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Le responsabilità e gli obblighi di comportamento degli organi della società in concordato preventivo o in accordo di ristrutturazione dei debiti che prosegue l’attività d’impresa

23 Dicembre 2014

Luca Mandrioli, Professore a contratto di Diritto delle crisi d’impresa nell’Università degli studi di Modena e Reggio Emilia, e di Procedure concorsuali nell’Università degli studi di Trento

SOMMARIO: 1 – La disciplina “concorsuale” della riduzione del capitale sociale per perdite: uno sguardo d’insieme; 2 – La difficile convivenza tra procedure liquidatorie ed art. 182-sexies l. fall.; 3 – L’inoperatività della causa di scioglimento per perdita del capitale sociale ed i limiti temporali di sospensione degli obblighi di ricapitalizzazione; 4 – La mancata disapplicazione della regola “ricapitalizza o liquida” durante la fase di esecuzione del concordato preventivoe dell’accordo di ristrutturazione dei debiti; 5 – La conservazione della gestione dell’impresa in capo agli amministratori e l’esonero dall’obbligo di nomina dei liquidatori; 6 – La necessità di un approfondimento sui doveri e le responsabilità degli organi sociali; 7 – Il regime di responsabilità “aggravato” degli amministratori che proseguono l’attività d’impresa in concordato preventivo o in accordo di ristrutturazione dei debiti: aspetti generali; 8 – Il principio del miglior soddisfacimento del ceto creditorio quale “bussola” di riferimento per la prosecuzione dell’attività economica dell’impresa concordataria; 9 – La responsabilità degli amministratori connessa ad una gestione in perdita dell’impresa durante la fase c.d. “di riserva” del concordato preventivo; 10 – La mancata rimozione della perdita del capitale sociale post omologa e l’impossibilità di eseguire un piano concordatario in continuità aziendale; 11 – Il delicato ruolo di controllo del Collegio Sindacale.

 

1. La disciplina “concorsuale” della riduzione del capitale sociale per perdite: uno sguardo d’insieme

Grazie all’ennesimo intervento normativo d’urgenza[1], il sistema fallimentare contempla oggi una specifica normativa della riduzione del capitale sociale per perdite che, se da un lato, attenua la rigidità della disciplina codicistica, incentivando nel contempo gli amministratori ad anticipare il ricorso agli strumenti di composizione della crisi d’impresa[2], dall’altro, rende maggiormente flessibile la struttura finanziaria delle società in crisi[3], facendo di conseguenza ritenere superate tutte le perplessità precedentemente sorte in ordine alla necessità o meno di dover addivenire, prima di accedere alla procedura di concordato preventivo, ad una ricapitalizzazione, nell’ipotesi di prosecuzione dell’attività d’impresa, da parte di quelle società con capitale già perduto e non reintegrato[4].

In forza della considerazione che la presenza di un patrimonio netto anche di gran lunga superiore al capitale sociale ben possa coesistere con la presenza di una grave crisi finanziaria e che, di converso, la riduzione del capitale sociale al di sotto del minimo legale non costituisca sempre espressione dell’esistenza di uno squilibrio finanziario tale da precludere la continuazione dell’impresa[5], il legislatore, risolvendo «uno dei problemi delle procedure di ristrutturazione negoziale delle crisi d’impresa»[6] – ha, in effetti, sancito, mediante l’introduzione di una norma dal «contenuto complesso e sfaccettato» qual è l’art. 182-sexies l. fall.[7], la sospensione ex lege della disciplina civilistica dettata in tema di scioglimento della società per perdita del capitale sociale e degli obblighi di ricapitalizzazione. Dalla data di deposito della domanda per l’ammissione alla procedura di concordato preventivo – anche a norma dell’art. 161, sesto comma, l. fall. – ovvero di omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis l. fall.  e sino all’omologazione, sono, infatti, destinati a non trovare applicazione gli artt. 2446, secondo e terzo comma, 2447, 2482-bis, quarto, quinto e sesto comma, nonché 2482-ter c.c., fermo restando l’obbligo di accertare immediatamente il verificarsi di una causa di scioglimento per riduzione o perdita del capitale sociale e la conseguente iscrizione nel Registro delle imprese[8], nonché l’obbligo, a norma degli artt. 2446, primo comma, e 2482-bis c.c., rispettivamente in tema di S.p.a. e di S.r.l., di convocare senza indugio l’assemblea dei soci per la sottoposizione e l’approvazione di una situazione patrimoniale aggiornata ed, eventualmente, l’adozione degli opportuni provvedimenti, fra i quali l’apporto di capitali di rischio da parte dei soci stessi ed il ricorso ad una soluzione concordata della crisi d’impresa[9].

Analogamente, e per il medesimo periodo di tempo, non opera la causa di scioglimento della società per riduzione o perdita del capitale sociale di cui agli artt. 2484, n. 4) e 2545-duodecies c.c., mentre resta ferma, per il periodo precedente al deposito del ricorso per l’ammissione alla procedura concordataria, l’applicazione dell’art. 2486 c.c., il quale, si ricorda, statuisce che, al verificarsi di una causa di scioglimento, gli amministratori conservano il potere di gestire la società ai soli fini della conservazione dell’integrità dei valori del patrimonio sociale e sono personalmente e solidalmente responsabili dei danni arrecati alla società, ai soci, ai creditori sociali ed ai terzi per atti ed omissioni eventualmente compiuti in violazione di tale precetto[10].

E’, peraltro, quello qui descritto, un intervento normativo che fa seguito all’iter intrapreso dal legislatore, che ha condotto alla trasformazione di una normativa concorsuale essenzialmente ispirata a finalità liquidatorie, poco sensibile alle tematiche inerenti alla riorganizzazione societaria ed al recupero dell’impresa, oltre che inadeguata sotto il profilo della flessibilità nell’individuazione degli esiti della procedura, in una disciplina – ci si riferisce, in particolar modo, a quella del concordato preventivo – che, nel legittimare la possibilità di addivenire a modificazioni della struttura organizzativa o finanziaria della società debitrice – sì da offrire al ceto creditorio «soluzioni satisfattive alternative alla liquidazione», in grado di consentire il risanamento dell’impresa ed il mantenimento del plusvalore prodotto dall’impresa, anche per il tramite di un mutamento nella sua titolarità – consente soluzioni che implicano, da parte della società debitrice, modificazioni della propria struttura organizzativa e finanziaria[11]. Ma non solo: la sopra citata disposizione impedisce, in presenza di fenomeni di continuità aziendale, per l’intera durata del procedimento, quell’estromissione dei soci dalla compagine societaria che, di norma, consegue alla perdita del capitale sociale, traslando tuttavia sui creditori sociali il costo di questa conservazione, possibile grazie all’effetto esdebitatorio che la falcidia del ceto creditorio produce in termini di ricapitalizzazione delle perdite a suo tempo sofferte.

Sennonché, mentre da un lato, l’introduzione del disposto dell’art. 182-sexies l. fall. ha suscitato un generale apprezzamento, in quanto norma funzionale alla prosecuzione dell’impresa e finalizzata a consentire una «ricapitalizzazione della società di capitali imperniata sulle sopravvenienze attive o sulle plusvalenze scaturite dall’omologazione del concordato preventivo»[12], dall’altro, non sono mancati commenti di segno negativo che hanno messo in luce la censurabilità di una scelta, quella compiuta dal legislatore riformante del 2012, di procrastinare un incombente – la ricapitalizzazione della società – che sarebbe in grado non solo di conferire una maggiore solidità, trasparenza e serietà alla proposta formulata da quelle società che intendono richiedere l’ammissione alla procedura di concordato preventivo, ma anche di incentivare una risposta positiva del ceto creditorio a siffatta proposta[13].

2. La difficile convivenza tra procedure liquidatorie ed art. 182-sexies l. fall.

Sulla scorta delle conclusioni raggiunte all’indomani dell’entrata in vigore della modifica normativa in commento, è invalsa, da più parti, l’opinione che l’art. 182-sexies l. fall. rappresenti, al pari della maggior parte delle norme della legge fallimentare, una disposizione comune a tutte le tipologie di concordato e di accordi di ristrutturazione dei debiti, non operando la stessa alcuna distinzione tra strumenti di composizione della crisi caratterizzati da piani e/o accordi aventi natura liquidatoria – che contemplano, al fine di garantire il soddisfacimento del ceto creditorio, la cessione atomistica dei beni e la disgregazione del complesso produttivo – ed istituti di superamento della crisi contraddistinti invece da piani e/o accordi di natura conservativa – che mirano a preservare ed a salvaguardare la continuazione aziendale, evitando la distruzione del suo valore sistemico[14].

La conclusione, però, non convince: l’indagine dell’interprete non può, infatti, limitarsi al mero dato testuale di una norma alquanto complessa, qual è l’art. 182-sexies l. fall.

Che quest’ultimo articolo di legge trovi applicazione alla sola fattispecie della continuità aziendale è conclusione a cui è possibile addivenire, a giudizio di chi scrive, sulla base sia di un’interpretazione logica e sistematica, sia di una più prettamente teleologica o finalistica.

Sotto quest’ultimo profilo, è alquanto lapalissiano che, nonostante il suo tenore letterale, la disposizione in esame trovi la propria ragion d’essere esclusivamente nell’ambito di quei concordati ed accordi di ristrutturazione dei debiti caratterizzati dalla continuazione dell’impresa: è, in effetti, in una simile fattispecie che, in deroga alle disposizioni codicistiche, si concede al debitore la facoltà di proseguire l’impresa in presenza di un capitale sociale ritenuto del tutto inadeguato[15]. Cosa, questa, che non potrebbe, di certo, avvenire in assenza del disposto dell’art. 182-sexies l. fall., essendo alquanto evidente l’incompatibilità, in presenza di una causa di scioglimento della società, di un piano in continuità aziendale che non fosse volto – facendo ricorso all’esercizio provvisorio di cui all’art. 2487 c.c., quale atto necessario per la conservazione del valore dell’impresa – al miglior realizzo del complesso aziendale.

Ma non è tutto. Anche sotto il profilo ermenuetico – che, muovendo dall’intero sistema normativo vigente ed, in particolar modo, dal necessario coordinamento tra le disposizioni di diritto societario e quelle di origine concorsuale, giunge a ricostruire la ratio legis ovvero la finalità sociale ed economica della norma giuridica – non si può che addivenire ad una soluzione diametralmente opposta rispetto a quella che si evince dal semplice dettato letterale dell’art. 182-sexies l. fall.: l’esonero della disciplina dell’obbligatoria riduzione del capitale sociale per perdite non dovrebbe trovare applicazione se il concordato preventivo o l’accordo di ristrutturazione dei debiti hanno natura liquidatoria, posto che, al di fuori di un contesto di continuità aziendale, una disposizione, come quella qui in esame, non solo servirebbe a ben poco, se non addirittura a nulla, ma sarebbe addirittura “assurda”[16].

Come potrebbe, infatti, mai conciliarsi una norma volta ad offrire all’organo gestorio la legittimazione a continuare l’attività d’impresa con una pianificazione della crisi che si pone quale obiettivo la dismissione atomistica del patrimonio del debitore? In altri termini, sarebbe proprio la natura liquidatoria del piano sottostante ad impedire, fin dall’origine, ciò che l’art. 182-sexies l. fall. sembrerebbe invero ammettere sotto il profilo squisitamente letterale. Il che non significa, tuttavia, che questo principio generale non possa, anche in sede di concordato liquidatorio, soffrire di talune eccezioni. E ciò è quanto accade, ad esempio, con riferimento a quegli atti di straordinaria amministrazione che, affinché possano essere efficaci nei confronti del ceto creditorio, necessitano dell’autorizzazione del Giudice delegato ai sensi dell’art. 167 l. fall.; autorizzazione che, evidentemente, potrà essere concessa solo a fronte di un vantaggio per i creditori.

Senza poi trascurare la circostanza che un ulteriore argumentum ad absurdum potrebbe, in effetti, rinvenirsi nell’inammissibilità di un legislatore che legittimi gli amministratori, nel concordato con cessione dei beni o in sede di accordo di ristrutturazione dei debiti, a porre in essere operazioni di gestione non indirizzate alla conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale, facendo pertanto prevalere l’interesse dei soci rispetto a quello dei creditori sociali.

Che l’ambito di operatività dell’art. 182-sexies l. fall. sia limitato ai concordati preventivi o agli accordi di ristrutturazione dei debiti in continuità, con esclusione di quelli liquidatori, è conclusione che si ricava quindi da una ricostruzione sistematica dell’istituto, né più, né meno di quanto avviene per le disposizioni in tema di finanziamento di cui all’art. 182-quinquies, primo comma, l. fall.; disposizione, quest’ultima, dettata senza alcuna distinzione di tipologia di concordato, ma applicabile alla sola procedura in continuità aziendale[17].

Ma vi è di più. Quando la pianificazione del board dell’impresa volge già sul fronte liquidatorio, non solo non c’è ragione per non applicare la disciplina dell’obbligatoria riduzione del capitale sociale per perdite, ma una   deroga analoga a quella sancita dall’art. 182-sexies l. fall. finisce per porsi in aperto contrasto con le restanti disposizioni civilistiche riguardanti la nomina dei liquidatori, nonché la funzione della società e della sua organizzazione. Il che, ovviamente, è oltre che assurdo anche giuridicamente inaccettabile, posto che, se anche si volesse accedere alla tesi opposta rispetto a quella qui sostenuta, non si potrebbe che concludere per ritenere che, al termine del processo di concordato o di omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti – stante il consumarsi del dies a quem – le norme in tema di liquidazione societaria troverebbero comunque applicazione[18]. A tal proposito, non si possono, infatti, trascurare le conseguenze che l’inoperatività della disciplina dell’obbligatoria riduzione del capitale per perdite produrrebbe in sede di concordato liquidatorio: non si tratterebbe, in effetti, di far ricorso, in assenza del disposto dell’art. 2486 c.c., alla diligenza richiesta agli amministratori nello svolgimento del proprio incarico[19], impendendo loro di poter dar corso ad atti che eccedono le finalità liquidatorie, quanto di disapplicare una disciplina, quella per l’appunto della riduzione del capitale sociale per perdite, prevista dalle disposizioni codicistiche proprio a tutela delle ragioni dei creditori; tutela, che la legge fallimentare tende a realizzare al massimo grado. In conclusione, la deroga alla disciplina civilistica, quale eccezione, è consentita solo laddove vi sia l’esigenza di continuare l’esercizio dell’impresa che diversamente si dovrebbe arrestare, e non anche allorquando il percorso di composizione della crisi d’impresa, essendo di natura liquidatoria, sia in perfetta aderenza con le disposizioni civilistiche. In altri termini, una deroga alla disciplina civilistica è necessità che si pone solo laddove il diritto concorsuale senta l’esigenza di divergere dalla strada del diritto comune, ma di certo non quando le due discipline convergano negli obiettivi. E di questo l’interprete non può non tenerne in considerazione.

3. L’inoperatività della causa di scioglimento per perdita del capitale sociale ed i limiti temporali di sospensione degli obblighi di ricapitalizzazione

L’art. 182-sexies l. fall., nell’affermare che «per lo stesso periodo» – id est dalla data del deposito della domanda di ammissione al concordato preventivo, anche con riserva, ovvero di omologa dell’accordo di ristrutturazione dei debiti di cui all’art. 182-bis l. fall., e sino all’omologazione – «non opera la causa di scioglimento della società per riduzione o perdita del capitale sociale di cui agli articoli 2484, n. 4, e 2545 duodecies del codice civile», dispone un esonero temporaneo o, meglio, una sospensione della disciplina civilistica che impone, a seguito di perdite che conducono il patrimonio netto al di sotto dei due terzi della cifra capitale ed in assenza di una ricostituzione del medesimo, il necessario scioglimento e la conseguente messa in liquidazione della società.

Addirittura, secondo taluni, tale inoperatività della disciplina dell’obbligatoria riduzione del capitale sociale per perdite equivarrebbe ad una vera e propria eliminazione della causa di scioglimento[20]. La conclusione non convince. Sebbene paralizzata negli effetti, la causa di scioglimento, se verificatasi, rimane, ciò che non trova applicazione è, invece, la relativa disciplina, tant’è che se la causa medesima non viene rimossa, al più tardi, con l’omologazione del concordato, la disciplina della riduzione del capitale sociale per perdite riprende a sprigionare tutta la propria forza, senza che si debba dar corso ad un nuovo accertamento della causa di scioglimento stessa, e ciò proprio perché quest’ultima si è già verificata e non è stata mai eliminata.

