utilità sociale. Invero, è l’effettività dell’azione utilmente indirizzata che in tal modo viene a guidare la rilevanza giuridica – secondo, peraltro, una dinamica tipica degli atti reali[24] – e non più il programma causale individuale. Cosicché, nel permettere a tale effettività di realizzarsi, regola privata e di legge finiscono – come è stato bene evidenziato[25] – col collaborare, in un rapporto in cui spesso peraltro – in un contesto già in generale caratterizzato da indubbie deviazioni rispetto al tradizionale sistema delle fonti[26] – la legge non si contrappone autoritativamente alla libertà ma la segue e l’affianca.

È del tutto coerente con un tale quadro, e non mero frutto dell’osservazione di uno schema di agire concreto, la circostanza, da molto tempo messa in risalto in dottrina e già ricordata[27], che venga meno la necessità che il contenuto del regolamento raccolga il consenso delle parti coinvolte nella data vicenda reale. Ed è dunque spiegabile la parallela previsione relativa ai contratti “per adesione”, ormai a tutti più che familiare, della sostituzione del consenso del contenuto contrattuale con la sua mera conoscenza o conoscibilità (art. 1341 c.c.). Si rifletta: se l’effetto giuridico soggettivo segue, nel contesto in esame, il fatto oggettivo, distribuendo vantaggi e responsabilità tra le persone in ragione della rispettiva partecipazione al processo produttivo (e non in stretta derivazione dall’attuazione di una causa negoziale), viene a mancare il razionale della derivazione dell’autoregolamento dall’accordo. Il contratto, in una simile prospettiva, secondo quanto già prima si avvertiva (v. supra, n. 3.2.) rileva unicamente come (necessario) presupposto per il coinvolgimento di una data sfera patrimoniale individuale: ossia ai fini dell’imputazione del comportamento personale al fatto socialmente utile e/o della eventuale destinazione di una risorsa privata allo scopo “comune” (ossia della data comunità).

Va notato poi che un tale schema, per quanto sia particolarmente congeniale alla rilevanza economico-sociale della fattispecie dell’impresa commerciale, non pare esclusivo della stessa. Come prima rilevato, infatti, a fondare il riconoscimento di un diverso sistema effettuale all’autoregolamento è il collegamento dell’interesse personale all’utilità sociale, e dunque la corrispondente qualificazione della concreta manifestazione di libertà in cui il dato regolamento privato consiste[28]. Pertanto, la contrapposizione che deve istituirsi non ritengo essere – come pure si è sostenuto[29] – tra autonomia privata e libertà d’impresa bensì tra libertà individuale e libertà sociale, cui corrisponde (ma non è esaurita da) quella, al centro degli studi della dottrina societaria[30], tra autonomia contrattuale e autonomia organizzativa.

Il che non significa che il mutamento dello schema normativo non abbia pure logica spiegazione sul piano strettamente economico. Anzi, a tale riguardo, la minore rilevanza che l’ordinamento assegna alla volontà del singolo nel contesto regolamentare pare collegabile al passaggio da una prospettiva in cui l’ “utilità oggettiva” della collaborazione individuale è essenzialmente affidata al realizzarsi di uno scambio, a un’altra in cui, poiché il risultato perseguito è invece una combinazione produttiva, l’efficienza del relativo processo è tipicamente affidata all’instaurarsi di una dinamica gerarchica, la quale di per sé presuppone un’elaborazione centralizzata della regola attuativa, appunto seguita da una adesione periferica per lo più acritica e non dialettica[31].

5. Le prospettive per l’interprete e i riflessi nella disciplina della libertà d’impresa

È evidente, tutto ciò detto, che, se le nuove manifestazioni dell’autonomia non sono collegabili all’autonomia contrattuale, il contratto in sé sembra perdere a sua volta – benché altri sono certo gli esiti dell’analisi civilistica[32] – quel ruolo di categoria di centrale – se non esclusivo – riferimento dell’interpretazione, nei riguardi delle norme e figure giuridiche dell’azione privata in ambito economico.

