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Le tutele mancanti

11 Febbraio 2016

Aldo Angelo Dolmetta, Ordinario di Diritto Privato nell’Università Cattolica di Milano

(*)1.- I fatti del novembre scorso, relativi alle note «Quattro Banche» del Centro Italia, manifestano più stadi di malessere che vanno al di là del mero contingente o dell’episodico ovvero pure della dimensione solo locale. Per scendere decisamente più nel profondo: vanno nelle pieghe del sistema e dunque, per l’effetto, in quelle della società.

Questi stadi di malessere si dipanano intorno ai tanti e vari profili che la vicenda porta fuori di sé. Altrimenti detto, e se si preferisce utilizzare una chiave di lettura diacronica: si svolgono lungo un passato, un presente e un futuro della vicenda medesima.

Tre i poli di fondo: il tema gestorio dell’impresa bancaria; il tema degli investimenti (anche nelle banche); il tema della normativa delle crisi bancarie. A questi poli, peraltro, viene ad aggiungersi – per certi tratti quasi a sovrapporsi – un ulteriore aspetto, come rappresentato dal comportamento in concreto tenuto dall’Autorità (Esecutivo e Banca d’Italia).

2.1.- Sotto il profilo gestorio, i primi commenti della vicenda in questione sembrano riflettere una prospettiva del tutto tradizionale in letteratura. Prospettiva che sembra mostrare la possibilità di due soli lati alternativi: la narrowbank, che è la banca che non rischia e che è quindi «inutile» (o assai poco utile, comunque insufficiente), da un lato;dall’altro, la banca di «stabilità dubbia», che è la banca di cui non ci si deve, ne può, fidare.

È da chiedersi se questa sia una prospettiva davvero necessaria. In realtà, il punto della crisi delle banche («quattro» o altre che siano) non può essere assunto come un fatto in sé stesso finito, come un fatto che esiste in quanto accaduto; lo stesso deve essere assunto anche – prima di tutto, meglio – secondo la linea informante della sua evitabilità ex ante: della governabilità della gestione della banca e dei relativi suoi rischi, cioè.

In sé, come è evidente, la crisi esplosa può non dipendere solo o tanto dal rischio di mercato (e dai dati di quest’ultimo, più o meno imponderabili che siano); ben può rispondere pure (in somma o in alternativa)al rischio di gestioni imprudenti, impreparate, di stampo clientelare. La vicenda delle «Quattro Banche» sembra appaiarsi in modo paradigmatico con quella relativa ai «crediti deteriorati»; che, per l’appunto, debbono essere considerati in relazione alla fase genetica dei crediti e di successivo loro monitoraggio, ben prima che in relazione a quella terminale (questo, al di là della constatazione dell’oscurità della nozione effettiva di «crediti deteriorati»; e pure al di là del rilievo che potrà eventualmente avere il soccorso della garanzia statale di cui all’ultimo «Maxidecreto» bancario di mercoledì scorso).

Le cronache di questi mesi narrano che la Banca d’Italia abbia disposto, in relazione a ciascuna di queste «Quattro Banche», più e segmentate ispezioni e verifiche: da tempo e tempo lontano individuando e segnalando anomalie, irregolarità e deficienze varie. E da qui, inevitabile, una domanda, che all’evidenza è fondamentale, ma che (in questa sede,almeno) rimane destinata a non ricevere una risposta: per quale ragione, tra quelle astrattamente proponibili,al riscontro non ha fatto seguito l’azione?

Si parla, qui, dell’azione tempestiva; di quella che, in quanto tale, per qualità e quantità avrebbe anche potuto essere meno traumatica e distruttiva.

2.2.- Anche un altro punto occorre tuttavia sottolineare con forza a tale proposito. Al di là di tutte le perplessità che può fare sorgere lo svolgimento del controllo istituzionale, pure da sottolineare è una diffusa mancanza di controlli distribuiti sui prodotti immessi sul mercato dalle banche. E non solo del governo (e relativo controllo) ex ante, in funzione dell’immissione di un «tipo prodotto»[1]. Il riferimento va, in specie, al controllo diffuso, come effettuato per singole operazioni e per singolo cliente.

Il livello di controllo del diritto vivente (: ex post) sulla dinamica delle operazioni bancarie (nella propria struttura di concreta realtà) resta, ancora oggi, di taglio permissivo. Si presentano al giudizio della giurisprudenza (ABF senz’altro ricompreso[2]) situazioni di palese inefficienza dell’agire delle banche: situazioni che molte volte non vengono, a tutt’oggi, sanzionate in maniera adeguata.