Peraltro, la neutralizzazione degli effetti delle disposizioni civilistiche conseguenti al verificarsi, in alternativa all’obbligatoria ricostituzione del capitale, di una causa di scioglimento determina, implicitamente, un’altrettanto momentanea sospensione della disciplina dettata, in relazione ai poteri degli amministratori, dall’art. 2486 c.c.; norma, quest’ultima, che, nel trovare applicazione allorquando si verifica una causa di scioglimento, pone, in capo agli stessi amministratori, il dovere – sino all’avvenuto “passaggio di consegne” ai liquidatori ai sensi dell’art. 2487-bis c.c. – di gestire la società conservando l’integrità ed il valore del patrimonio sociale.

Pertanto, nel sancire che «resta ferma, per il periodo anteriore al deposito [della domanda di concordato ovvero di omologa dell’accordo di ristrutturazione dei debiti], l’applicazione dell’articolo 2486 del codice civile», il disposto dell’art. 182-sexies l. fall. non solo sottende, implicitamente, che a decorrere dal deposito del ricorso di concordato preventivo ovvero di omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis l. fall. tale disciplina non opera, ma anche e soprattutto che qualora si verifichi, prima della presentazione delle suddette domande, una causa di scioglimento, l’obbligo di gestione conservativa dell’integrità e del valore del patrimonio sociale permane, con tutte le responsabilità che ne conseguono, sino, per l’appunto, alla predetta data di deposito della domanda di concordato preventivo o di omologa dell’accordo di ristrutturazione dei debiti. Il che significa, in altri termini, che la circostanza che gli amministratori abbiano fatto ricorso ad uno strumento di composizione negoziale della crisi d’impresa, quali possono essere quelli testé citati, è di per sé insufficiente ad esonerare i medesimi da eventuali comportamenti omissivi, ovvero da condotte poste nel frattempo in essere in violazione del disposto dell’art. 2486 c.c. Ma vi è di più. Nonostante l’art. 182-sexies l. fall. sia del tutto silente, si ritiene – a fronte della mancata adozione delle delibere di cui agli artt. 2447 e 2482-ter c.c. e conseguente operatività della causa di scioglimento di cui agli artt. 2484, n. 4, e 2545-duodecies c.c., prima del deposito della domanda di concordato preventivo o dell’accordo di ristrutturazione dei debiti di cui all’art. 182-bis l. fall. – che agli amministratori si possa addirittura ascrivere la mancata rilevazione tempestiva della stessa causa di scioglimento[21].

In relazione, invece, all’individuazione del dies a quo e del dies ad quem della sospensione della normativa civilistica sulla riduzione del capitale sociale per perdite operata dall’art. 182-sexies l. fall., una ricerca promossa dall’Osservatorio sulle crisi d’impresa nel corso del 2013 ha, fin da subito, messo in luce come la prassi della maggioranza dei Tribunali italiani sia quella di attenersi al dato letterale del disposto dell’art. 182-sexies l. fall., disapplicando le norme societarie nel periodo di tempo intercorrente fra la data di deposito della domanda di concordato preventivo o di accordo di ristrutturazione dei debiti e la decisione del Tribunale in ordine all’omologazione, e ciò a prescindere dall’esito del relativo giudizio[22]. Un’opzione interpretativa, quella qui in esame, che trova accoglimento anche in parte della dottrina, la quale reputa che tanto nell’ipotesi di omologa del concordato preventivo o dell’accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis l. fall., quanto in quella di diniego del provvedimento omologatorio, la decisione del Tribunale faccia riacquistare vigore alle norme societarie sulla riduzione o perdita del capitale sociale[23]. Con l’emissione del decreto di omologazione si chiude, infatti, ai sensi dell’art. 181 l. fall., la procedura concordataria e, con essa, anche il c.d. spossessamento attenuato che la contraddistingue, svolgendo gli organi della procedura, durante la fase esecutiva del concordato, solamente funzioni di sorveglianza; funzioni, di certo, meno invasive di quelle dagli stessi esercitate nel corso del concordato medesimo, anche per il tramite del rilascio delle autorizzazioni ex art. 161, settimo comma, 167, 169-bis e 182-quinquies l. fall.[24].

Sempre in ordine all’operatività della disapplicazione della normativa civilistica prevista dall’art. 182-sexies l. fall., si segnala come la prassi di taluni o, meglio, della minoranza dei tribunali italiani sia quella di considerare la predetta disapplicazione operante nel periodo intercorrente tra la data del deposito delle domande o della proposta e quella della decisione sull’omologazione, ma solo nel caso in cui quest’ultimo procedimento si sia concluso, per l’appunto, con l’omologazione del concordato o dell’accordo[25]. Sennonché, un simile orientamento non pare accettabile, dal momento che, senza dar corso ad alcuna distinzione fra l’ipotesi di omologazione e quella di rigetto, la disciplina fallimentare si limita a sancire, esplicitamente e solamente, il periodo di non operatività della disciplina civilistica in ordine alla riduzione o perdita del capitale sociale. A ciò si aggiunga, che gli amministratori della società non possono di certo attendere l’esito del giudizio di omologazione al fine di progettare le attività da compiere nell’immediato, dovendo aver ben chiaro il percorso da intraprendere già all’atto del deposito della domanda di concordato preventivo o dell’accordo di ristrutturazione dei debiti o, ancora, della domanda di accordo[26].

Quanto poi al dies ad quem, in dottrina non è mancato chi, nell’intento di addivenire all’individuazione del momento ultimo di operatività della sospensione decretata dall’art. 182-sexies l. fall., ha precisato che per omologazione deve intendersi anche il rigetto della domanda di concordato o di omologazione di un accordo di ristrutturazione, laddove non accolta dal Tribunale in tutte le sue fasi e, pertanto, dall’ammissione allo stesso giudizio di omologazione, ivi compresa la sua revoca ex art. 173 l. fall.[27]. Peraltro, nell’eventualità in cui il decreto con cui si accoglie ovvero si rigetta l’omologazione dovesse essere oggetto di successiva impugnazione, il regime di esonero delineato dall’art. 182-sexies l. fall. cesserebbe ugualmente, dal momento che, al di là della provvisoria esecutività del suddetto decreto disposta dall’art. 180, quinto comma, l. fall., la sospensione dell’obbligo di ricapitalizzazione e degli altri obblighi di diritto societario è destinata a venir meno a prescindere dall’esito del giudizio di impugnazione[28]. Una conclusione, quella testé illustrata, che appare, a giudizio di chi scrive, appagante. L’espressione contemplata dall’art. 182-sexies l. fall., “sino all’omologazione”, non va, in effetti, riferita, dal punto di vista processuale, alla definitività del relativo provvedimento, dovendo il significato e la portata della stessa essere collocati, in forza di un criterio interpretativo sistematico, nel quadro complessivo della disposizione in esame. D’altra parte, non è da escludere che problematiche simili a quella qui in esame non siano state prese in considerazione da un legislatore forte di una scelta di fondo: le ragioni della sospensione della disciplina dell’obbligatoria riduzione del capitale sociale per perdite vengono meno quando il debitore fuoriesce dalla procedura di concordato preventivo ovvero dall’accordo di ristrutturazione dei debiti.

Una scelta questa che, se da un lato, in forza della provvisoria esecutività del decreto di omologa sancita dall’art. 180 l. fall., non suscita particolari problematiche allorquando l’eventuale reclamo abbia per oggetto un decreto che accoglie la domanda di omologazione, dall’altro, si profila invece maggiormente complessa in presenza di un procedimento di omologazione che si sia concluso con il rigetto della relativa domanda. In questa ultima circostanza, infatti, le speranze di una rimozione della perdita del capitale sociale conseguente all’effetto esdebitatorio sono, ancorché non definitivamente, sfumate, il che non può di certo giustificare il mantenimento in essere di un esonero come quello disposto dall’art. 182-sexies l. fall. In un’ipotesi al pari di quella ora al vaglio, vi è, in effetti, da dubitare che la società – anche a fronte di un eventuale reclamo avverso il decreto di diniego del Tribunale – possa ancora considerarsi in procedura, e ciò anche nell’eventualità in cui il decreto di rigetto dell’omologa del concordato o dell’accordo di ristrutturazione dei debiti non fosse accompagnato da una successiva e del tutto eventuale sentenza dichiarativa di fallimento. Anzi, a ben vedere, è proprio la circostanza che, contestualmente al predetto decreto di rigetto, possa essere emessa la declaratoria dell’esecuzione collettiva a spingere nella direzione diametralmente opposta, ossia a ritenere che con il predetto decreto di rigetto cessi il regime “protettivo” del concordato o dell’omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti. Ciò non toglie, tuttavia, che un eventuale accoglimento del reclamo dinnanzi al Giudice del gravame possa determinare, nuovamente, la rimozione della causa di scioglimento per perdite in forza dell’effetto esdebitatorio e la reviviscenza del precedente piano concordatario il quale, però, potrebbe, nel frattempo, essere divenuto non più realizzabile, essendo verosimile che, nelle more del giudizio sul reclamo, gli amministratori, se diligenti, abbiano adottato la scelta “ricapitalizza o liquida”, con conseguente impossibilità di seguire, in tutto o in parte, l’originario piano concordatario proposto, o sul quale si fondavano le aspettative dei creditori nell’ambito dell’accordo di ristrutturazione dei debiti.

4. La mancata disapplicazione della regola “ricapitalizza o liquida” durante la fase di esecuzione del concordato preventivo e dell’accordo di ristrutturazione dei debiti

L’esame dei limiti temporali della sospensione della causa di scioglimento sancita dall’art. 182-sexies l. fall. ha spinto taluni a considerare inappropriato che la stessa si arresti alla data di omologazione del concordato preventivo, senza abbracciare anche la successiva fase esecutiva[29]. Nei concordati preventivi in continuità aziendale la sussistenza di una situazione di deficit patrimoniale anche dopo l’omologazione può, infatti, essere considerata per così dire la norma. Conseguentemente, obbligare il debitore a ripianare tale deficit vorrebbe dire privare di significato la stessa soluzione concordataria, in quanto non si dovrebbe più attendere che i risultati positivi della gestione generino risorse atte a consentire, al termine del periodo previsto dal piano, il pagamento dei creditori concorsuali ed il ripristino delle ordinarie condizioni di equilibrio economico-patrimoniale dell’impresa, essendo semplicemente sufficiente che venga attuato il predetto ripianamento del deficit[30]. Altrimenti detto, non estendere il limite superiore della sospensione prevista dall’art. 182-sexies l. fall. sino a ricomprendere la fase esecutiva del concordato preventivo in continuità aziendale, significherebbe snaturare questo stesso istituto, il quale si snoda attraverso un piano industriale e, conseguentemente, lo sviluppo di un progetto d’impresa finalizzato a generare il patrimonio da attribuire al ceto creditorio: il ripristino del patrimonio da parte dei soci dell’impresa, oltre a non essere sempre sostenibile da parte dei medesimi, priverebbe infatti di ogni utilità il piano industriale e, più in generale, il progetto di continuità formulato dall’imprenditore con la proposta concordataria[31].

Sennonché, una simile opzione interpretativa non sembra del tutto convincente. L’esdebitazione che consegue al decreto di omologa dovrebbe, in effetti, essere di per sé sufficiente a rimuovere la causa di scioglimento per riduzione del capitale sociale per perdite[32]. L’eventuale sopravvenienza attiva generata dalla ristrutturazione concordataria deve, infatti, essere computata in vista della determinazione dell’esatto valore del patrimonio netto della società e delle eventuali perdite residue[33].

Del pari anche gli utili generati dall’eventuale continuazione dell’attività d’impresa potrebbero rivelarsi decisivi al fine di consentire la ricapitalizzazione della società[34], e ciò conformemente al principio sancito dalla Suprema Corte[35].

Da quanto sopra prospettato è, quindi, evidente che il limite dell’omologa dovrebbe, in altri termini, costituire lo spartiacque al fine di delimitare le soluzioni percorribili da quelle che il legislatore ritiene non meritevoli di essere, nell’ambito del concordato preventivo in continuità o dell’accordo di ristrutturazione dei debiti, portate a compimento, posto che se ad omologa avvenuta la fattispecie che integra l’obbligatoria riduzione del capitale sociale per perdite è ancora in essere, ciò è evidentemente sintomo di una situazione deficitaria talmente grave e compromessa da non poter più essere – per un profilo di rischiosità del ceto creditorio – subordinata, quanto alla sua guarigione, ad una rimozione da parte della successiva gestione dell’impresa, essendo questo possibile solo laddove intervenga un apporto di capitale proprio che rimuova la riduzione del capitale sociale per perdite. Al riguardo, non deve in effetti mai sottovalutarsi che la tutela del capitale è voluta anche e soprattutto a tutela dei creditori che diventano tali per titolo o causa successiva all’omologazione, e che, dopo tale momento, il processo di concordato cessa non sussistendo più alcuna protezione del patrimonio che diviene, pertanto, aggredibile, tant’è che l’art. 168 l. fall. limita il divieto, per i creditori, di iniziare o proseguire azioni esecutive e cautelari sul patrimonio del debitore, solo sino all’omologa, con la conseguenza che dopo tale istante i creditori possono riprendere le azioni, ovviamente in relazione a crediti che, per effetto della modificazione dell’obbligazione concordataria, hanno nel frattempo subito una rimodulazione dell’esigibilità dell’obbligazione[36].

5. La conservazione della gestione dell’impresa in capo agli amministratori e l’esonero dall’obbligo di nomina dei liquidatori

In un contesto normativo come quello sin qui descritto appare alquanto evidente l’esigenza di approfondire le conseguenze che può avere, sull’agire dell’organo amministrativo, l’eventuale deposito – in epoca successiva all’iscrizione nel Registro delle imprese dell’intervenuta causa di scioglimento della società per riduzione del capitale sociale al di sotto del minimo legale – del ricorso di concordato preventivo ovvero di quello per l’omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti. Ma prima di far ciò, è bene comprendere quando il “timone” rimanga saldo nelle mani del board e quando invece lo stesso debba, a dispetto dell’art. 182-sexies l. fall., essere ugualmente passato ai liquidatori.

Al riguardo, pare alquanto pacifico che, se l’accesso alla procedura concordataria ovvero il deposito per l’omologa dell’accordo di ristrutturazione avviene prima dell’accertamento della causa di scioglimento, gli amministratori non devono convocare l’assemblea al fine di procedere da parte dei soci alla nomina dei liquidatori, interrompendosi la relativa fattispecie a formazione progressiva[37]. Allo stesso modo, l’obbligo di nomina deve ritenersi escluso anche nell’ipotesi in cui l’accesso alla procedura avvenga dopo l’iscrizione nel Registro delle imprese dell’intervenuta causa di scioglimento della società per riduzione del capitale sociale al di sotto del minimo legale, ma prima della nomina, da parte dell’assemblea, dell’organo liquidatorio. In una simile circostanza, infatti, la sospensione della causa di scioglimento determina il venir meno dell’obbligo di nominare l’organo liquidatorio, rimuovendo nel contempo i limiti posti agli amministratori dall’art. 2486 c.c.; la nomina, i poteri e le responsabilità dei liquidatori restano, invece, fermi qualora l’accesso alla procedura venga chiesto dopo la loro nomina[38], sebbene non vi dovrebbero essere ostacoli ad ammettere una eventuale revoca della liquidazione ai sensi dell’art. 2487-ter c.c.[39] Una volta intervenuta la nomina dell’organo liquidatorio, gli amministratori continuano, quindi, a svolgere le loro attività sino all’iscrizione nel Registro delle imprese del nominativo del Liquidatore, atteso che, come precisato dal Supremo Collegio in tema di società cooperative – ma il ragionamento può essere esteso anche alla fattispecie che ci occupa – il Liquidatore è investito del potere di rappresentanza della società e, pertanto, anche in giudizio, non dal momento della sua nomina, sia essa assembleare o giudiziale, ma dalla data dell’iscrizione di quest’ultima nel Registro delle imprese, mentre antecedentemente a tale momento il potere permane in capo agli amministratori[40].