Quanto meno, mi pare, ciò avviene nel settore del diritto commerciale, modernamente corrispondente al diritto della produzione d’impresa nel mercato. Infatti, da un lato, l’istituto in parola ha una collocazione del tutto periferica all’interno della più ampia programmazione del comportamento privato, che viene svolta dall’imprenditore quale “responsabile” della fattispecie d’impresa: sempre più considerata dalla norma positiva dall’angolo visuale del “programma di allocazione economica” socialmente rilevante e non da quello della vicenda individuale professionale o patrimoniale. Dall’altro lato, la finalità ultima del contratto nel contesto in parola consiste essenzialmente nel governare un’imputazione soggettiva a un più ampio fatto, la cui rilevanza è rispetto al primo, nel contesto socio-economico (e spazio-temporale) in cui agisce, immensamente maggiore. Sopravvive, certo, la funzione dell’istituto di definire le specifiche condizioni cui tale imputazione è sottoposta dal punto di vista degli interessi individuali delle parti contraenti: e si tratta di un ruolo che il contratto in effetti è suscettibile di svolgere egregiamente, imponendosi in tale prospettiva nella prassi internazionale[33], ma che non è in grado appunto di esaurire la rilevanza della vicenda complessiva a cui l’imputazione accede e che merita adeguata attenzione.

Tutto questo vale, naturalmente, ove si accetti a monte una conclusione che pare inevitabile: l’autoregolamento privato, oggi strumento invece forse dominante del traffico giuridico ove visto nella sua interezza, non è contratto; cosicché la disciplina del primo non può essere rinvenuta in quella del secondo. E, per la verità, se si ha riguardo alle classificazioni operate dalla dogmatica più raffinata[34], nemmeno di negozio dovrebbe discutersi, bensì di “atto reale” o “comportamento attuoso”, data la evidenziata riconduzione dell’efficacia giuridica all’oggettiva effettività e non al programma causale individuale. Ma se ciò è vero, tutte da identificare sono le conseguenze che il diverso inquadramento in questione è suscettibile di determinare nei riguardi delle forme di attuazione della descritta “libertà sociale”, a partire da quelle concernenti la libertà d’impresa. E si tratta, chiaramente, di uno sforzo ricostruttivo particolarmente impegnativo.

Nell’intento di volere selezionare alcuni dei principi che sembrano entrare in gioco nella prospettiva sopra delineata, proverei a iniziare a indicare i seguenti.

a) Si constata anzitutto un mutamento a livello di sistema di fonti, nel rapporto tra legge e autonomia.

Come prima accennato, con riguardo alla disciplina del fatto regolato (e non al titolo della sua rilevanza, che basandosi sulla realizzazione di un fatto socialmente rilevante riposa interamente sulla legge) la norma autoritativa si fa affiancare dall’atto privato, evidentemente riconoscendone la maggiore idoneità all’individuazione della regola organizzativa efficiente, in considerazione del relativo carattere tecnico e del suo legame con la concretezza dei fatti organizzati, colti nella loro intrinseca variabilità storica. Per la stessa ragione, il legislatore rinuncia a indicare i presidi socio-economici cui la singola organizzazione deve conformarsi, reputando più sensato arretrare di fronte a iniziative assunte in proposito da istituzioni private.

E’ quanto avviene ad es. con i cc.dd. codici di autodisciplina[35], in relazione ai quali, nella speciale prospettiva della determinazione di un regolamento adeguato in termini concorrenziali, il legislatore prende atto dell’impossibilità di addivenire a una predefinizione astratta dello stesso e si affida così alle best practices adottate nei mercati (imponendone indirettamente l’adozione, salvo il concreto disallineamento motivato e reso trasparente con la tecnica del comply or explain), le quali così finiscono con l’assumere una portata para-normativa, le cui conseguenze andrebbero verificate: ci si potrebbe ad es. interrogare circa l’applicabilità a tali codici delle regole in tema di interpretazione della legge (e non del contratto).

b) Non mi sembra poi peregrino prospettare che cessa di essere esclusivo criterio guida nel giudizio circa la riconoscibilità legale della regola privata, e dunque nella valutazione di legittimità/liceità/efficacia della stessa, quello della meritevolezza “soggettiva”, di cui all’art. 1322 c.c.

Invero, nella prospettiva interindividuale, il regolamento privato organizzativo su cui poggia l’impresa serve a un obiettivo che ha una necessaria caratterizzazione oggettiva, nella misura in cui si pretende che sia socialmente efficiente: nella particolare forma della esigenza di una sua compatibilità (= non contrasto) con una utilità per definizione diffusa, quale appunto quella sociale. Ne segue che la singola regola è apprezzabile e merita pieno riconoscimento – cioè quel riconoscimento dal quale dipendono gli effetti collegati alla fattispecie organizzata – unicamente nei limiti in cui superi il vaglio di non disfunzionalità/razionalità rispetto a quell’obiettivo stesso, il quale a sua volta nell’impresa si identifica nella produzione economica: come ulteriormente caratterizzata a seconda della forma organizzativa prescelta, la quale può chiamare in causa in vario modo coloro che vi partecipino.