Bastano qui due esempi brevissimi. Uno è quello del caso della banca che intende rientrare del credito concesso senza produrre tutti gli estratti conto a supporto della propria richiesta e che ciò nonostante riceve risposta positiva per l’intero della medesima (è il tema notissimo che viene evocato con il nomen di «saldo zero»; cfr. Tribunale di Brindisi, 13 gennaio 2014, in Expartecreditoris.it). L’altro è quello delle gestioni allegre del credito fondiario, con fattispecie di perizie inesistenti, o fatte senza alcuna cura: fattispecie che spesso non vengono in alcun modo sanzionate sul piano negoziale (il richiamo va, in specie, alla conosciuta sentenza della Corte di Cassazione, 28 novembre 2013, n. 26672)[3].

Nella nostra cultura manca una spinta di tipo esogeno all’efficienza di impresa (una volta si sarebbe parlato di controllo giudiziale e sociale). Ancora oggi l’impostazione dell’operatore, quando si tratta di avere di fronte una banca, è quella di fornire una protezione ex post: ridurre, minimizzare nei fatti le specifiche perdite a livello di operazioni (e spesso sotto l’ipocrita dichiarazione di volere, così, tutelare il pubblico dei risparmiatori). Manca, insomma, una spinta di guida indiretta (: «correttiva») al corretto agire d’impresa[4]. E spesso, altresì, si continua – ancor’oggi – a proteggere le rendite di posizione, che le imprese bancarie tendono, nella pratica italiana, a cumulare.

Allo stesso tempo, la letteratura predica assai il ritorno a «margini accettabili nell’impresa creditizia»; il ritorno agli utili (non necessariamente anche ai dividendi). Si parla molto poco invece – e la cosa potrebbe pure sembrare singolare – di riduzione dei costi e degli sprechi. Il richiamo non va solo a quelli relativi ai dipendenti, ma anche, per fare un esempio, agli immobili. Si pensi, sempre per citare un caso, allo storico palazzo di piazza Scala, che è intitolato alla Banca Commerciale Italiana: nell’oggi questo immobile si trova utilizzato per ospitare un bar, una libreria, un museo.

3.1.- La legge di Stabilità 2016, n. 208/2015, ha istituito, come è noto, un Fondo di solidarietà per l’erogazione di ristori a favore degli investitori che detenevano «strumenti finanziari subordinati» emessi dalle «Quattro Banche» (commi 855 ss.): l’attivazione di questo Fondo non è ancora avvenuta; non sono ancora partiti i necessari «arbitrati»[5].

Il comma 858 della Finanziaria stabilisce che la corresponsione delle prestazioni da parte del Fondo rimane «subordinata all’accertamento della responsabilità per violazione degli obblighi di informazione, diligenza, correttezza e trasparenza previsti dal Testo Unico» finanziario.

La mia impressione – il mio timore, se si preferisce –, è che questa disposizione venga interpretata come intesa a dare sostanziale rilievo e sfogo solo alle violazioni degli obblighi di stampo informativo. Può seriamente dubitarsi, tuttavia, della sufficienza della protezione informativa per gli investitori retail. Al di là della norma dell’art. 2411 c.c., a suo tempo ritenuta uno dei pilastri della riforma societaria, resta in fatto che la specificità di queste strutture di investimento – il credito subordinato – rimane oscura per il cliente retail (che ha ottime ragioni, nella sua vita, per non comprendere la distinzione tra etero ed auto finanziamenti; figurarsi le varianti interne al relativo distinguo …). Soprattutto, quand’anche raggiunga un’effettiva consapevolezza, comunque l’investitore retail non ha né i mezzi né la capacità per seguire il corso dell’investimento fatto e del relativo rischio; non è in grado di calibrare correttamente tempi e modi di entrata e di uscita dall’operazione.

Come anche (persino?) la Comunità Europea sembra oggi riconoscere, l’unica tutela veramente disponibile per l’investitore retail è quella dell’adeguatezza del prodotto che gli viene somministrato[6].Con tutte le responsabilità intermediarie che ne vengono a conseguire direttamente. E anche qui, certe tendenze assolutorie dell’intermediario che si ritrovano all’interno del diritto vivente paiono censurabili (al più si arriva, e con fatica, a dire che una generica dichiarazione di essere stati adeguatamente informati non integrare la prova della banca di avere adempiuto ai propri obblighi informativi; così Cassazione, 17 aprile 2015, n. 7922).