Al di là di questa singolare ipotesi, l’indagine si fa’ di certo più interessante qualora – al pari di quanto sopra precisato – il deposito della domanda di concordato preventivo o di omologa dell’accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis l. fall. finisca per interrompere il procedimento di designazione del Liquidatore non ancora nominato.

In una simile circostanza, infatti, l’apparato di allarme approntato dal sistema codicistico viene ad essere disinserito e l’incentivazione di quei comportamenti virtuosi tesi ad evitare l’insorgere di perdite patrimoniali – sintetizzabili nel preciso obbligo, per gli amministratori, di dar corso, nelle more che entrino in gioco le funzioni del Liquidatore, a quell’attività gestoria meramente conservativa di cui all’art. 2486 c.c. – congelata in attesa che si completi l’iter della procedura. In forza di questa inequivocabile ricostruzione è, tuttavia, invalsa nella letteratura giuridica l’opinione secondo la quale, nel periodo di tempo intercorrente fra il deposito della domanda di concordato o di omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti, anche ai sensi dell’art. 161, sesto comma, l. fall., e la sua omologazione, gli amministratori riacquisterebbero il loro potere di gestire l’impresa in modo non esclusivamente conservativo, come vorrebbe invero il dettato dell’art. 2486 c.c., posto che, non dispiegando più i propri effetti la causa di scioglimento, i predetti amministratori non dovrebbero più sottostare agli obblighi conservativi, ma solamente a quelli derivanti dai piani della procedura concordataria o di omologa degli accordi di ristrutturazione[41]. Ma la complessa coesistenza fra disciplina del diritto societario e norme in materia concorsuale impone di procedere ad un necessario e doveroso approfondimento di cui si darà atto nel prosieguo, non senza prima aver svolto alcune considerazioni preliminari sulla problematica in oggetto.

6. La necessità di un approfondimento sui doveri e le responsabilità degli organi sociali

Fino ad oggi non sono di certo state rare le occasioni, per la letteratura giuridica, di dedicarsi ad appurare i riflessi della disciplina concorsuale sugli organi sociali. Sennonché, a quanto consta, la sensibilità della dottrina si è – salvo in talune occasioni nelle quali è giunta ad approfondire il tema della responsabilità dei suddetti organi sociali a seguito di errate scelte nell’individuazione e caratterizzazione dello strumento di soluzione negoziale della crisi d’impresa[42], ovvero a fronte di operazioni prive di un oggettivo legame al piano sottostante[43], e, più in generale, di violazioni dei principi generali di diligenza dell’organo amministrativo[44] – incentrata, per lo più, sul profilo delle problematiche attinenti alla disapplicazione della disciplina relativa alla tutela del capitale sociale eroso per perdite[45] e, ancor prima dell’introduzione del disposto dell’art. 182-sexies l. fall., sull’accertamento dell’emersione tempestiva della crisi e sulla sua percezione, da parte degli stessi organi sociali, in tempo utile per un salvataggio dell’impresa ed una conservazione del valore del complesso aziendale[46]. Del tutto trascurabili sono risultati, invece, gli approfondimenti  attinenti alla responsabilità degli amministratori e, per quanto loro compete, ai doveri di controllo del Collegio sindacale, nella scelta dello strumento di composizione negoziale della crisi d’impresa da adottare, specie con riguardo ai comportamenti tenuti dai suddetti organi sociali una volta che la società abbia fatto ricorso ad uno dei modelli che l’ordinamento giuridico reputa maggiormente idonei al superamento della predetta crisi d’impresa, quasi a ritenere che per un amministratore – ma le medesime considerazioni possono essere estese, nei limiti dei loro compiti di controllo, anche ai sindaci – sia sufficiente la proposizione di una domanda di concordato preventivo o di omologa di un accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis l. fall. per mandare esente da responsabilità qualsiasi successivo comportamento.

Un simile dubbio è, infatti, alimentato anche dall’infelice espressione contenuta nell’ultimo comma dell’art. 182-sexies l. fall., il quale, nel disporre che «resta ferma, per il periodo anteriore al deposito [della domanda di concordato preventivo ovvero di omologa dell’accordo di ristrutturazione dei debiti], l’applicazione dell’articolo 2486 del codice civile», sembrerebbe implicitamente prospettare un’esenzione da responsabilità degli amministratori ed, in forza dei loro doveri di controllo, anche dei sindaci.

Punto fermo del presente contributo è, perciò, anticipando fin da subito talune conclusioni a cui si perverrà nel prosieguo, il tentativo, per quanto possibile, di portare alla luce ciò che ai più sembrerebbe tuonare come il voler tradire le impressioni che, prima facie, si evincono dalla lettura del disposto dell’art. 182-sexies l. fall.: il mancato esonero da responsabilità degli amministratori – ed, in virtù della sua funzione di controllo, del Collegio sindacale – per eventuali operazioni dannose poste in essere nell’esercizio dell’impresa in pendenza del ricorso agli strumenti di composizione negoziale della crisi d’impresa. Ed è proprio sotto questo profilo che è doveroso considerare almeno due aspetti essenziali.

Innanzitutto, occorre indagare se il deposito della domanda di concordato preventivo ovvero di omologa dell’accordo di ristrutturazione dei debiti – e, conseguentemente, il venir meno dell’applicabilità del disposto dell’art. 2486 c.c. e, pertanto, anche della responsabilità degli amministratori per i danni arrecati ai soci, ai creditori sociali ed ai terzi per effetto degli atti o delle omissioni compiuti in dispregio dell’obbligo di conservare l’integrità ed il valore del patrimonio sociale – sia o meno sufficiente ad esonerare gli organi sociali, quanto meno sino all’omologazione, da responsabilità nella gestione a fronte di una prosecuzione dell’attività economica.

In secondo luogo, posto che l’omologazione costituisce il dies ad quem della sospensione della disciplina civilistica dettata in tema di riduzione del capitale sociale per perdite, vi è da chiedersi se una mancata rimozione della perdita del capitale sociale, quale strumento di adeguata protezione del ceto creditorio – ovvero la sopportazione, nonostante la precedente rimozione della causa di scioglimento, di perdite gestionali tali da comportare un’erosione rilevante ai sensi della predetta disciplina – imponga – in sede di esecuzione di un concordato preventivo o di un accordo di ristrutturazione dei debiti in continuità aziendale – l’adozione, da parte degli amministratori, di comportamenti comunque consoni al disposto dell’art. 2486 c.c. e, pertanto, volti alla conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale, e, soprattutto, come ciò possa conciliarsi con l’esigenza dell’organo gestorio di dar corso alla realizzazione del piano concordatario o dell’accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis l. fall., approvato dal ceto creditorio ed omologato dal Tribunale.

Ciò premesso, stante la complessità della vicenda e, volendo procedere con ordine, si darà conto della prima problematica nei prossimi paragrafi, rinviando l’approfondimento della seconda al successivo paragrafo 10.

7. Il regime di responsabilità “aggravato” degli amministratori che proseguono l’attività d’impresa in concordato preventivo o in accordo di ristrutturazione dei debiti: aspetti generali

Come noto, nel disciplinare il potere degli amministratori al verificarsi di una causa di scioglimento e sino al momento della consegna ai liquidatori degli adempimenti di cui all’art. 2487-bis, terzo comma, c.c., l’art. 2486 c.c. dispiega il proprio raggio d’azione verso due differenti direzioni:

i) la prima riguardante la gestione, specificando che gli amministratori mantengono il potere di gestire la società ai soli fini, però, della conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale[47]; e ii) la seconda attinente, invece, alla responsabilità personale e solidale degli amministratori stessi per i danni arrecati alla società, ai soci, ai creditori sociali ed ai terzi, per atti od omissioni compiuti in violazione degli obblighi conservativi di cui sopra.

Sennonché, al pari di quanto in precedenza affermato, dalla precisazione contenuta nell’art. 182-sexies l. fall. – in forza della quale resta fermo, per il periodo anteriore al deposito della domanda di concordato preventivo o di omologa dell’accordo di ristrutturazione dei debiti, anche a norma dell’art. 161, sesto comma, l. fall., quanto previsto dall’art. 2486 c.c. – sembrerebbe potersi trarre l’implicita conclusione che durante la procedura concordataria ovvero di omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis l. fall., il predetto art. 2486 c.c. e la relativa disciplina in termini di responsabilità degli organi sociali non troverebbero applicazione mai.

In questa prospettiva, l’obbligo di gestione “oculata” degli amministratori finirebbe quindi, secondo taluni, per cessare con il deposito del ricorso per l’ammissione al concordato preventivo o per l’omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti[48]. L’assunto merita, ancor prima di analizzare il disposto normativo su cui si fonda, una qualche precisazione. Se con una tale affermazione si intende sostenere che alla data di deposito del ricorso per l’ammissione alla procedura di concordato si arrestano le conseguenze, in termini di limitazione della gestione degli amministratori alle sole operazioni volte alla conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale di cui all’art. 2486 c.c., nulla quaestio. Diversamente, se con la conclusione in esame si vuole sancire una degradazione del presidio sugli organi sociali, giungendo persino a sostenere che tutto quanto compiuto dall’amministratore sotto l’ombrello della composizione negoziale della crisi d’impresa sia lecito ed ammissibile, compresa anche l’erosione di eventuali valori patrimoniali in conseguenza della gestione in continuità dell’impresa, allora da una simile affermazione non si può che prendere le distanze.

L’art. 182-sexies l. fall. non lascia, almeno questa è l’opinione di chi scrive, trasparire la vera realtà della fattispecie giuridica sottostante: la responsabilità degli organi sociali in ordine alle scelte gestorie compiute in sede di pianificazione delle modalità di superamento della crisi d’impresa risulta, nel contesto sin qui delineato ed a fronte della disapplicazione della disciplina civilistica sulla riduzione del capitale sociale per perdite, non depotenziata o affievolita, come i più potrebbero essere indotti a ritenere sulla base di una superficiale lettura del suddetto art. 182-sexies l. fall., ma aggravata. L’inoperatività, insita nella disapplicazione dell’art. 2486 c.c., dei criteri di conservazione del valore e dell’integrità del capitale sociale, se da un lato, lascia ampi margini di manovra alla governance di un’impresa in crisi, dall’altro, finisce, senza ombra di dubbio, per incrementare il rischio, in capo agli organi sociali, di essere chiamati a rispondere di eventuali danni cagionati alla società ed al ceto creditorio a seguito di una errata pianificazione degli strumenti necessari per il superamento della crisi d’impresa.

La disattivazione del disposto dell’art. 2486 c.c. ha, in effetti, il solo scopo di restituire all’organo gestorio quella discrezionalità di cui abbisogna per poter pianificare la miglior soluzione per la composizione della crisi d’impresa, nel modo più ampio possibile, ivi compresa la continuazione dell’attività imprenditoriale allorquando da ciò possa derivare un vantaggio per il ceto creditorio, senza per questo dover ricorrere all’assemblea dei soci[49]. Si tratta, in effetti, di un profilo, quello della pianificazione, di cui non può, invece, disporre l’organo gestorio di una società in bonis allorquando si verifica una causa di scioglimento per riduzione del capitale sociale per perdite, posto l’obbligatorio rinvio disposto dalla legge ed, in particolare, dall’art. 2487 c.c., alle decisioni dell’assemblea dei soci per la definizione dei criteri in base ai quali svolgere la liquidazione, dei poteri dei liquidatori, degli atti necessari per la conservazione del valore dell’impresa, nonché di un eventuale suo esercizio provvisorio in funzione del miglior realizzo; continuazione e gestione dell’impresa che, di norma, competono all’organo amministrativo.

In altri termini, l’orizzonte pianificatorio che si prospetta, in forza del disposto dell’art. 182-sexies l. fall., all’organo gestorio di una società che ha presentato domanda di ammissione alla procedura concordataria ovvero di omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis l. fall. non è più di carattere conservativo, ma molto più ampio ed autonomo[50]; ed è proprio l’estesa libertà di manovra che fa sorgere, in capo all’amministratore, una maggiore responsabilità.

Andando al di là del mero dato testuale dell’art. 182-sexies l. fall., si reputa, in particolare, che tale norma non introduca un’esenzione da responsabilità per gli amministratori ed i sindaci della società da connettersi alla sua ammissione alla procedura concordataria, e ciò anche in virtù del fatto che, a seguito dello spossessamento attenuato tipico di quest’ultima, la gestione dell’impresa resta affidata all’imprenditore[51].

Ecco, quindi, che a seguito dell’ingresso in procedura, gli amministratori, e per loro i sindaci, non sarebbero tenuti a dar corso ai comportamenti di norma ad essi richiesti – la convocazione dell’assemblea per la nomina dei liquidatori e l’individuazione dei criteri di liquidazione – bensì a pianificare, godendo di piena discrezionalità nell’individuazione dei mezzi e degli strumenti, la ristrutturazione nell’ambito ed in piena armonia con la suddetta procedura, con la conseguenza che i succitati amministratori potrebbero essere chiamati a rispondere di un piano irrazionale e non fattibile, solo laddove tali deficienze dovessero essere a loro ascrivibili, «senza poter opporre con successo» in una simile eventualità, la regola del «business judgement rule»[52].

Peraltro, l’art. 182-sexies l. fall. non fa che confermare la strada già intrapresa dal legislatore con il disposto dell’art. 152 l. fall. – come sostituito dall’art. 135, d. lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, la cui modifica è entrata in vigore il 16 luglio 2006 – che, nell’affermare il principio secondo il quale la proposta e le condizioni del concordato, salvo diversa disposizione dell’atto costituito o dello statuto, sono deliberate, nelle società di capitali, dagli amministratori, non ha mai traslato in capo ai soci, anche in deroga alle disposizioni civiliste dettate in tema di riduzione obbligatoria del capitale sociale per perdite, la decisione in ordine alla gestione della crisi d’impresa ed alla sua soluzione mediante piani di natura liquidatoria o conservativa, sebbene il capitale sociale possa essere eroso per perdite.

Pertanto, al pari di quanto già anticipato, è opinione di chi scrive che, proprio perché manca una disposizione che regola la tutela legale del capitale, gli amministratori debbano prestare la massima attenzione agli atti che intendono porre in essere al fine di evitare che la mera sospensione della disciplina dell’obbligatoria riduzione del capitale sociale per perdite si traduca in un depauperamento del patrimonio del debitore.

D’altra parte, non è pensabile che, a fronte di una struttura complessa come quella che contraddistingue la responsabilità degli organi sociali, una singola disposizione – quale è, in materia concorsuale, l’art. 182-sexies l. fall. – possa essere di per sé sola idonea a proteggere da qualsiasi responsabilità l’operato degli amministratori. In altri termini, se il diritto concorsuale è in grado di sprigionare quella forza sufficiente a modificare – seppur a maggioranza del ceto creditorio – le obbligazioni contratte dal debitore, ponendo vincoli sul patrimonio di quest’ultimo al solo scopo di attuare quella responsabilità patrimoniale che consente al creditore di veder soddisfatte le proprie ragioni di credito, non per questo si può pensare che lo stesso sia anche dotato di quella capacità riorganizzativa idonea ad interferire a tal punto con le scelte gestionali di chi conduce l’impresa da dettare un obbligatorio comportamento del debitore insolvente che, se rispettato, allontana da responsabilità qualsiasi atto dell’organo amministrativo.

In altri termini, con la presentazione della domanda di concordato preventivo e la conseguente operatività della relativa disciplina, il regime di responsabilità a cui sarà sottoposto l’organo amministrativo non sarà più quello dettato dall’art. 2486 c.c. – che, al verificarsi di una causa di scioglimento, assoggetta a responsabilità gli amministratori per i danni arrecati alla società, ai soci, ai creditori sociali ed ai terzi a seguito del compimento di atti in spregio della conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale – bensì quello più generale di corretta gestione societaria ed imprenditoriale, di adeguatezza e protezione dell’integrità del patrimonio sociale, di cui agli artt. 2392, 2393, 2393-bis, 2394, 2395, 2476 c.c. ed, in particolare, quello che discende dall’art. 2381 c.c. che, si ricorda, impone all’organo amministrativo di valutare l’adeguatezza dell’assetto organizzativo e, quando elaborati, di esaminare i piani strategici, finanziari ed industriali della società e di valutare il più generale andamento della gestione[53].