Da tempo ho avuto modo di notare che è un tale criterio di razionalità/congruità a doversi porre specificamente alla base di una varia serie di disposizioni di diritto societario, contenenti un comando o un divieto di azione per gli amministratori nella loro veste di rappresentanti della s.p.a., di cui costituiscono esempio paradigmatico norme quali l’art. 2357-quater o l’art. 2361, co. 1, c.c.[36] In una tale ipotesi, il criterio di razionalità implica di doversi istituire un rapporto di coerenza tra l’atto compiuto nella “periferia” dell’organizzazione, il contratto o negozio dell’amministratore col terzo, e il regime organizzativo più generale dell’impresa societaria, fonte delle coordinate di base del rapporto innescato tra soci e creditori con la destinazione patrimoniale, avente la sua sede nello statuto. Ma penso che lo stesso principio si ponga sullo sfondo di norme più recenti sempre dettate avendo più specifico riguardo all’organizzazione dell’impresa societaria[37], quale il novellato art. 2086 c.c. Il che rafforzerebbe – per inciso – la proposta interpretativa secondo cui che all’obbligo degli assetti adeguati non si debba applicare la business judgement rule[38].

c) Nel dialogo, ancora, tra norma astratta e applicazione concreta, là dove la vigenza della regola formale possa essere filtrata dal gioco delle clausole generali, merita di essere rivisto, come già accennato, il ricorrente riferimento al principio di solidarietà, quale esclusivo fondamento di canoni aperti concretamente limitativi del pieno operare di posizioni di potere, nella direzione di un’invocazione, che sembrerebbe a volte più appropriata nell’ottica del (non contrasto con) l’utilità sociale, dell’idea di (rimozione degli ostacoli nei riguardi della) eguaglianza sostanziale. E, in effetti, ritenere che non abusare delle proprie situazioni di (pur legittimo) potere organizzativo sia espressione di civile solidarietà (serva cioè ad aiutare caritatevolmente chi si trovi in una posizione di debolezza) e non piuttosto di partecipazione a uno sviluppo sociale, non appare a chi scrive davvero illuminato.

d) Se si dovesse condividere, infine, l’idea della riferibilità della riconduzione dell’efficacia del fatto regolato – : l’attività di impresa, come concretamente conformata e liberamente esercitata – non all’atto privato bensì alla legge, assumerebbe particolare rilievo la prospettiva, particolarmente cara a chi scrive, della lettura della fattispecie dell’impresa organizzata come vicenda eminentemente fiduciaria, cui seguirebbe una più diretta e convinta qualificazione in tal senso della responsabilità degli organi di gestione e controllo dell’impresa stessa[39].

 

[*] Il testo riproduce, con alcune modifiche, il saggio omonimo pubblicato nel Liber amicorum per Aldo Dolmetta, Pacini, 2023.

[1] E’ una conclusione che è sembrato a chi scrive di potersi trarre sulla scorta degli interventi svolti nel seminario documentato dal volume Contenuto e limiti dell’autonomia privata in Germania e in Italia, a cura di F.Bordiga e H.Wais, Torino, 2021. Tra i vari profili, è emersa la constatazione di una crescita del ricorso all’autoregolamento, con la parallela compressione degli spazi di effettiva applicazione della disciplina di legge. Si registra altresì una modifica della conformazione interna dello strumento dell’autonomia, dato più il venir meno, in termini sostanziali, dell’accordo in ordine al regolamento del rapporto con una crisi del ruolo del consenso che riguarda in un certo senso pure il lato “forte” della relazione contrattuale. Su tali aspetti, v. tra il resto, all’interno del volume ora citato, i contributi di Ragno, Norme di applicazione necessaria come limite alla deroga pattizia della giurisdizione statale, 331 ss.; An.Dalmartello, Autonomia privata ed esecuzione forzata: i contratti sull’esecuzione forzata, 377 ss.; F.P.Patti, Significato e limiti dell’autonomia privata: lo sguardo di un giurista del passato, 1 ss.; F.Benatti, La funzione delle clausole generali nel diritto privato, 37 ss.; Ferrante, Il consenso “debole” dell’aderente nei contratti standard, 73 ss.