3.2.1.- Però, nel concreto della sua dinamica reale, c’è un altro aspetto che la vicenda delle «Quattro Banche» viene a proporre. Da quanto informano le notizie di stampa, la Fondazione Carife ha impugnato, con ricorso al TAR depositato il 30 dicembre 2015,il provvedimento di Banca d’Italia che ha disposto «la riduzione integrale … del capitale rappresentato da azioni», nonché del «valore nominale degli elementi di classe 2» (i subordinati, appunto) con «conseguente estinzione dei relativi diritti amministrativi e patrimoniali»: allo scopo di contestare la legittimità amministrativa del medesimo[7]; come pure per sindacare, nella sostanza, la costituzionalità sia dei contenuti del decreto legge 183/2015, costitutivo delle bridge banks, sia dei due decreti legislativi di novembre (n. 180 e n. 181), istitutivi del bail in. Ora, non ho avuto modo di leggere il testo del Ricorso (l’udienza, fissata il 2 febbraio, è poi slittata, a quanto pare, all’1 di marzo); e devo pure dichiarare di avere una conoscenza dei fatti occorsi a Ferrara e della partecipazione della Fondazione Carife solo generica, da semplice cittadino.

Tanto premesso, comunque il rilievo di questo intervento della Fondazione Carife si manifesta sicuramente forte. E questo, per lo meno, per tre distinte ragioni.

3.2.2.- Quantomeno nelle sue linee generali, il fenomeno indica che il problema dell’adeguatezza non è esclusivo della clientela retail, ma tocca anche le controparti qualificate com’è la Fondazione Carife; controparti qualificate che risultano poco disponibili ad assumere su di sé titoli spazzatura (ovvero,ex ante,a rischio altissimo).

Il discorso dunque finisce per riavvolgersi su sé medesimo. Se il futuro degli investimenti sembra essere di tipo azionario (cfr. il documento stilato e firmato dal Ministro del Tesoro francese e dal suo omologo tedesco, su cui riferisce l’articolo di Scalfari su La Repubblica del 10 febbraio, copertina e 33), il relativo rischio deve essere comunque opportunamente dimensionato a livello di fattispecie concreta; in particolare, va ridotto il più possibile il rischio ex ante di gestioni imprenditoriali da parte di soggetti impreparati, imprudenti, assenti. Come pure va controllata l’azione del management societario nel suo complesso [in questo senso, incoraggianti appaiono gli spunti della recente sentenza di Cassazione25 novembre 2015, n. 24048 a proposito di operazioni in derivati (nel concreto inadeguati per la clientela) e amministratori non delegati].

Altrimenti, si hanno degli investimenti da stimare non tanto come fatti «allo sbaraglio», quanto – nella loro considerazione ex ante –proprio come programmi «a fondo perduto», anche perché privi di un qualunque controllo sul loro an e sul loro quomodo.

3.2.3.- Va poi distintamente considerato che – rispetto alla gestione dell’impresa della Cassa di Risparmio Ferrara s.p.a. – la Fondazione Carife non potrebbe mai essere messa sullo stesso piano di un altro qualunque investitore qualificato. Sembra sicuro che essa (in misura maggiore o minore, non saprei qui dire) ha concorso, in quanto socio di riferimento, nella produzione del fatto dannoso. E di questo suo concorso operativo è difficile, a me pare, che non si debba tenere conto.

3.2.4.- Altro profilo è che il ricorso della Carife sembra centrare uno dei punti più importanti, di quelli nodali (prima di tutto, sotto il profilo costruttivo) dell’intervento dell’Esecutivo e della Banca d’Italia del 21 novembre. L’attivo residuo delle quattro Banche è stato sottratto al diritto degli azionisti e degli obbligazioni subordinati per farlo pervenire alle bridge bank e messo in vendita, di conseguenza, con le medesime.

Un fatto di vero esproprio, a quanto pare proprio di intendere. Nel senso, in specie, che l’azzeramento del patrimonio di responsabilità exart. 2740 c.c., che fa da riferimento agli azionisti e agli obbligazionisti subordinati (che, tra l’altro, è cosa in sé assai diversa dall’azzeramento di un capitale societario) segue a un conto fatto a monte (a priori, cioè), con valutazione solo ipotetica (: non di realizzo) e funzionalmente orientata, inoltre, a un’immediata reimmissione dell’azienda sul mercato (e questo al di là della «scelta» definitoria dei criteri che debbano presiedere alla confezione di una «situazione patrimoniale» di perdite di un’impresa bancaria)[8].

Pare difficile,allora, non seguire l’opinione di chi ritiene tale comportamento dell’Autorità come contrario ai dettami della Costituzione(così – stando alle notizie di stampa – ritiene la Fondazione Carife nel detto suo ricorso).Si tratta, prima di ogni altra cosa, di un illegittimo intervento restrittivo sull’intima struttura dell’investimento a suo tempo posto in essere: in ultima analisi, la condizione di rischio risulta trasformata in una condizione di perdita.