D’altra parte non si può non condividere la diffusa opinione secondo la quale, in presenza di condizioni di squilibrio economico-finanziario, la discrezionalità dell’organo gestorio si riduce, dal momento che non solo gli amministratori non possono ignorare lo stato di crisi – un simile modus operandi provocherebbe, in effetti, un aggravamento dello squilibrio, il quale potrebbe persino sfociare in un’insolvenza – ma la portata del loro obbligo di lealtà e di protezione del ceto creditorio si estende[54].

In altri termini, anche in pendenza della procedura di concordato preventivo o di omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis l. fall., sussiste comunque una responsabilità degli amministratori, tra l’altro e per quanto qui rileva, per gli atti compiuti in violazione del dovere di conservare l’integrità del patrimonio sociale di cui all’art. 2394 c.c.[55]. Il che significa, quindi, che la paralisi di quella particolare responsabilità verso i creditori sociali sancita, in tema di liquidazione, dall’art. 2486 c.c. conseguente, per effetto dell’art. 182-sexies l. fall., alla mancata applicazione della disciplina del verificarsi della causa di scioglimento, non impedisce, di certo, l’applicazione di quella più generale norma in tema di statuto della responsabilità degli amministratori prevista dall’art. 2394 c.c. a tutela della responsabilità patrimoniale e, pertanto, del soddisfacimento dei creditori sociali[56].

8. Il principio del miglior soddisfacimento del ceto creditorio quale “bussola” di riferimento per la prosecuzione dell’attività economica dell’impresa concordataria

Ritenuto che, anche in pendenza di un concordato preventivo ovvero di un accordo di ristrutturazione dei debiti, gli amministratori siano responsabili per gli atti compiuti in violazione del loro dovere di conservare l’integrità del patrimonio sociale, resta ora da appurare come tale comportamento possa coordinarsi con i presupposti della procedura. Se in linea di principio, non si può non convenire con chi ha ritenuto che, qualora lo strumento di composizione negoziale della crisi d’impresa sia stato scelto e configurato nelle sue caratteristiche principali senza rispettare «le procedure e i parametri indicati dalle regole tecniche recepite sul piano giuridico dai principi di corretta amministrazione», o se la decisione sia stata viziata da deficit informativi, istruttori o motivazionali conseguenti a carenze organizzative, sussista una responsabilità degli amministratori che, ove produttiva di danni, li espone a responsabilità[57], del pari non possono essere trascurate le conseguenze che comporta, in tema di responsabilità, la prosecuzione dell’impresa in pendenza di una procedura concordataria, nell’ipotesi in cui siano stati disattesi i principi guida della stessa.

Il ricorso agli strumenti di composizione della crisi d’impresa, e la conseguente applicazione del disposto del secondo comma dell’art. 182-sexies l. fall., sposta, in effetti, sotto il profilo gestorio, la prospettiva dei meccanismi decisionali dell’organo amministrativo dalla normale ottica del profitto a quella volta ad incentivare comportamenti virtuosi tesi, innanzitutto, alla tutela del ceto creditorio[58]. Tant’è che nel concordato preventivo in continuità aziendale – ove maggiore, rispetto alla disciplina di cui all’art. 182-bis l. fall., è lo sforzo del legislatore di regolamentare la continuazione ed il salvataggio dell’impresa – l’operare dell’organo amministrativo è, per così dire, ispirato non più ai criteri previsti dall’art. 2486 c.c. – temporaneamente congelati per effetto della sospensione sancita dall’art. 182-sexies l. fall. – bensì a quel principio sovraordinato che permea l’intera procedura concordataria costituito dal miglior soddisfacimento del ceto creditorio[59].

In altri termini, così come nel diritto societario, al verificarsi di una causa di scioglimento, l’art. 2486 c.c. impone agli amministratori di conservare l’integrità ed il valore del patrimonio sociale, così, allo stesso modo, il sistema concorsuale – nell’approntare una norma, l’art. 186-bis l. fall., che consente, a differenza di quanto avviene per le imprese in liquidazione ma ancora in bonis, di proseguire l’attività economica – impedisce che l’organo amministrativo possa dar corso ad una gestione imprenditoriale in perdita, depauperando il patrimonio sociale, qualora tale perdita non sia assorbita o più che assorbita da un realizzo dell’azienda in esercizio, idoneo ad integrare, per l’appunto, il miglior soddisfacimento del ceto creditorio. Ed è proprio sul significato e la portata da attribuire a quest’ultimo concetto che è bene spendere qualche parola.

Ad un’attenta disamina della disposizione di cui alla lett. a) del secondo comma dell’art. 186-bis l. fall. non può, infatti, sfuggire come la stessa costituisca una norma «eterodiretta»[60], che solo apparentemente supporta la continuità aziendale, essendo in realtà volta a meglio tutelare la massa dei creditori[61]. L’indicazione, ad opera dell’imprenditore, degli elementi e delle informazioni richieste dalla suddetta disposizione normativa deve, infatti, essere letta ad appannaggio del ceto creditorio, in termini non solo di un consenso maggiormente informato alla proposta di concordato preventivo formulata dal debitore, quanto e soprattutto di tutela delle relative ragioni creditorie. Il che è ancora più evidente alla luce del contenuto della successiva lett. b) del secondo comma dell’art. 186-bis l. fall., la quale richiede che, in caso di concordato in continuità aziendale, la relazione del professionista ex art. 161, terzo comma, l. fall. attesti che la prosecuzione dell’attività d’impresa sia funzionale al miglior soddisfacimento del ceto creditorio, quale «sorta di stella polare cui orientare le scelte di gestione» dell’imprenditore[62], ovvero di «principio ordinatore della formazione» di ogni proposta di concordato[63].

Il giudizio di miglioria introdotto dall’art. 186-bis l. fall. è considerato, infatti, strumento di tutela per i creditori anteriori alla pubblicazione del ricorso di concordato preventivo nel Registro delle Imprese, proteggendoli sia dalla riduzione di valore economico dei beni aziendali derivante dalla prosecuzione dell’attività d’impresa, sia dalla maturazione di passività da soddisfarsi integralmente nell’ambito della stessa procedura concordataria, ovvero in prededuzione in caso di eventuale e successivo fallimento.

Sennonché, mentre per un verso, l’operato degli amministratori deve, successivamente alla presentazione di una domanda di concordato preventivo in continuità aziendale, uniformarsi al miglior soddisfacimento del ceto creditorio – che costituisce il presupposto della prosecuzione dell’attività imprenditoriale – per un altro, il nesso di strumentalità fra ogni atto gestorio e tale finalità non può, secondo parte della dottrina, essere rimesso ad una valutazione discrezionale dell’organo amministrativo, dovendo la condotta degli amministratori attenersi ad uno «standard “oggettivizzato”»,costituito dal rispetto del programma di risanamento posto alla base del ricorso di concordato in continuità aziendale, sicché la gestione deve essere «improntata al rispetto del piano di risanamento […], attestato dal professionista, esaminato dal Tribunale all’atto dell’ammissione alla procedura e successivamente approvato dai creditori»[64].

Si ritiene, infatti, che, a seguito della presentazione di una domanda di concordato preventivo, gli amministratori debbano muoversi nel rispetto delle previsioni del piano concordatario, il quale, pertanto, assumerebbe un ruolo intermedio tra l’obiettivo del perseguimento dell’oggetto sociale (art. 2380-bis c.c.; discrezionalità massima) e quello della conservazione dell’integrità del patrimonio (art. 2486 c.c.; discrezionalità minima), con la conseguenza che «il parametro di diligenza e l’eventuale responsabilità degli amministratori [dovrebbero]modularsi sul contenuto e sulle previsioni» di tale documento, il quale diverrebbe, quindi, il parametro con cui valutare l’operato e la diligenza professionale degli amministratori, anche sotto il profilo della tutela del ceto creditorio[65]. Il che implica, in altri termini, che è solo con la presentazione del piano che si potrebbe ipotizzare un safe harbour per gli amministratori in relazione alle eventuali responsabilità, in caso di successivo fallimento, derivanti dagli atti conformi e funzionali a tale documento compiuti nel corso della procedura concordataria, dovendo quindi ricollegarsi l’esenzione da responsabilità dell’organo amministrativo, in caso di successivo fallimento, alla presentazione del piano concordatario ed allo svolgimento di atti ad esso conformi e funzionali[66].

In definitiva, si ritiene che, in pendenza dell’attuazione di uno strumento di soluzione concordata della crisi d’impresa, la responsabilità degli amministratori attenga, quindi e soprattutto, al compimento di atti non previsti dal piano, il quale ultimo assumerebbe un ruolo di fondamentale importanza nella gestione della società debitrice[67].

Una prospettiva, quella sin qui più ripercorsa, che, se da un lato, consente di riempire di contenuto i doveri di comportamento degli amministratori nel governo del rischio d’impresa, dall’altro, finisce per eludere la vera problematica sottostante. La circostanza che l’atto compiuto sia stato posto in essere in esecuzione del piano non esime, infatti, l’amministratore da responsabilità in caso di un eventuale danno. Se così non fosse si dovrebbe, in effetti, concludere – e ciò sarebbe, ancor prima che inaccettabile, assurdo – che per il solo fatto che gli atti dannosi siano stati a suo tempo pianificati l’amministratore vada esente da responsabilità.

E’ questo non solo il caso, ad esempio, della presentazione di una proposta di concordato preventivo in continuità aziendale, rispetto alla quale, già ab origine, si sarebbe dovuto, facendo ricorso ai criteri di ordinaria diligenza, prevedere che la gestione non avrebbe potuto essere proseguita secondo canoni economici positivi, generando di conseguenza debiti per titolo o causa successivi all’ammissione al concordato stesso tali da assorbire risorse che, in mancanza della prosecuzione dell’attività d’impresa, avrebbero potuto essere destinate al soddisfacimento del ceto creditorio, ma anche quello di un piano perfettamente rispettoso degli standard qualitativi, ma non più perseguibile per il sopraggiungere dei più svariati elementi non preventivati.

A tal proposito, non può qui trascurarsi che sempre l’art. 186-bis ultimo comma, l. fall., impone all’amministratore di monitorare che l’attività d’impresa non risulti manifestamente dannosa, e ciò a prescindere dalla circostanza che la revoca del concordato per cessazione dell’esercizio dell’attività d’impresa o per l’essere divenuto quest’ultimo manifestamente dannoso per i creditori, avvenga ad impulso del Tribunale.

Il controllo svolto dall’autorità giudiziaria sul rispetto della condizione, sancita dall’art. 186-bis, ultimo comma, l. fall., non esime, in effetti, da responsabilità l’organo gestorio.

In altri termini, nell’ambito della procedura concordataria non si assiste ad una ripartizione di competenze tale per cui il controllo operato dal Tribunale sulla non dannosità, per il ceto creditorio, della prosecuzione dell’attività d’impresa, è in grado di allontanare dagli amministratori lo spettro della responsabilità.

Peraltro, la circostanza che a carico di questi ultimi sussista anche solo un obbligo di monitoraggio è ben messa in evidenza dalla dottrina più attenta, la quale non ha mancato di osservare come la centralità che assume il piano nella gestione della società non implichi che gli amministratori non possano reagire ad eventuali “variazioni di rotta” con gli strumenti, ivi compresa un’eventuale modifica della proposta concordataria, che appaiono, di volta in volta, maggiormente idonei a fronteggiare l’intervenuta variazione dello scenario di riferimento su cui si fonda il piano medesimo, ma più semplicemente che accanto al dovere di gestire la società nel rispetto di quest’ultimo documento, permane anche quello di verificare che esso «rimanga attuale»[68]. Ma se una simile conclusione è senz’altro vera quando il ceto creditorio deve ancora pronunciarsi in merito alla proposta concordataria sottoposta alla sua attenzione, altrettanto non può dirsi allorquando la fase di approvazione si sia già consumata, con la conseguenza che agli amministratori non rimarrà – di fronte al verificarsi di una fattispecie di manifesta dannosità per il ceto creditorio – altra soluzione possibile che attivarsi per sollecitare l’intervento degli organi della procedura, pena una loro evidente responsabilità per aver proseguito l’attività d’impresa arrecando un pregiudizio alle ragioni del ceto creditorio.

9. La responsabilità degli amministratori connessa ad una gestione in perdita dell’impresa durante la fase c.d. “di riserva” del concordato preventivo

La panoramica che il presente contributo si prefigge di offrire sui doveri e sulleresponsabilità degli amministratori dell’impresa concordataria o in accordo di ristrutturazione dei debiti che prosegue l’attività economica  non sarebbe completa se si trascurasse di analizzare le problematiche connesse alla condotta dei gestori dell’impresa nel periodo temporale intercorrente tra il deposito, ex art. 161, sesto comma, l. fall., del ricorso e la memoria integrativa con la quale il debitore presenta il piano e la proposta.

L’idea che l’amministratore non sia, nel corso della c.d. “riserva”, libero di agire in modo disinvolto non è sfuggita ai primi commenti. In un simile contesto, è stato giocoforza ritenere che nella fase   “preparatoria”, e quantomeno sino al deposito di un piano di concordato idoneo a supportare il turnaround, la tutela del ceto creditorio richieda un irrigidimento della discrezionalità gestoria concessa agli amministratori, dal momento che ogni atto posto in essere da questi ultimi dopo l’ammissione alla procedura concordataria, anche con riserva, provoca l’insorgere di crediti prededucibili ex art. 111 l. fall. in grado di pregiudicare le ragioni del ceto creditorio cristallizzato alla data di pubblicazione, nel Registro delle Imprese, del ricorso di cui all’art. 161 l. fall.[69].

Sul punto, si è, in effetti, sottolineato come la sospensione della disciplina in tema di riduzione obbligatoria del capitale sociale per perdite – qualora combinata con la possibilità, introdotta dall’art. 182-quinquies l. fall., di contrarre, subordinatamente all’autorizzazione del Tribunale ed all’attestazione di un esperto ex art. 67, terzo comma, lett. d), l. fall., ulteriori finanziamenti – legittimi un aggravio dello squilibrio patrimoniale della società che, di norma, finisce per essere sopportato dal ceto creditorio ed, in particolar modo, dai creditori sociali antecedenti alla domanda di ammissione alla procedura concordataria, ovvero di omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti; rischio, la cui entità è destinata ad aumentare in caso di concordato con riserva, dal momento che quest’ultimo strumento permette di rinviare la presentazione della proposta e del piano entro il termine concesso dal Tribunale[70].

Addirittura ancora più restrittiva, e di ciò non ci deve certo meravigliare, è la posizione di chi afferma che in caso di presentazione di una domanda di concordato preventivo ex art. 161, sesto comma, l. fall., gli amministratori, in forza dei doveri loro imposti dalla normativa civilistica in tema di società, devono attenersi ad una gestione meramente conservativa se la domanda non contiene anticipazioni in ordine al contenuto della successiva proposta e del piano, mentre, a fronte di una simile disclosure, il compimento di atti che vanno al di là di un’ottica liquidatoria dovrà essere circoscritto a quelli coerenti e per così dire giustificati, per l’appunto, dalle anticipazioni sul contenuto della proposta e del piano[71].

La centralità che l’indirizzo in esame riconosce al piano lo induce, in altri termini, a ritenere che, laddove la domanda di concordato con riserva non contenga, in alcun modo, informazioni o anticipazioni in ordine alle caratteristiche della successiva proposta e del relativo piano, gli amministratori debbano attenersi ad una gestione conservativa, senza doversi trovare nella condizione di «motivare la richiesta di speciali autorizzazioni», salvo che le succitate informazioni o anticipazioni non siano fornite con la richiesta stessa o, comunque, successivamente al deposito della predetta domanda prenotativa; al contrario, se quest’ultima fornisce già anticipazioni ed informazioni sul futuro contenuto della proposta e del piano, agli amministratori saranno concessi margini di operatività che vanno al di là della mera gestione conservativa, ma che non possono mai travalicare i «profili oggetto di anticipazione nella domanda di concordato», rispetto ai quali devono, quindi, essere coerenti[72].