[2] V. al riguardo, ad es., gli esiti “conservativi” cui perviene l’indagine di G. Alpa, Le stagioni del contratto, Bologna, 2012.

[3] Mengoni, Autonomia privata e costituzione, in Banca, borsa tit. cred., 1997, I, 1

[4] V. Angelini, L’iniziativa economica privata, in Il diritto costituzionale alla prova della crisi economica, 115; Libonati, Ordine giuridico e legge economica del mercato, in Riv. Soc., 1998, 1549; Libertini, I fini sociali come limite eccezionale alla tutela della concorrenza, in Giur. cost., 2010, 3298.

[5] Come riferimento principale, al riguardo, nella letteratura costituzionalista, può assumersi l’opera di Luciani, di cui v. tra il resto, Economia nel diritto costituzionale, in Digesto. Disc. Pubb., Torino, 1990, V, 375; e Unità nazionale e struttura economica, in Dir. e soc., 2011, 634

[6] Cfr. sul punto l’autorevole ricostruzione di tale processo da parte di Mengoni (nt. 3), 2 ss.

[7] V. ancora Mengoni (nt. 3), 20.

[8] Sul mutamento di paradigma economico di base della produzione legislativa, cfr. ancora V. Angelini (nt. 4), 115; Oppo, L’iniziativa economica, in La costituzione economica a quarant’anni dall’approvazione della Carta fondamentale, Milano, 1990, 65.

[9] V. sul tema Navarretta, Libertà fondamentali dell’UE e rapporti tra privati: il bilanciamento di interessi e i rimedi civilistici, in Le “libertà fondamentali” dell’Unione Europea e il diritto privato, a cura di Mezzanotte, Roma, 2016, 41

[10] Ascarelli, Disciplina delle società per azioni e legge antimonopolistica, in Riv. trim. dir. Proc., 1955, 273 ss.

[11] V. F.P.Patti (nt. 1), 4 ss., pure già richiamando l’approccio Bettiano; sul deciso richiamo della solidarietà a proposito di buona fede e correttezza cfr. Dolmetta, Exceptio doli generalis, in Banca borsa tit. cred., 1998, I, 148 ss. Nega invece l’utilità del ricorso al principio di cui all’art. 2 in relazione ai contenuti di buona fede e correttezza Mengoni (nt. 3), 9.

[12] Cfr. Ginevra-Presciani, Il dovere di istituire assetti adeguati ex art. 2086 c.c., in Nuove leggi civ. comm., 2019, 1216 ss.

[13] Per una recente riflessione sulle conseguenze di tale processo in termini di estensione del potere di autonomia in ambito societario, anche in ottica comparata, v. Bordiga, Spunti in tema di autonomia statutaria nelle società per azioni, in Contenuto e limiti, cit., 275 ss.

[14] Per una prima evidenziazione di tale dinamica nel contesto dell’intermediazione finanziaria v. Ginevra, Il problema della responsabilità fiduciaria degli intermediari finanziari, in Riv. dir. comm., 2019, I, 569

[15] Ci si limita a rinviare, sul tema, a Mengoni (nt. 3), 19; e Palermo, Autonomia negoziale, Torino, 2011

[16] V. Mengoni (nt. 3), 2, il quale precisa che la Costituzione definisce solo una tutela indiretta rispetto alla “libertà di contratto”.

[17] In particolare in Identità e rilevanza della persona giuridica alla luce del d.lgs. n. 231/2001, in Riv. soc., 2020, 40

[18] L’autorevolissimo fondamentale riferimento in argomento è P. Rescigno, Dottrine ed esperienze del pluralismo, in Persona e comunità, II, Padova, 1988, 357

[19] Cfr. Luciani, Economia nel diritto costituzionale (nt. 5), 375.