4.1.- A prescindere (ove possibile) da tutto questo, rimane ancora da chiedersi se Governo e Banca d’Italia non avrebbero potuto, già nel momento in cui prendevano provvedimenti così radicali e punitivi degli investitori, prendersi nello stesso momento cura degli stessi. Prevedere (e subito dopo attivare) un «fondo di solidarietà» (aut similia) già da fine novembre.

Come mai non l’hanno fatto? Perché il problema degli investitori traditi è emerso solo dopo, a cose fatte? Perché poi – è pure da chiedersi con distinta domanda – sta passando tutto questo tempo per provvedere all’istituzione dell’arbitrato di ristoro (buono o cattivo che sia il rimedio, comunque sono ormai passati quasi tre mesi)?

4.2.- È stato notato – il salto del discorso è volutamente molto brusco, come inteso a rimarcare lo spessore del rilievo appena fatto – che la normativa di bail in soffre di un’intima contraddizione interna[9]. Essa assume a suo parametro di riferimento – a suo sistema pensato – una situazione di mercato matura, capace nel suo interno di trovare adeguate risposte alle crisi delle singole banche (che, di per sé sono, in detta ipotesi, delle crisi occasionali): insomma, un mercato pieno di potenziali acquirenti delle banche in crisi. Ma questo non è, nell’attuale, il sistema reale dell’Italia: da qui la contraddizione.

La situazione italiana non è questa, come dimostra se non altro il fatto che non solo sembrerebbero mancare dei veri compratori, ma pure che parecchie altre banche navigano nell’attuale in cattive, se non pessime, acque[10]. L’osservazione (di Capriglione), dunque, è senz’altro da condividere, con la precisazione ulteriore che la preoccupazione del bail in – la sua unica o comunque quella affatto primaria – sembra essere quella di chiudere in tutta fretta il buco di mercato, proponendo l’attivo delle banche in crisi al pubblico dei potenziali acquirenti.

Ora, se il sistema formato e normato non corrisponde al sistema reale, non vi è dubbio che il primo debba essere cambiato. Per renderlo appunto coerente all’effettiva dimensione e concretezza del secondo. Natura non facit saltum[11].

Si è osservato che la ragione (di fondo) dell’ideazione e dell’introduzione del bail in è di taglio sostanzialmente negativo: gli Stati (mondiali, europei, italiano) non hanno più le disponibilità economiche per fronteggiare con propri interventi di salvataggio le crisi delle banche[12]. Nel continuare a chiedersi se una simile ragione davvero implichi di necessità la positiva adozione del modello concettualmente espresso dal bail in[13], si impone in ogni caso una notazione che si intende specchiare dentro quella appena riferita. Una situazione di oggettiva povertà[14] comporta – per sua propria natura – la prestazione di cautela e di accortezza massime. E per tutti i lati su cui il problema relativo viene a spalmarsi:sia in punto di prevenzione delle crisi; sia in punto di organizzazione dei provvedimenti che siano complessivamente da assumere; sia (e non meno) in punto alla predisposizione di un periodo di progressivo adattamento rispetto all’introduzione a regime di un simile plesso legislativo (non si può che ripetere di nuovo: natura non facit saltum).

4.3.- Un ultimo ordine di annotazioni. Si parla tanto, in questi giorni, di azioni di responsabilità verso i vecchi amministratori e sindaci delle «Quattro Banche». E questo è giusto e corretto, naturalmente. Chi ha sbagliato, deve pagare (: e questo, volendo, anche a non rimanere all’interno di un’ottica chiusa sull’ex post). Non si deve trascurare, però, che questo strumento di responsabilità ha dato, nei tanti e tanti episodi che sono capitati, risultati davvero modesti: appunto perché esso interviene quando i buoi sono ormai in irraggiungibili paradisi off-shore.

Sembra il caso, oggi, di pensare a qualcosa di diverso e di nuovo. Con la consapevolezza, però, che il difetto di soluzioni nuove – e sostitutive in via efficiente dell’azione di responsabilità amministrativa – non può non venire a enfatizzare ancora di più il rilievo intrinseco che (in ogni caso) va riconosciuto ai controlli, diretti come pure indiretti (sopra, il n. 2.2.), sui prodotti dall’impresa offerti sul mercato.

 

(*) Tenutosi a Trento, 12 febbraio 2016.

[1] Su questo tema del governo ex ante sui prodotti insiste, tra gli altri aspetti, anche la Relazione svolta da Antonucci.