Ma non è tutto. In relazione agli obblighi di condotta degli amministratori nella fase successiva alla presentazione di una domanda di concordato con riserva, si è assistito alla formazione di posizioni ancora più radicali, in forza delle quali, a fronte del deposito di una domanda di concordato con riserva, la gestione conservativa imposta dall’art. 2486 c.c. si estenderebbe – a dispetto del tenore letterale di cui all’art. 182-sexies l. fall. – sino al successivo momento della presentazione del piano e della proposta[73].

Senza voler aderire a quest’ultimo indirizzo – alla cui condivisione osta il dettato inequivocabile dell’art. 182-sexies l. fall., che impone la disapplicazione del disposto dell’art. 2486 c.c. anche a fronte del deposito del ricorso di cui all’art. 161, sesto comma, l. fall. –- non si può non convenire con coloro i quali asseriscono, correttamente, che un eventuale esonero da responsabilità – conseguente alla disciplina “concorsuale” della riduzione del capitale sociale per perdite – potrebbe condurre, in caso di presentazione di una domanda di concordato preventivo con riserva, ad una «sottrazione a qualsiasi sindacato del contenuto del piano e del quomodo della ristrutturazione», atteso che all’atto della presentazione della predetta domanda tale progetto di ristrutturazione ancora non esiste[74].

La riserva non deve, in effetti, essere vista come una “area protetta”, in cui l’amministratore è esentato da ogni responsabilità solo perché gli deve essere concessa la possibilità di pianificare la migliore soluzione per la fuoriuscita dalla crisi d’impresa[75]. Le finalità perseguite dal legislatore con l’introduzione del concordato preventivo “con riserva” – consentire al «debitore di beneficiare degli effetti protettivi del proprio patrimonio connessi al deposito della domanda di concordato», impendendo «che i tempi di preparazione della proposta e del piano aggravino la situazione di crisi sino a generare un vero e proprio stato di insolvenza» così si legge, almeno, nella Relazione Illustrativa al d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazione dalla l. 7 agosto 2013, n. 134 – non esonerano, infatti, da responsabilità l’organo amministrativo se lo stesso, nell’intento di programmare gli atti di gestione, pone in essere comportamenti depauperativi del patrimonio, ovvero non rispettosi del dovere di diligente amministrazione.

La possibilità di pianificare concessa al debitore dalla norma sulla c.d. “riserva” deve, quindi, essere letta nel senso che, nel lasso di tempo in cui avviene la predetta progettazione, i creditori non possono intraprendere azioni esecutive individuali, ma non anche che a questi ultimi sia preclusa un’eventuale successiva azione volta a risarcire i danni patiti per un comportamento ascrivibile all’organo amministrativo. E non potrebbe essere diversamente se solo si pone mente ai tratti essenziali e fondanti la disposizione in esame. Al riguardo, non è inverosimile ritenere che la singolarità dell’art. 182-sexies l. fall. trovi la propria giustificazione nella circostanza che l’ordinamento concorsuale consente sì la continuazione dell’attività d’impresa in presenza di un capitale inferiore a quello minimo previsto dalla legge, ma una simile concessione è attribuita confidando sul fatto che il patrimonio netto, anche per effetto dell’esdebitazione concordataria, torni di lì a pochi mesi – e, più precisamente, ad omologa avvenuta – di nuovo sopra la soglia dell’importo minimo di capitale sociale che il diritto comune pretende affinché una società possa operare nel mercato. Appare quindi, sotto questo profilo, alquanto evidente come il legislatore fondi le proprie ragioni sulla prospettiva ottimistica che il concordato si concluda con esito favorevole; aspetto, questo, che consente pertanto di fare affidamento sulla sussistenza anche solo di un capitale “virtuale”. Ma mentre tutto ciò si comprende, ed entro certi limiti si giustifica, allorquando la domanda di concordato sia depositata nella sua completezza e pienezza, vale a dire accompagnata da un piano e da una proposta – avendo la stessa già affrontato, quanto meno, un primo livello di indagine e di accertamento, da parte del professionista attestatore, ed una istruttoria e ad un sindacato, in pendenza del giudizio di ammissione ex art. 163 l. fall., da parte del Tribunale con riferimento, a seguito dell’indirizzo della Suprema Corte a Sezioni Unite del 23 gennaio 2013, n. 1521, al requisito della fattibilità giuridica e della rispondenza alla causa concreta del procedimento – altrettanto non può dirsi con riguardo al deposito del ricorso ex art. 161, sesto comma, l. fall., posto che in una simile circostanza la successiva domanda di concordato o di accordo di ristrutturazione del debito potrebbe non solo divenire improcedibile, ma essere addirittura inammissibile.

In questa prospettiva, la valutazione della condotta degli amministratori che proseguono nell’attività d’impresa non può, quindi, non essere censurata se si verifica un depauperamento del patrimonio su cui si attua la garanzia patrimoniale[76]. In un simile contesto, va da sé, in effetti, che solo se tempestivo nella decisione di ricorrere alla domanda c.d. “con riserva”, l’amministratore, potendo disporre del tempo necessario per scegliere il rimedio migliore per il superamento della crisi d’impresa, potrà andare esente da responsabilità. Diversamente, se non sarà possibile eliminare l’eventuale danno prodotto dalla prosecuzione dell’attività d’impresa a fronte del sopraggiungere, come normalmente accade, di ulteriori passività, mediante la presentazione di una domanda che introduca uno strumento di composizione della crisi d’impresa teso a salvaguardare i beni immateriali, che sono poi quelli che sopravvivono unicamente se c’è una continuità dell’impresa, è altamente probabile che la responsabilità dell’organo gestorio non potrà essere eliminata.

Tuttavia, se da un lato, il non interrompere l’attività d’impresa potrebbe trovare giustificazione nella preservazione del valore dell’avviamento e nella massimizzazione dei valori aziendali raggiungibile considerando non solo gli elementi materiali, ma anche e soprattutto i c.d. intangibles – che costituiscono la vera ricchezza aggiuntiva rispetto all’ipotesi liquidatoria – dall’altro, ricadrà sull’organo amministrativo l’onere di giustificare la razionalità del proprio comportamento, laddove il ricorso ex art. 161, sesto comma, l. fall. dovesse sfociare in un concordato liquidatorio. In una simile fattispecie, i creditori potrebbero, in effetti, chiedere all’organo amministrativo spiegazione delle ragioni alla base dell’utilizzo in pieno dei termini di cui all’art. 161, sesto comma, l. fall., non comprendendosi la ragione di una attesa durata qualche mese e poi sfociata in una soluzione liquidatoria della crisi con conseguente dispersione di ricchezza sottratta al soddisfacimento del ceto creditorio, in quanto destinata a remunerare i creditori per titolo o causa successivi alla pubblicazione nel Registro delle Imprese del ricorso di cui all’art. 161 l. fall.

10. La mancata rimozione della perdita del capitale sociale post omologa e l’impossibilità di eseguire un piano concordatario in continuità aziendale

Al pari di quanto osservato nel paragrafo 4, la sospensione della disciplina in tema di obbligatoria riduzione del capitale sociale per perdite si arresta con l’esito del giudizio di cui all’art. 180 l. fall.

Giunti a questo punto, però, è doveroso porsi due interrogativi: i) come può essere compatibile l’esecuzione di un concordato preventivo in continuità aziendale con la mancata eliminazione, dopo l’omologazione, della causa di scioglimento consistente nella riduzione del capitale sociale per perdite?; e ii) come possono, in sede di esecuzione del concordato, gli amministratori dar corso agli atti previsti nel piano in continuità aziendale, approvato dai creditori ed omologato dal Tribunale, se nel frattempo gli stessi sono tenuti a porre in essere i presidi approntati dal diritto comune allorquando si verifica una causa di scioglimento della società, con particolare riferimento all’obbligo di limitare il potere di gestione ai soli atti volti a conservare l’integrità ed il valore del patrimonio sociale in attesa della nomina – peraltro assolutamente non prevista da piano – dei liquidatori sociali?

Quanto al primo dei due suddetti quesiti è stato osservato che, se la causa di scioglimento non viene rimossa con l’omologa, la riattivazione dello stato di liquidazione comporta, laddove gli strumenti di composizione della crisi d’impresa contemplino la prosecuzione dell’attività d’impresa, che nella fase esecutiva della procedura dovranno essere adottati tutti i provvedimenti di legge – peraltro, già applicabili prima del deposito delle domande o delle proposte – atti a superare la causa di scioglimento, tra cui innanzitutto la ricapitalizzazione della società, senza che possano rappresentare una valida esenzione eventuali condizioni del piano concordatario o dell’accordo di ristrutturazione dei debiti che attribuiscano alla società la possibilità di poter operare, anche dopo l’omologazione, in deroga agli artt. 2484, comma uno, n. 4, 2545-duodecies, 2486 c.c.: queste ultime sono, infatti, norme imperative a cui la legge fallimentare ed, in particolare, l’art. 182-sexies l. fall., non può derogare nella fase successiva all’omologazione, e se si ammettesse che le predette norme potessero venir meno anche in detta fase, il concordato e l’accordo produrrebbero effetti deleteri, collegati alla possibilità di operare in assenza di capitale minimo, tanto per i creditori anteriori, quanto per quelli successivi[77].

Tuttavia, se da un lato, la conclusione testè prospettata pare corretta con riferimento alla c.d. continuità diretta – caratterizzata dalla circostanza che la conservazione dell’impresa avviene senza dar corso ad una modificazione soggettiva del titolare, riconducendo, attraverso la procedura concordataria, l’indebitamento esistente a livelli sostenibili e compatibili con la prosecuzione dell’attività economica nel tempo – dall’altro, merita di essere osservato come la stessa non appaia del tutto appagante con riguardo alla continuità indiretta, realizzata mediante trasferimento del complesso produttivo a terzi libero dal “peso” delle vecchie obbligazioni inadempiute che rimangono quindi, senza essere traslate, in capo al cedente concordatario.

In quest’ultima fattispecie, il diritto societario non esclude, infatti, all’art. 2487 c.c., la possibilità di proseguire l’impresa durante la liquidazione, disponendo l’esercizio provvisorio allorquando lo stesso sia funzionale al miglior realizzo. E ciò è quanto potrebbe accadere in un concordato in continuità aziendale ex art. 186-bis l. fall. che prevedesse la cessione dell’azienda in esercizio, anticipata da una fase in cui l’esercizio dell’impresa è condotto, proprio in attesa di dar corso al trasferimento del complesso produttivo in funzionamento, direttamente dal debitore concordatario.

Tuttavia, al di fuori di una simile eventualità è alquanto evidente il conflitto che si viene a creare tra la necessità per gli amministratori di eseguire il piano concordatario in continuità aziendale alla base della proposta concordataria approvata dal ceto creditorio ed omologata dal Tribunale, e l’obbligo di una mera gestione conservativa imposta dall’art. 2486 c.c., qualora la causa di scioglimento, determinata dal sopraggiungere di perdite rilevanti ai fini della obbligatoria riduzione del capitale sociale per perdite, non sia, nel frattempo, stata eliminata.

Sennonché, una simile discrasia impone di tentare di fornire una risposta anche all’ulteriore interrogativo da cui ha preso avvio questa riflessione. Posto che i creditori concordatari hanno votato quel particolare piano che prevedeva la continuità aziendale, vi è da chiedersi come ciò possa incidere sulle scelte della governance della società in sede di esecuzione del concordato, dal momento che gli amministratori non potranno discostarsi dal medesimo così facilmente, divenendo il piano stesso quel parametro sul quale i creditori potranno fare affidamento al fine di monitorare i profili di rischiosità dell’impresa in crisi.

Sul punto, infatti, non credo che si possa non prendere atto di come, successivamente all’omologazione del concordato, gli amministratori non tornino ad essere i titolari esclusivi, come invero disposto dall’art. 2380-bis c.c., del potere di gestione dell’impresa sociale, dovendo gli stessi – fino a quando non saranno adempiute integralmente le obbligazioni concordatarie – confrontarsi con quel piano d’azione che è stato già approvato dai creditori ed omologato dal Tribunale.

In altri termini, la problematica che si pone è quella di verificare come il piano, approvato dai creditori, possa effettivamente ed ugualmente vincolare gli amministratori della società in sede di esercizio dell’impresa post omologazione in presenza di una mancata rimozione della causa di scioglimento e se una sua eventuale violazione conduca ad una risoluzione del concordato. Sul punto, è sufficiente osservare come l’art. 186 l. fall. sembri legittimare quest’ultima solo in presenza di un inadempimento delle obbligazioni concordatarie. Tuttavia, al riguardo, non va sottaciuta la circostanza che una trattazione analitica di quest’ultima problematica finirebbe, di certo, per eccedere i confini imposti al presente scritto. Al fine di evitare che tutto ciò possa accadere, ci si limiterà, pertanto, nel prosieguo, a poche considerazioni formulate sul convincimento che la prospettiva più feconda per tentare di offrire una risposta al problema segnalato possa essere rinvenuta nell’assunto secondo cui, se da un lato, gli amministratori devono gestire l’impresa non soltanto in conformità all’oggetto sociale, ma anche e soprattutto nel rispetto del piano di concordato in continuità aziendale approvato dai creditori, dall’altro gli stessi non possono disattendere le disposizioni codicistiche, e ciò a maggior ragione quando queste ultime siano divenute, al pari del caso che ci occupa, incompatibili con la prosecuzione dell’esecuzione del piano concordatario.

D’altra parte, non pare certo ipotizzabile che gli amministratori possano essere passibili di responsabilità per aver compiuto un atto estraneo al piano, ma rispettoso della disciplina codicistica in tema di scioglimento e liquidazione delle società. Pertanto, se si conviene con quanto poc’anzi affermato non rimane all’organo amministrativo altra soluzione possibile che segnalare al Commissario giudiziale la necessità di dover deviare,   nella fase di esecuzione del concordato, dalla “strada maestra” indicata nel percorso alla base della proposta concordataria approvata ed omologata dal Tribunale. All’organo di controllo di nomina tribunalizia sarà poi riservato il compito di riferire il fatto all’autorità giudiziaria ex art. 185 l. fall., qualora dallo stesso possa derivare un pregiudizio ai creditori, in modo tale che questi ultimi, venuti a conoscenza dell’accaduto possano, se del caso, esercitare anche un’eventuale azione di risoluzione anticipata del concordato, anche se il termine di adempimento non è ancora scaduto, non potendosi di certo escludere che, anche nel vigore della riforma, al pari di quanto avveniva sotto l’egida della previgente disciplina, si possa dar luogo ad una anticipata risoluzione in forza della quale l’entrata in gioco dell’istituto possa addirittura essere accelerata ottenendo un effetto pro-concorso[78].

11. Il delicato ruolo di controllo del Collegio sindacale

Le considerazioni sin qui svolte con riguardo alle responsabilità degli amministratori impongono ora di spostare l’attenzione sui doveri e sulle responsabilità che fanno capo al Collegio sindacale, il quale, non vi è dubbio, continua a svolgere le funzioni ad esso attribuite anche in ipotesi di ammissione al concordato preventivo ovvero dopo l’omologazione di quest’ultimo[79]. In argomento, le Norme di comportamento del Collegio sindacale, elaborate nel 2012 dal Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili, prevedono che l’organo in esame debba verificare, nell’eventualità che si riscontri una crisi d’impresa, che: i) sia stato incaricato dell’attestazione della veridicità dei dati aziendali e della fattibilità del piano un professionista idoneo, in possesso dei prescritti requisiti di professionalità, ii) che il piano sia correttamente adempiuto[80].

L’osservazione pare riduttiva. E’ opinione di chi scrive, infatti, che l’organo di controllo debba, forte dei sui poteri di ispezione e verifica, andare oltre il mero riscontro formale della sussistenza dei requisiti dell’attestatore, dando corso, nella fase prodromica di preparazione del piano, ad un’indagine in ordine alla razionalità di quest’ultimo rispetto alla concreta situazione dell’impresa. La verifica della coerenza delle scelte poste in essere dall’organo amministrativo rispetto ai principi di corretta amministrazione impone, quindi, al Collegio sindacale di assumere un ruolo di stampo più imprenditoriale, dando corso ad una «valutazione prospettica degli esiti del piano di ristrutturazione»[81].