[20] V., supra nt. 15. Il richiamo del principio di solidarietà, oltre che fuorviante nel contenuto, si rivela inadeguato in considerazione della sua scarsa coerenza con la struttura della norma organizzativa cui la regola di correttezza accede. Posto, infatti, che la logica della tutela dell’affidamento fiduciario postula una pretesa normativa di realizzazione effettiva del valore promosso e non di impedimento del disvalore vietato, una tale pretesa è evidentemente più facilmente accostabile al programma dell’art. 3, comma 2, Cost., più che al precetto precedente. Sulla generale necessità di distinguere le due prospettive assiologiche, sul piano della struttura della norma, v. Greco, Il diritto della fiducia, 16 ss.; per il rilievo della generale riconducibilità della norma organizzativa alla categoria della norma giuridica, pur distinguendosi rispetto alla norma-sanzione per la diversa modalità deontica, v. Libertini, Ancora a proposito di principi e clausole generali, a partire dall’esperienza del diritto commerciale, in ODC 2018, 20.

[21] Tra i molti, per una tale impostazione, v. G. Broggini, Causa e contratto, in Studi di diritto internazionale e comparato, II, Napoli, 2007, 1189

[22] V. in proposito Greco (nt.), 21, il quale pone in risalto “il diverso grado di fiducia che le norme incorporano nei confronti dell’apparato e dei consociati”, distinguendo così le previsioni idonee alla realizzazione di un valore in termini effettivi da quelle (più tradizionali) intese alla scongiurare e sanzionare il comportamento produttivo dell’esito legalmente scongiurato.

[23] In tal senso v. invece Palermo (nt. 15), 34.

[24] Cfr., per la distinzione dogmatica in questione, Falzea, L’atto negoziale nel sistema dei comportamenti giuridici, in Riv. dir, civ., 1996, I,

[25] Angelici, La società per azioni. I. Principi e problemi, Milano, 2012, 213.

[26] Su cui v. le istruttive notazioni di Zoppini, Il diritto privato e le “libertà fondamentali” dell’Unione Europea (Principi e problemi della Drittwirkung nel mercato unico), in Le “libertà fondamentali” dell’Unione Europea e il diritto privato, a cura di F. Mezzanotte, Roma, 2016, 9

[27] V., supra, n. 2, e, ivi, nota 5.

[28] Ginevra, Identità e rilevanza (nt. 17),

[29] Ferro-Luzzi, Riflessioni sulla riforma. I: La società per azioni come organizzazione del finanziamento di impresa, in Riv. dir. comm. e obbligazioni, 2005, I, 673

[30] V. soprattutto, al riguardo, Angelici (nt. 25), 199 ss.

[31] Sul punto deve evidentemente rinviarsi agli studi di economia che hanno trattato il tema, a partire da Williamson, L’organizzazione economica, 1991, 113 ss.

[32] Cfr., di recente, tra i tanti, Alpa (nt. 2); Macario, Dai “contratti delle imprese” al “terzo contratto”: nuove discipline e rielaborazione delle categorie, in Un maestro del diritto commerciale. Arturo Dalmartello a cento anni dalla nascita, a cura di A.A.Dolmetta e G.B.Portale, Milano, 2010, 127

[33] E v., sul tema, e per le questioni sollevate da tale vicenda, AA.VV., Il contratto apolide, a cura di M.Foglia, Pisa, 2019.

[34] V. Falzea (nt. 24), .

[35] Su cui v., oltre alle considerazioni di Angelici (nt. 25), 210, tra gli altri, Marchetti, Codici di condotta, corporate governance e diritto commerciale, in Riv. dir. comm.soc., 2019, I, 23 ss.; Stella Richter jr., Il nuovo Codice di Autodisciplina delle società quotate e le novità legislative in materia di autoregolamentazione, in Riv. dir. comm., 2007, I, 419 ss.

[36] Mi permetto di rimandare in proposito a due miei scritti: La sottoscrizione di azioni proprie, in Liber amicorum Gian Franco Campobasso, I, Torino 2005; e Commento agli artt. 2360-2361 c.c., nel Commentario del codice civile diretto da E. Gabrielli, Delle società – Dell’azienda – Della concorrenza, a cura di D. Santosuosso, artt. 2247-2378, Utet, Torino, 2015

[37] Sulla distinzione, v. ad es. di recente G.Ferri jr. – M.Rossi, La gestione dell’impresa organizzata in forma societaria, in La società a responsabilità limitata: un modello transtipico alla prova del Codice della Crisi. Studi in onore di Oreste Cagnasso a cura di M.Irrera, Torino, 2020, 575

[38] V. Ginevra-Presciani (nt.12).

[39] Rimando ancora a Ginevra (nt. 14), loc. cit.

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