Per ridurre le cose al lato esemplificativo, credo basti menzionare un solo profilo (del resto, la mia relazione ritorna – ossessiva – su questa problematica generale): la vicenda delle «quattro Banche» mostra una volta di più come la gestione del conflitto di interessi nel collocamento dei prodotti richiede una soluzione eteronormativa radicale, con disposizione da «pericolo presunto».

[2] Parecchie aspettative sta suscitando l’istituzione del nuovo «Organismo Consob» (abbandonata l’infelice idea della Camera arbitrale, si cerca di replicare la base di quella che presiede all’ABF), al di là delle numerose difficoltà di «costruzione effettiva» che questo sta attraversando (e su cui v. Dolmetta e Malvagna, Sul nuovo ADR Consob, di prossima pubblicazione su Banca e borsa).

[3] In questa prospettiva non pare inutile osservare che l’art. 120-duodecies T.U.B., di futura introduzione in via di recepimento della c.d. direttiva Mutui residenziali, viene a stabilire che «la valutazione» degli immobili oggetto di ipoteca «è svolta da persone competenti sotto il profilo professionale e indipendenti dal processo di commercializzazione del credito, in modo da poter fornire una valutazione imparziale ed obiettiva documentata su supporto cartaceo o su altro supporto durevole». Lo stesso articolo delega la Banca d’Italia a dettare disposizioni di attuazione (secondo una disposizione del seguente tenore: «la Banca d’Italia detta disposizioni di attuazione del presente articolo, tenendo anche conto della banca dati dell’Osservatorio del mercato immobiliare; ai fini del comma 1 può essere prevista l’applicazione di standard elaborati in sede di autoregolamentazione»).

[4] Con tutte le conseguenze che ne vengono a derivare in punto di compliance.

[5] Sulla natura non arbitrale (né, prima ancora, contenziosa) di queste procedure v. la Relazione di Fiorio.

[6] La Relazione di Antonucci molto insiste al riguardo sull’importanze della valutazione degli «scenari probabilistici» sussistenti al momento di collocamento dei prodotti.

Per l’esistenza, nel contesto normativo del comparto finanziario, di un principio generale (: vivo, cioè, per tutti i tre settori di questo comparto) di necessaria adeguatezza dei prodotti consegnati al cliente v. il mio Traparenza dei prodotti bancari. Regole, Bologna, 2013, p. 123 ss.

[7] Il comma 854 della legge di stabilità 2016 – nel dichiarare di «abrogare» il decreto legge 22 novembre 2015 n. 183 – ha peraltro stabilito che «restano validi gli atti e i provvedimenti adottati e sono fatti salvi gli effetti prodottisi e i rapporti giuridici sorti» sulla base del medesimo decreto.

Non è molto chiaro, dunque, cosa in concreto sia rimasto abrogato.

[8] Come si vede, il discorso svolto nel testo (anche per gli azionisti) è di orizzonte affatto diverso da quello relativo al fatto che «il coinvolgimento dell’obbligazionista subordinato nel salvataggio dell’impresa bancaria, che si traduca nella sostanza nell’azzeramento della sua stessa posizione per assorbire le perdite, non dovrebbe contraddire la regola di responsabilità che connota qualitativamente il titolo» (la frase è tratta dalla Relazione di Semeraro).

Altro problema, naturalmente, è quello della «legittimità» del soggetto che ha disposto l’esproprio di cui si discorre nel testo.

[9] Cfr., in segnata specie, la Relazione svolta da Capriglione.

[10] Sull’importanza che, vigente la normativa di bail in, dovrebbero rivestire i c.d. «interventi precoci», v. la Relazione di De Polis.

[11] Secondo quanto riporta Il Sole – 24 ore, 31 gennaio 2016, lo stesso Governatore Visco ha riscontrato che la normativa del bail in «è da rivedere».

[12] Il rilievo è svolto con particolare efficacia dalla Relazione di Santoni.

[13] Per dire, si potrebbe anche ipotizzare – come rimedio diretto dell’esplodere della crisi di una banca (cioè, come struttura in aggiunta alle misure di tipo per un verso o peraltro preventivo delle crisi) – di distribuire le perdite sugli altri, e omologhi, partner correnti sul mercato [del resto, la base portante di una simile idea si trova già manifestata, con riferimento ai depositanti (con esclusione, peraltro, di tutti i tipi di «obbligazionisti») dalla norma dell’art. 96, comma 4, TUB].

[14] Si allude qui, come emerge netto dal contesto, alla povertà c.d. sistemica e non a quella frutto diffuso di una mala distribuzione delle ricchezze.

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