Con ciò s’intende prendere le distanze da quella differente corrente di pensiero che, meno incisivamente, associa il controllo di legittimità sostanziale che l’art. 2403 c.c. affida ai membri del Collegio sindacale ad un controllo sulla sola fattibilità in astratto, e non anche in concreto, del piano di ristrutturazione formulato dagli amministratori nell’ambito di uno degli istituti previsti dalla legge fallimentare, non potendosi di certo chiedere ad un organo di controllo interno di stampo privatistico di dar corso ad una verifica più ampia di quella affidata, «a tutela dell’interesse generale del ceto creditorio», dal Tribunale in sede di ammissione alla procedura[82].

Quanto sopra osservato circa il comportamento che deve tenere il Collegio sindacale entrando nella concreta situazione dell’impresa non si pone, peraltro, in contraddizione con le considerazioni in precedenza formulate circa l’esclusiva valutazione del rischio d’impresa assunto dagli amministratori. Un conto, infatti, è la decisione concernente l’opportunità di correre un determinato rischio d’impresa che compete in via esclusiva all’organo gestorio, altro è la decisione in ordine alla correttezza del tipo di modello adottato ed alla ragionevolezza delle misure da intraprendere per la soluzione della crisi d’impresa, che incidendo sull’organizzazione, deve farsi rientrare nella condotta di vigilanza ascrivibile ex art. 2403 c.c. al Collegio sindacale in ordine all’adeguatezza dell’assetto organizzativo della società.

In altri termini, che la scelta in ordine alla tipologia di strumento di composizione negoziale della crisi d’impresa, ai suoi contenuti, alle sue caratteristiche concrete, nonché ai professionisti che vi devono dare attuazione competa esclusivamente all’organo amministrativo appare conclusione condivisibile[83].

Ciò però non significa che i sindaci non siano comunque tenuti a soppesare la legittimità di una simile scelta, appurandone la coerenza con la disciplina legale dell’istituto adottato nel concreto, procedendo, pertanto, a verificare la sussistenza dei presupposti, soggettivi ed oggettivi, di accesso alla prescelta procedura o istituto di composizione negoziale della crisi, la coerenza della proposta, dell’accordo o del piano con il sistema normativo di riferimento, nonché la sussistenza dei requisiti di professionalità dell’attestatore; ai sindaci spetta anche il delicato compito di rilevare l’adozione di strumenti o contenuti che si mostrino palesemente e gravemente inadeguati rispetto allo stato di crisi in cui versa la società[84].

Quanto poi al comportamento richiesto al Collegio sindacale nel corso, ma il ragionamento vale anche per la fase esecutiva, di un concordato preventivo, le regole deontologiche di cui alle Norme di comportamento del Collegio Sindacale elaborate dal Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili e parte della letteratura sembrano convergere nell’affermare che l’organo di controllo non solo resta in carica, ma conserva tutte le sue attribuzioni, che si affiancano quindi a quelle degli organi della procedura[85].

Peraltro, in argomento, non si può che convenire con chi reputa che, nel breve lasso di tempo che intercorre fra l’ammissione alla procedura e l’omologazione, il predetto Collegio mantenga sì le proprie funzioni di vigilanza sull’organo amministrativo – dovendo appurare, per quanto possibile, anche il rispetto della disciplina prevista dall’art. 167 l. fall. – ma che il meccanismo di reazione ad eventuali anomalie non sia la denuncia al Tribunale ex art. 2409 c.c. ovvero la proposizione di un’azione di responsabilità, bensì quello di riferire al Commissario giudiziale in modo tale che quest’ultimo, a seconda della gravità dei rilievi, possa tenerne conto nelle proprie relazioni, o attivare persino il procedimento di revoca dell’ammissione ai sensi dell’art. 173 l. fall.[86].

Con riferimento, invece, alla fase esecutiva del concordato, la funzione di vigilanza svolta dal Collegio sindacale sulla legittimità sostanziale dell’attività della società e le conseguenti verifiche da porre in essere dipenderanno dalla tipologia di concordato proposto: concordato liquidatorio o di risanamento ovvero in continuità.

In quest’ultima fattispecie il Collegio sindacale è, infatti, chiamato a svolgere un ruolo del tutto simile a quello che gli compete in una società in bonis, con la precisazione che, al fine di valutare la correttezza dell’operato degli amministratori, il Collegio stesso dovrà fare riferimento non solo ai criteri fissati dalla legge e dai principi di corretta amministrazione, ma anche al contenuto del piano omologato ed alle eventuali modalità fissate dal Tribunale ai sensi dell’art. 185 l. fall., dovendo peraltro coordinarsi con quell’organo di matrice e funzioni pubblicistiche che è il Commissario giudiziale, il quale vigila anch’egli sull’adempimento del piano nell’interesse del ceto creditorio[87].

Da ultimo, merita di essere altresì condivisa l’affermazione in forza della quale nell’ambito degli accordi di ristrutturazione dei debiti – non verificandosi invece alcuna forma di spossessamento del debitore e, di conseguenza, alcuna sovrapposizione con controlli di matrice pubblicistica – il ruolo del Collegio sindacale resta, sotto il profilo tanto della vigilanza quanto dei poteri reattivi, quello disciplinato dalle norme di diritto societario, sicché il predetto organo dovrà non solo dialogare con quello gestorio sì da sollecitare «l’attivazione di eventuali meccanismi di aggiustamento previsti all’interno del piano o dell’accordo originari, ovvero l’avvio di un processo di riformulazione e rinegoziazione degli stessi», ma anche monitorare in modo attento l’idoneità del piano o dell’accordo stesso a consentire, in concreto, il risanamento dell’impresa e l’uscita dalla crisi o la liquidazione, «se e nella misura in cui» si ritenga che l’accordo di ristrutturazione dei debiti possa essere utilizzato anche per scopi liquidatori[88].

 

[1] L’art. 182-sexies l. fall. è stato, infatti, introdotto dall’art. 33 d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni nella l. 7 agosto 2012, n. 134.

[2] Così G. Guerrieri, Sub art. 182-sexies l. fall., in Commentario breve alla legge fallimentare, a cura di A. Maffei Alberti, Padova, 2013, 1293 e 1295.

[3] Tanto da far affermare a G. Strampelli, Capitale sociale e struttura finanziaria nelle società in crisi, in Riv. soc. 2012, 652, 658 e 659, che la sospensione introdotta dall’art. 182-sexies l. fall. provoca una «netta “svalutazione” dell’istituto del capitale sociale quale elemento del sistema di protezione dei creditori in situazioni di crisi», così accogliendo un’impostazione che presta particolare attenzione alla dinamica finanziaria della società, ridimensionando il profilo patrimoniale della stessa, rappresentato, per l’appunto, dal capitale sociale.

[4] Cfr. F. Lamanna, Il c.d. Decreto Sviluppo: Primo commento sulle novità in materia concorsuale, in www.ilfallimentarista.it, 26 giugno 2012, 33. Anche G. Strampelli, op. cit., 653, evidenzia come l’introduzione del disposto dell’art. 182-sexies l. fall. abbia definitivamente chiarito che per accedere alle soluzioni concordate della crisi d’impresa non occorre procedere alla ricapitalizzazione della società, il che è, peraltro, confermato dal fatto che la predetta norma fa salva l’applicazione delle disposizioni attinenti al «“microsistema”» della riduzione del capitale sociale per perdite che pongono in capo agli amministratori obblighi informativi, regolando per di più l’operatività dell’organo gestorio.

[5] Reputa che siano queste le ragioni sottostanti all’importante novità contenuta nell’art. 33, primo comma, lett. f), d.l. 22 giugno 2010, n. 83 c.d. “Decreto sviluppo” che ha introdotto l’art. 182-sexies l. fall., V. Calandra Buonaura, La gestione societaria dell’impresa in crisi, in Società, banche e crisi d’impresa, Liber amicorum Pietro Abbadessa, diretto da M. Campobasso – V. Cariello – V. Di Cataldo – F. Guerrera – A. Sciarrone Alibrandi, Torino, 2014, 2599.

[6] Rappresentato dalla speciale disciplina civilistica inerente alla perdita o alla riduzione del capitale nelle società per azioni e, più in generale, nelle società di capitali, con il conseguente dovere degli amministratori di procedere alla ricostituzione dello stesso capitale sociale e con le relative responsabilità, nonché implicazioni in ordine allo scioglimento della società. Così C. Trentini, Un primo commento alle “misure urgenti per la crescita del paese” e alla revisione della l. fall., in www.ilfallimentarista.it, 6 settembre 2012, 7. Il pregio dell’art. 182-sexies l. fall. di rimuovere quell’ostacolo alle operazioni di risanamento e di riorganizzazione delle imprese in crisi, costituito dalla necessità di dover porre in liquidazione la società in forza di perdite che hanno condotto il capitale sociale al di sotto del minimo legale, è posto in evidenza anche da V. Calandra Buonaura, op. cit., 2600.

[7] Così la definisce T. Ariani, Disciplina della riduzione del capitale per perdite e concordato preventivo, in Il fallimento 2013, 110 ss.

[8] Conforme F. Lamanna, La legge fallimentare dopo il “Decreto sviluppo”, inserto de Il civilista 2012, 31 e 32.

[9] Condivide la scelta del legislatore di non sospendere simili obblighi che, senza interferire con lo svolgimento della procedura di soluzione negoziale della crisi d’impresa, consentono di fornire alla compagine sociale una reale informazione sull’entità del netto patrimoniale e sulla misura in cui esso non copre il capitale sociale, R. Sacchi, La responsabilità gestionale nella crisi dell’impresa societaria, in Giur. comm. 2014, I, 323 e 324, il quale non manca, peraltro, di sottolineare come l’esigenza di dover convocare senza indugio l’assemblea non possa in alcun modo giustificare un eventuale ritardo nell’adozione di una procedura di composizione negoziale della crisi d’impresa, ben potendosi tenere l’assemblea dopo l’attivazione di tale procedura. Allo stesso modo, secondo il citato autore, la responsabilità degli amministratori nei confronti dei creditori sociali per violazione dei doveri loro imposti in ordine alla selezione e configurazione degli strumenti di composizione concordata della crisi non può essere esclusa per il semplice fatto che l’assemblea dei soci ha approvato il loro agire, e ciò neppure allorquando l’assemblea si sia espressa all’unanimità. Conforme nel mettere in luce la salvaguardia dei doveri informativi nei confronti dei soci che consegue alla permanenza dell’obbligo, per gli amministratori, di convocare l’assemblea al fine di sottoporle una situazione patrimoniale dalla quale risulti la perdita, è pure V. Calandra Buonaura, op. cit., 2600, il quale evidenzia, altresì, il dovere dei predetti amministratori di attenersi ad una gestione conservativa, come se si fosse verificata una causa di scioglimento oggetto di sospensione, nel periodo che precede il deposito di una domanda di concordato preventivo ovvero di omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti, con ciò confermando che la conservazione del valore e dell’integrità del patrimonio sociale nell’interesse del ceto creditorio deve guidare l’operato dell’organo gestorio non solo al verificarsi della predetta causa di scioglimento, ma anche in tutte quelle situazioni in cui l’insorgere di una situazione di crisi potrebbe compromettere la continuità dell’impresa. Sulla stessa lunghezza d’onda sembra essere anche D. Galletti, L’insorgere della crisi e il dover essere nel diritto societario. Obblighi di comportamento degli organi sociali in caso di insolvenza, in www.ilfallimentarista.it, 27 settembre 2012, 17, secondo cui, se lo strumento pianificatorio in essere diviene irrealizzabile «sicché la sua pervicace ed ostinata implementazione produrrà l’interruzione dell’attività d’impresa», l’impresa stessa non solo è già insolvente, ma ha anche perso la propria continuità operativa – non potendo restare sul mercato per un prevedibile futuro – con la conseguenza che incombe sugli amministratori il dovere – sebbene transitorio, in quanto è ancora possibile pianificare la ripresa della continuità ed il superamento dell’insolvenza attraverso una ristrutturazione ovvero il ricorso ad una delle soluzioni “istituzionali” della crisi d’impresa – di gestire in ottica conservativa, evitando scelte in contrasto con «linee di una futura ristrutturazione/liquidazione fra quelle astrattamente possibili e “fattibili”». Il che significa che, se la società non è insolvente o, meglio, se la situazione in cui viene a trovarsi non è «immediatamente percepibile come tale» – essendo rari i casi in cui una società che ha perso i presupposti di continuità, ovvero il proprio capitale in modo integrale non si trova ancora nelle condizioni di cui all’art. 5 l. fall. – gli amministratori dovranno attenersi ad una gestione conservativa solo provvisoriamente e, per la precisione, sino all’individuazione della sistemazione definitiva che potrà o meno passare per «le opportune deliberazioni assunte ai sensi dell’art. 2487 c.c.».

[10] Ritenuta sostanzialmente superflua – in quanto, decorrendo, la sospensione disposta dall’art. 182-sexies l. fall., dalla data di presentazione delle domande o delle proposte prenotative, sino a tale momento dispiega i propri effetti l’ordinaria disciplina che regola la materia, tra cui anche il dovere, previsto dall’art. 2486 c.c., di dar corso ad una gestione conservativa dell’integrità e del valore del patrimonio sociale (v. G. Bozza, Diligenza e responsabilità degli amministratori di società in crisi, in Il fallimento 2014, 1109) – la salvezza del suddetto art. 2486 c.c. si pone, quale obiettivo, quello di specificare che la domanda di concordato preventivo o di omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti non può, in alcun modo, sanare le responsabilità eventualmente già maturate (cfr. R. Rordorf, Doveri e responsabilità degli amministratori di società di capitali in crisi, in Le società 2013, 673).

[11] V., in argomento, V. Calandra Buonaura, op. cit., 2594 e 2595.

[12] Così M. Vitiello, Brevi (e scettiche) considerazioni sul concordato preventivo con continuità aziendale, in www.ilfallimentarista.it, 21 gennaio 2013, 7.

[13] Queste sono le parole di A. Penta, Il concordato preventivo con continuità aziendale: luci ed ombre, in Dir. fall. 2012, I, 687.

[14] V., tra i più significativi contributi, L. D’Orazio, Sub art. 182sexies l. fall., in La legge fallimentare, a cura di M. Ferro, Padova, 2014, 2637; G. Bozza, op. cit., 1108; nonché R. Sacchi, op. cit., 327, che non manca di osservare come il disposto dell’art. 182-sexies l. fall. sia formalmente applicabile in tutte le fattispecie di ricorsi di concordato preventivo o di omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti.

[15] Conforme è l’opinione di G. Bozza, op. cit., 1108, ed in nota n. 40), che osserva, per di più, come il disposto dell’art. 182-sexies l. fall. sia espressione dell’intreccio che sussiste fra la normativa civilistica e quella fallimentare, dal momento che al verificarsi di una perdita dell’intero capitale sociale si accorda alla società la possibilità di evitare l’apertura della fase di liquidazione, scegliendo fra una soluzione interna societaria, qual è l’aumento del capitale sociale, ed una esterna, rappresentata dal ricorso alla procedura concordataria ovvero all’accordo di ristrutturazione dei debiti; quella di R. Sacchi, op. cit., 327 e 328; nonché quella di C. Cincotti – F. Nieddu Arrica, La gestione del risanamento nelle procedure di concordato preventivo, in Giur. comm. 2013, I, 1244, i quali sottolineano come il venir meno degli obblighi di gestione conservativa per effetto della sospensione sancita dall’art. 182-sexies l. fall. sia sostanzialmente irrilevante nei concordati meramente liquidatori, esplicando invece appieno i propri effetti in ipotesi di continuità aziendale, in quanto permette agli amministratori di porre in essere il risanamento dell’impresa senza dover intervenire, in via preliminare, sul netto patrimoniale. In caso di concordato in continuità, la sospensione della regola “ricapitalizza o liquida” sancita dal sopra citato art. 182-sexies l. fall. sembra, in effetti, autorizzare, a giudizio dei citati autori, la prosecuzione dell’attività imprenditoriale anche in assenza di capitale sociale senza necessità di dover tenere in considerazione le esigenze conservative di cui agli artt. 2485 e 2486 c.c., allo stesso modo in cui la presentazione di una domanda di concordato pare idonea a provocare la rimozione anche dell’eventuale causa di scioglimento per impossibilità di conseguimento dell’oggetto sociale ex art. 2484, primo comma, n. 2), c.c., sebbene tale ultima affermazione non sia del tutto pacifica in dottrina, essendo rigettata, ad esempio, da R. Sacchi, op. cit., 326.

[16] Puntuale, in argomento, è l’osservazione di R. Sacchi, op. cit., 327, che non ravvisa quali inconvenienti possano verificarsi, nell’eventualità di una proposta di concordato preventivo o di un accordo di ristrutturazione dei debiti di stampo liquidatorio, se, essendo sceso il capitale sociale al di sotto del minimo legale in conseguenza di perdite, la società viene posta in liquidazione e, nelle more, gli amministratori si limitano ad una gestione di carattere conservativo.

[17] Che, pur non essendo circoscritto all’ipotesi di continuità aziendale, l’art. 182-quinquies l. fall. trovi la propria giustificazione soprattutto con riguardo a tale fattispecie se ne avvede anche, R. Sacchi, op. cit., 321, il quale non esita a sottolineare come, nel caso di una domanda di concordato preventivo prospettante una proposta liquidatoria, sugli amministratori che intendono richiedere un nuovo finanziamento incomba, in effetti, un onere motivazionale più pressante, dovendo illustrare le necessità imprenditoriali che, nonostante l’ottica liquidatoria, impongono un nuovo finanziamento funzionale al miglior soddisfacimento del ceto creditorio.

[18] Di parere contrario sul punto pare, invece, essere F. Lamanna, op. ult. cit., 32, secondo cui, se il concordato o l’accordo hanno natura meramente liquidatoria, successivamente alla loro omologazione dovranno essere adottati esclusivamente i provvedimenti compatibili con tale stato e non evitabili: così nel concordato preventivo non si dovrà procedere alla nomina dei liquidatori qualora sia stato nominato dal Tribunale un Liquidatore giudiziale; nomina, che dovrà, invece, essere effettuata in caso di omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti di natura liquidatoria.

[19] Come pare invece sostenere R. Sacchi, op. cit., 327.

[20] Cfr. G. D’Attorre, I limiti alla disciplina societaria sulla perdita di capitale, in www.ilfallimentarista.it, 4.

[21] Si veda G. Guerrieri, op. cit., 1295.

[22] I risultati di tale ricerca sono esposti ed illustrati da L. D’Orazio, La riduzione o perdita del capitale della società in crisi, in Il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione, a cura di M. Ferro – P. Bastia – G.M. Nonno, Milano, 2013, 844.

[23] Cfr., in tal senso, L. D’Orazio, Sub art. 182sexies l. fall., cit., 2636. Anche G. Bozza, op. cit., 1109, ritiene che, nell’eventualità in cui non si addivenga all’omologazione della proposta di concordato preventivo ovvero dell’accordo di ristrutturazione dei debiti, le disposizioni civilistiche in tema di riduzione del capitale sociale per perdite ritornino ad operare, con conseguente necessità di dover intervenire sul capitale sociale e, in assenza di tali interventi, di dichiarare sciolta la società. Quella che deve essere esclusa è, invece, una riemersione, a seguito della mancata omologazione, di una responsabilità degli amministratori per il mancato adempimento degli obblighi pubblicitari conseguenti al verificarsi della causa di scioglimento della società o per non aver operato sul capitale sociale.

Peraltro, pur escludendo che la mancata omologazione del concordato preventivo o dell’accordo ex art. 182-bis l. fall., al pari della risoluzione, faccia venir meno, in modo retroattivo, gli effetti sospensivi decretati dall’art. 182-sexies l. fall., comportando di conseguenza, per l’organo gestorio, il rischio di vedersi poi imputare, a titolo di responsabilità, il mancato adempimento degli obblighi conseguenti al verificarsi di una causa di scioglimento della società ovvero il compimento di attività d’impresa di carattere non conservativo, si sottolinea come una simile conclusione non si addica all’ipotesi in cui la proposta di concordato sia dichiarata inammissibile, dal momento che, come osservato da conforme dottrina, «una siffatta situazione equivale a certificare l’insussistenza sin dal principio delle condizioni indispensabili alla presentazione di quella proposta», atteso che, stabilendo che la sospensione opera sino all’omologazione, il sopra citato art. 182-sexies l. fall. presuppone non solo l’apertura della procedura, ma anche e soprattutto il suo svolgimento sino «all’approdo naturale del giudizio di omologazione». Così R. Rordorf, op. cit., 673. Pur condividendo la preoccupazione di tutelare il ceto creditorio di fronte al rischio di un ricorso abusivo all’istituto concordatario, soprattutto in caso di concordato “in bianco”, altra parte della dottrina – v. R. Sacchi, op. cit., 329 – preferisce ricondurre la responsabilità dell’organo amministrativo per i danni arrecati a seguito dell’indebita presentazione della domanda, non alla retroattività della cessazione della sospensione degli obblighi allo stesso imposti conseguente all’assenza dei presupposti di legge, bensì alla violazione dei doveri posti in capo agli amministratori in ordine alla decisione di attivare uno strumento di soluzione negoziale della crisi d’impresa ed alla configurazione conferita al contenuto di quest’ultimo.

[24] V. L. D’Orazio, op. ult. cit., 2636.

[25] Per tale riferimento si veda L. D’Orazio, La riduzione o perdita del capitale della società in crisi, cit., 843.

[26] V., nuovamente, L. D’Orazio, Sub art. 182sexies l. fall., cit., 2636.

[27] Cfr. T. Ariani, op. cit., 118, in nota n. 27).Che tutti i provvedimenti di legge, idonei a superare, in primis mediante la ricapitalizzazione, la causa di scioglimento, debbano essere adottati anche in caso di mancata omologazione – e, quindi, in relazione al concordato preventivo, in ipotesi di rigetto della relativa domanda con provvedimento divenuto definitivo, di inammissibilità della proposta concordataria ex art. 162 l. fall., di revoca dell’ammissione ai sensi dell’art. 173 l. fall., ovvero di mancata approvazione del ceto creditorio di cui all’art. 179 l. fall., e con riguardo invece agli accordi di ristrutturazione dei debiti, a seguito del rigetto della domanda di omologa, del rigetto della proposta di accordo, ovvero di mancato deposito, entro il termine concesso, dell’accordo di ristrutturazione e della relazione del professionista – è evidenziato anche da F. Lamanna, op. ult. cit., 32.

[28] Così R. Sacchi, op. cit., 329. Altrettanto è a dirsi, a giudizio di R. Rordorf, op. cit., 673.

[29] V. R. Bogoni, La sospensione dell’obbligo di ripianamento delle perdite nel concordato con continuità aziendale, in www.ilfallimentarista.it, 6 dicembre 2013, 6 ss.

[30] Il rinvio è ancora a R. Bogoni, op. cit., 7.

[31] Cfr., ancora una volta, R. Bogoni, op. cit., 7 e 8, il quale individua anche una soluzione alternativa – dallo stesso, però, ritenuta minimalista e non appagante – per l’ipotesi in cui si dovesse accordare preferenza ad un’interpretazione restrittiva del disposto dell’art. 182-sexies l. fall. Qualora, infatti, dopo l’omologa sussistesse una situazione ex art. 2447 c.c. e non si procedesse al ripianamento delle perdite ed alla ricapitalizzazione della società, si verificherebbe la causa di scioglimento di cui all’art. 2484, primo comma, n. 4), c.c., con la conseguenza che gli amministratori conserverebbero la gestione della società con il limite, al fine di non incorrere in responsabilità, della conservazione dell’integrità e del patrimonio sociale, che tuttavia, nel caso di concordato preventivo, significherebbe conformarsi al piano approvato dai creditori ed omologato dal Tribunale.

[32] In modo conforme anche G. Strampelli, op. cit., 653, reputa che, una volta intervenuta l’omologazione e con essa la chiusura della procedura concordataria, la prosecuzione dell’attività d’impresa con il medesimo tipo sociale sia condizionata alla ricostituzione del capitale sociale, la quale ben può conseguire, in modo per così dire naturale, all’esecuzione del concordato o dell’accordo di ristrutturazione dei debiti nell’ipotesi in cui siano stati previsti nuovi apporti di capitale sociale da parte dei soci o di terzi, eventualmente anche attraverso la conversione di crediti in capitale. Se successivamente all’omologazione permangono le condizioni previste dagli artt. 2446, secondo comma, e 2447 c.c., i soci sono, in effetti, tenuti a deliberare la riduzione del capitale sociale e, ove quest’ultimo si sia ridotto sotto il minimo legale, ad adottare gli opportuni provvedimenti, procedendo alla ricostituzione del capitale medesimo o, in alternativa, allo scioglimento o, ancora, alla trasformazione regressiva. Che la ricapitalizzazione della società ben possa essere una conseguenza contabile delle sopravvenienze attive derivanti dalla riduzione del debito accettata dai creditori è messo in evidenza pure da V. Calandra Buonaura, op. cit., 2600.

[33] Cfr., antecedentemente all’introduzione del disposto dell’art. 182-sexies l. fall. ad opera del “Decreto Sviluppo”, R. Nobili – M.S. Spolidoro, La riduzione del capitale, in Trattato delle società per azioni, diretto da G.E. Colombo – G.B. Portale, Torino, 1993, vol. 6*, 330, nota n. 124), i quali sottolineavano, in effetti, come la riduzione dei debiti di rango chirografario alla percentuale concordataria comportasse una diminuzione del passivo e, pertanto, sotto il profilo civilistico, una sopravvenienza attiva che poteva essere tale da riportare il patrimonio netto al di sopra del minimo legale; L. Boggio, Amministrazione e controllo delle società di capitali in concordato preventivo (dalla domanda all’omologazione), in AA.VV., Amministrazione e controllo nel diritto delle società. Liber amicorum Antonio Piras, Torino, 2010, 867, ed in nota n. 48), per il quale l’esito positivo della procedura di concordato preventivo ben poteva eliminare i presupposti di eventuali modificazioni della struttura organizzativa della società imposte dalla relativa regolamentazione: era, ad esempio, il caso di una riduzione del capitale per perdite e degli effetti di rimozione generati su di essa dalle sopravvenienze da concordato; F. Platania, Le operazioni sul capitale nelle società in concordato preventivo, in Il fallimento 2011, 489, il quale, dopo aver precisato che la copertura delle eventuali perdite e la ricostituzione del capitale sociale non costituivano passaggi obbligati almeno sino all’omologazione del concordato, riteneva che dar corso alla riduzione del capitale sociale a copertura delle perdite stesse e contestuale aumento prima di tale momento potesse addirittura risultare intempestivo non potendosi quantificare con precisione l’effetto esdebitatorio del concordato, il quale, «atteggiandosi contabilmente alla stregua di una sopravvenienza attiva idonea a ridurre le perdite» pregresse, avrebbe potuto persino eliminare queste ultime; F. Guerrera, Soluzioni concordatarie delle crisi e riorganizzazioni societarie, in Autonomia negoziale e crisi d’impresa, a cura di F. Di Marzio e F. Macario, Milano, 2010, 600 e 601, che illustrava i vantaggi di rinviare l’operazione sul capitale sociale alla fase esecutiva del concordato, in quanto il legittimo conteggio delle sopravvenienze attive derivanti dall’esdebitazione della società ben avrebbe potuto assorbire totalmente ovvero anche solo parzialmente la perdita prima di deliberare il “nuovo” capitale, evitando in tal modo anche di incidere sull’assetto proprietario, in forza dell’annullamento delle partecipazioni conseguente alla stessa riduzione del capitale. Da ultimo, anche G. D’Attorre, op. cit., 5 e 6, dopo le modifiche della decretazione d’urgenza del 2012, mette in evidenza come la possibile sopravvenienza attiva scaturente dall’esdebitazione concordataria possa riassorbire le perdite pregresse, senza quindi doversi procedere alla loro copertura.

[34] In argomento, v. R. Sacchi, op. cit., 328, che sottolinea come, dopo l’omologazione del concordato, gli obblighi di capitalizzazione non possano essere disattesi neanche laddove una simile deroga fosse prevista dal concordato approvato ed omologato. Se così non fosse, il concordato stesso disporrebbe, infatti, non solo dei diritti dei creditori anteriori alla presentazione della relativa domanda – il che è consentito dall’apparato normativo fallimentare che richiede l’approvazione a maggioranza dei creditori e l’omologazione del Tribunale – ma anche di quelli dei creditori successivi alla predetta presentazione e, persino, di quelli successivi all’omologazione, che, in quanto tali, non possono essere toccati dalla procedura concordataria.

[35] Al riguardo, giova in effetti ricordare che, con pronuncia del 24 marzo 2004, n. 5740 (in Riv. not. 2004, 1254, con nota di N.A. Toscano, La Cassazione si è finalmente espressa sul calcolo degli utili di periodo nella procedura di riduzione del capitale sociale per perdite), il Supremo Collegio ha precisato che la quantificazione dell’ammontare complessivo delle perdite su cui l’assemblea è chiamata a provvedere ex art. 2447 c.c. deve essere operata tenendo conto anche degli eventuali risultati positivi di periodo, c.d. “utili di periodo”, che si sono manifestati nella frazione di esercizio successiva all’ultimo bilancio e che emergono dalla situazione patrimoniale infrannuale posta alla base della deliberazione assembleare.

[36] A conclusioni non molto dissimili pare giungere anche G. D’Attorre, op. cit., 5

[37] Cfr. R. Sacchi, op. cit., 324 e 325.

[38] V. G. D’Attorre, op. cit., 4.

[39] Maggiormente dubbioso al riguardo è, invece, F. Lamanna, op. ult. cit., 32, per il quale un simile deposito della domanda di concordato o di omologa dell’accordo di ristrutturazione dei debiti non provoca l’inefficacia retroattiva, ma una mera sospensione ex nunc dello stato di liquidazione e delle misure già adottate in ipotesi di sottocapitalizzazione, sicché la nomina degli stessi liquidatori conserva efficacia e, con essa, anche i relativi poteri, doveri e responsabilità sanciti dalla legge, dallo statuto o dalla delibera di nomina, da esercitarsi, tuttavia, nel pieno rispetto del piano concordatario o dell’accordo di ristrutturazione. In senso conforme al testo v., invece, G. D’Attorre, op. cit., 4.

[40] V. Cass. 26 luglio 2013, n. 18124, in Giust. civ. Mass. 2013, 954.

[41] Cfr. F. Lamanna, op. ult. cit., 31 e 32. In modo del tutto analogo, D’Orazio, op. ult. cit., 2637.

[42] Si veda R. Sacchi, op. cit., 304 ss.

[43] Cfr. C. Cincotti – F. Nieddu Arrica, op. cit., 1238 ss., la cui posizione è peraltro condivisa da G. Bozza, op. cit., 1097 ss.

[44] Si veda V. Calandra Buonaura, op. cit., 2593 ss.; D. Galletti, op. cit.passim.

[45] Si vedano, T. Ariani, op. cit., 110 ss.; R. Rordorf, op. cit., 669 ss.; R. Bogoni, op. cit., 1 ss.; A. Dimundo, La sospensione dell’obbligo di ridurre il capitale sociale per perdite rilevanti nelle procedure alternative al fallimento, in Il fallimento 2013, 1157 ss.; G. D’Attorre, op. cit., 1 ss.;G. Strampelli, op. cit., 605 ss.

[46] Cfr., ex plurimis, S. Poli, Il ruolo del Collegio sindacale nelle crisi di impresa tra regole deontologiche, norme di sistema e prospettive de iure condendo, in Contr. impr. 2012, 1320 ss.; P. Montalenti, La gestione dell’impresa di fronte alla crisi tra diritto societario e diritto concorsuale, in Riv. dir. soc. 2011, 820 ss.; F. Brizzi, Responsabilità gestorie in prossimità dello stato di insolvenza e tutela dei creditori, in Riv. dir.   comm. 2008, I, 1027 ss.; A. Mazzoni, La responsabilità gestoria per scorretto esercizio dell’impresa priva della prospettiva di continuità aziendale, in Amministrazione e controllo nel diritto delle società, Torino, 2010, 813 ss., nonché, in termini molto più sfumati, G. Ferri jr., La struttura finanziaria della società in crisi, in Riv. dir. soc. 2012, 477 ss.

[47] Peraltro, facendo riferimento alla conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale e non anche dell’impresa sociale, l’art. 2486 c.c. non impone agli amministratori di continuare sempre e comunque l’esercizio dell’impresa, potendo addirittura, al verificarsi di determinate circostanze, tradursi nel divieto di continuare tale esercizio. E questo è quello che potrebbe accadere, ad esempio, nel caso in cui l’impresa gestita dalla società, al momento del suo scioglimento, producesse perdite pur non essendo insolvente, in quanto dotata di un ingente patrimonio liquido che le consente di far fronte ai pagamenti: in tale circostanza, infatti, gli amministratori sarebbero costretti, stante il disposto del sopra citato art. 2486 c.c., a cessare l’impresa nel minor tempo possibile, in quanto continuare l’esercizio dell’attività imprenditoriale vorrebbe dire depauperare il patrimonio sociale. Unica possibilità concessa all’organo amministrativo sarebbe quella di dar corso ad una valutazione comparativa al fine di appurare se il valore dell’avviamento possa evidenziare un saldo netto positivo tenuto conto anche delle perdite che si prevede di accumulare sino al presumibile momento di alienazione del complesso aziendale. In questi termini si veda A. Rossi, Commento sub art. 2486 c.c., in Il nuovo diritto delle società, a cura di A. Maffei Alberti, Padova, 2005, III, 2185, il quale, peraltro, osserva come tale ultima tipologia di valutazione non possa non prendere in considerazione la possibilità o, meglio, la probabilità che una gestione in perdita faccia emergere, in sede di vendita dell’azienda, un badwill, con «conseguente duplicazione delle cause di impoverimento del patrimonio sociale». Al riguardo, è peraltro appena il caso di ricordare come, nel vigore della previgente formulazione dell’art. 2486 c.c. – quella, per intendersi che faceva divieto agli amministratori di dar corso a nuove operazioni al verificarsi di un’ipotesi dissolutiva della società – G. Niccolini, Scioglimento, liquidazione ed estinzione della società per azioni, in Trattato delle società per azioni, diretto da G.E. Colombo – G.B. Portale, Torino, 1998, 481 ss., avesse fatto ricorso agli obblighi conservativi imposti ex lege all’organo amministrativo e, soprattutto, alla regola del massimo ricavo che contraddistingueva la fase di liquidazione dell’attivo per giustificare, in modo diametralmente opposto, il compimento di atti gestori ulteriori, rispetto a quelli che trovavano «diretta ed immediata genesi» nell’attività pregressa, allo scopo di conservare le capacità funzionali e produttive del bene azienda, ancorché limitatamente a quegli atti tesi a preservare i valori di avviamento, in vista di un miglior svolgimento della liquidazione stessa.

[48] Così, in argomento, A. Dimundo, op. cit., 1165.

[49] Aspetto, questo, rilevato anche da D. Galletti, op. cit., 27 settembre 2012, 16, secondo cui la circostanza che l’adozione di una soluzione concordataria (art. 152 l. fall.), di un accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis l. fall. o, ancora, di un piano attestato di risanamento rientri fra le competenze degli amministratori come desumibili dal disposto degli artt. 2380-bis e 2381 c.c., nonché la possibilità, introdotta dall’ordinamento fallimentare, di prescindere dalla formalizzazione della causa di scioglimento in caso di ricorso ad una soluzione “ordinamentale” – ossia concordato preventivo o accordo di ristrutturazione dei debiti – addivenendo ad una disapplicazione degli artt. 2446 e 2447 c.c., ferma restando l’operatività dell’art. 2486 c.c. per il periodo antecedente al deposito della relativa domanda, fanno sì che il ricorso ai suddetti istituti consenta «di deflettere completamente dal ricorso all’assemblea»; il che, se da un lato, può far sorgere una «necessità economica» – come, ad esempio, nell’ipotesi in cui l’impresa sia saldamente vincolata al rispetto, anche formale, del principio dell’ongoing concern, in virtù di clausole previste da contratti siglati con partners strategici ovvero da provvedimenti amministrativi concessori o permissivi – dall’altro permette al management di conservare saldamente le redini dell’impresa.A conclusioni non del tutto dissimili sembra addivenire anche V. Calandra Buonaura, op. cit., 2604, il quale, dopo aver precisato che il disposto dell’art. 182-sexies l. fall. non può indurre a ritenere che l’organo amministrativo possa prescindere dall’intervento assembleare allorquando il piano preveda il compimento di operazioni attinenti all’organizzazione del soggetto in relazione alle quali la disciplina societaria richiede l’approvazione dei soci, afferma, tuttavia, in tema di concordato liquidatorio, che anche se il potere attribuito agli amministratori di definire le modalità di composizione della crisi d’impresa da sottoporre al vaglio dei creditori travalica gli ordinari poteri di esercizio dell’impresa «in vista dell’attuazione dell’oggetto sociale anche nella più estesa previsione di cui all’art. 2380-bis c.c.», l’unica regola organizzativa che l’art. 152 l. fall. consente, in effetti, di disapplicare in vista dell’interesse dei creditori, è quella attinente alla competenza dell’assemblea in ordine alla definizione dei criteri della liquidazione, con la conseguenza che gli amministratori possono prevedere, nel piano, quelle stesse operazioni contemplate dall’art. 2487, primo comma, lett. c), c.c. – vale a dire cessione dell’azienda o di suoi rami, cessione in blocco di beni o diritti, esercizio provvisorio anche di singoli rami in vista del miglior realizzo – senza l’intervento assembleare.

[50] Così non la pensa, però, la maggior parte dei giudici delegati, i quali, come messo in evidenza da una ricerca condotta nel 2013 dall’Osservatorio sulle crisi d’impresa, reputano, in base al disposto dell’art. 182-sexies l. fall., che a seguito della disapplicazione della causa di scioglimento ex art. 2484, n. 4, c.c. gli amministratori debbano comunque continuare a gestire la società ai soli fini della conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale, e ciò sino alla consegna dei libri sociali ai liquidatori. Solo una piccola minoranza di giudici delegati ritiene, in effetti, che nell’ipotesi in esame gli amministratori possano gestire la società con piena autonomia e discrezionalità di operazione. Al riguardo, si veda L. D’Orazio, La riduzione o perdita del capitale della società in crisi, cit., 845.

[51] Così D. Galletti, Gli obblighi degli organi sociali dopo il deposito della domanda di concordato o di omologazione di accordo di ristrutturazione, in www.ilfallimentarista.it, 7 gennaio 2013, che si affretta ad soggiungere come la ratio della disposizione in esame andrebbe ricercata nella voluntas di «esentare la ristrutturazione da alcuni vincoli legati al funzionamento del legal capital ed al verificarsi della causa di scioglimento conseguente alla riduzione del capitale sociale». In modo del tutto conforme anche il Consiglio Notarile di Firenze, Crisi d’impresa e disciplina degli obblighi di mantenimento del patrimonio netto, Orientamento n. 31/2013, in www.consiglionotarile firenze.it, non manca di precisare che il disposto dell’art. 182-sexies l. fall., lungi dall’introdurre un’«area di irresponsabilità per gli amministratori», responsabilizza in realtà questi ultimi, fornendo loro strumenti aggiuntivi – «quelli di natura concorsuale in senso ampio o in senso stretto»: l’accordo di ristrutturazione dei debiti ed il concordato preventivo – al fine di conservare l’integrità ed il valore del patrimonio sociale.

[52] Il rinvio è ancora a D. Galletti, op. ult. cit., il quale già in un suo precedente contributo – L’insorgere della crisi e il dover essere nel diritto societario. Obblighi di comportamento degli organi sociali in caso di insolvenza, cit., 23 – ha sottolineato come la business judgement rule non abbia valenza generale, rappresentando non un «principio “ontologico”», bensì una regola tecnica di giudizio che risponde all’impossibilità per il Giudice e, più in generale, all’inopportunità, di sindacare «concrete scelte di gestione» che, per la loro natura altamente opinabile e soggettiva, sono elevatamente discrezionali, «ciò che potrebbe risolversi in un forte disincentivo all’adozione delle determinazioni imprenditoriali del management». Più in generale, che la business judgement rule non possa trovare applicazione in situazioni di conflitto di interessi, capaci di aumentare il rischio di comportamenti opportunistici degli amministratori – al pari, ad esempio, di un ritardo nell’emersione di una situazione di crisi che abbia procrastinato l’attivazione di azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori stessi, ovvero consolidato vantaggi conseguiti da soggetti a cui questi ultimi sono legati – è messo in evidenza anche da R. Sacchi, op. cit., 308.

[53] Conf. C. Cincotti – F. Nieddu Arrica, op. cit., 1263.

[54] Così C. Cincotti – F. Nieddu Arrica, op. cit., 1263, ove ulteriori richiami in dottrina.

[55] In dottrina, si ritiene, in effetti, che gli obblighi attinenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sanciti, per l’appunto, dal primo comma dell’art. 2394 c.c. non sorgano nel momento in cui il patrimonio sociale si rivela insufficiente, ma coprano l’intera vita della società, in quanto ricompresi nei più generali doveri di diligente gestione. Gli obblighi di conservazione dell’integrità patrimoniale rappresentano, infatti, «solo un modo di atteggiarsi dello stesso obbligo generale di diligente gestione rapportato al generico interesse dei creditori a non vedere diminuita la garanzia patrimoniale», dovendo, di conseguenza, essere letti in chiave dinamica e produttivistica. Cfr., in tal senso, F. Brizzi, Crisi di impresa e doveri di gestione nelle società di capitali, Napoli, 2010, 62 e 63.

[56] In effetti, come rilevato da D. Galletti, op. ult. cit., 19, se da un lato, è perfettamente lecito, se non addirittura doveroso, che gli amministratori tentino una ristrutturazione alternativa all’esecuzione collettiva, quando il prevedibile esito della prima sia più favorevole per i creditori, dall’altro, è altrettanto vero che il dovere di diligente gestione che incombe sugli stessi amministratori ricomprende anche la tutela dell’aspettativa di recupero dei predetti creditori; regola, quest’ultima, che affonda le proprie radici, per quanto riguarda le società per azioni, nel disposto dell’art. 2394 c.c., «laddove, quanto alle s.r.l., il problema sarà costituito dalla ricognizione più dell’esistenza di un principio sostanziale omologo, che di una legittimazione del curatore ad azionare tali ragioni».

[57] Così R. Sacchi, op. cit., 314 e 315. Al riguardo, non deve, in effetti, essere dimenticato che la riforma del diritto societario ha «spostato il baricentro del meccanismo della responsabilità» dalla diligenza – tipica di un giudizio statico che si pone l’obiettivo di appurare la conformità di un atto ad una fattispecie tipica – all’adeguatezza dell’organizzazione, quale concetto dinamico e proprio di una valutazione dell’impresa in termini di attività, con l’ulteriore precisazione che un assetto organizzativo non può considerarsi adeguato se del tutto slegato da un’idonea pianificazione strategica. Per un approfondimento sul punto, v. D. Galletti, op. ult. cit., 20 e 21.

[58] La diversità di obiettivi che contraddistingue il diritto societario da quello concorsuale, è tema non sconosciuto ai più recenti contributi dottrinali. E’ noto, infatti, come la normativa societaria consideri prevalente l’interesse positivo dei soci alla massimizzazione del profitto rispetto a quello, negativo e secondario, dei creditori sociali ad evitare che tale massimizzazione sia perseguita anche con mezzi in grado di pregiudicare le loro ragioni di credito e, pertanto, la garanzia patrimoniale, mentre nel sistema fallimentare a prevalere sia l’interesse, positivo, dei creditori a massimizzare il proprio soddisfacimento rispetto a quello, negativo, dei soci a veder pregiudicata la residuale pretesa a conseguire o, meglio, a conservare l’eventuale valore netto positivo del patrimonio sociale. In argomento, cfr. G. Ferri jr., op. cit., 488 e 489.

[59] Concorda nel ritenere che, nella selezione e conformazione degli strumenti di composizione negoziale della crisi d’impresa, l’interesse del ceto creditorio assuma un ruolo primario, mentre «quello dei soci degrada a limite dell’azione della società», R. Sacchi, op. cit., 318 e 319, il quale non manca, in effetti, di sottolineare come, nelle imprese in crisi, l’interesse dei creditori acquisti un rilievo particolare, dal momento che, poiché il capitale di rischio è eroso dalle perdite, i soci sono propensi ad accettare ed incentivare iniziative gestionali anche molto speculative che, se mostratesi vincenti, possono reintegrare, in tutto o in parte, il capitale di rischio, ma che se non vanno a buon fine, generano effetti neutri per i soci stessi, che hanno già perso il capitale investito, penalizzando invece il ceto creditorio, il quale vede ridursi, se non addirittura azzerarsi, la percentuale di soddisfacimento dei propri crediti. Anche V. Calandra Buonaura, op. cit., 2595, pone l’accento sulla centralità che assume, con l’insorgere della crisi, la tutela del ceto creditorio e sulla conseguente compressione della posizione proprietaria dei soci.

[60] In questi termini si esprime A. Penta, Il concordato preventivo con continuità aziendale: luci ed ombre, in Dir. fall. 2012, I, 679.

[61] Così M. Vitiello, op. cit., 3; il connubio raggiunto dal legislatore riformante fra l’esigenza di dover favorire le soluzioni non liquidatorie della crisi d’impresa, da un lato, e la necessità di garantire comunque il miglior soddisfacimento dei crediti, è messo in luce anche da L. Tronci, Perdita della continuità aziendale e strategie di risanamento, in Giur. comm. 2013, I, 1287 e 1288.

[62] Così A. Patti, Il miglior soddisfacimento dei creditori: una clausola generale per il concordato preventivo?, in Il fallimento 2013, 1099 e 1100.

[63] Sul punto, R. Tizzano, L’indeterminatezza del giudizio di miglioria e l’attestazione ex art. 186 bis, comma secondo, lett. b), l. fall., in Il fallimento 2014, 138, rileva come quello del “miglior soddisfacimento dei creditori” costituisca un indispensabile quanto inevitabile presupposto – o «precondizione» che dir si voglia – allorquando il ceto creditorio è chiamato ad assumersi, al pari di quanto avviene nel concordato preventivo con continuità aziendale, un nuovo e differente rischio d’impresa ed, in particolar modo, ad accettare un rischio, definibile «di prima linea», nella prosecuzione della gestione imprenditoriale, in quanto implicante, di norma ed in varia misura, il finanziamento della gestione medesima, sì da supplire ad un capitale sociale nella maggior parte dei casi «completamente perduto».

[64] In questi termini si vedano C. Cincotti – F. Nieddu Arrica, op. cit., 1250.

[65] In modo del tutto speculare, sino a quando persiste lo squilibrio economico-finanziario, gli amministratori non possono porre in essere atti o operazioni non previsti dal piano, eccezion fatta per quelli di ordinaria amministrazione, dal momento che il piano «produce effetti vincolanti non dissimili da quelli imposti dai covenants in quanto preclude atti o operazioni di natura straordinaria o dismissoria ivi non contemplati». Così C. Cincotti – F. Nieddu Arrica, op. cit., 1267 e 1268, a cui si rinvia per ulteriori riferimenti dottrinali in tema di covenants.

[66] Il rinvio è a G. Strampelli, op. cit., 656.

[67] Cfr. R. Sacchi, op. cit., 321. Anche R. Rordorf, op. cit., 673, che considera il piano il “faro” che deve guidare, dopo la presentazione di una domanda di concordato preventivo o di omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti, l’operato degli amministratori, i quali devono rispettare altresì il regime autorizzatorio tipico del procedimento concordatario. Analogamente, G. Strampelli, op. cit., 655, non nutre dubbi sul fatto che, dopo la presentazione della domanda per così dire “piena” di concordato preventivo, la gestione degli amministratori debba conformarsi alle previsioni del piano attestato da un esperto indipendente, nonché al disposto dell’art. 167 l. fall.

[68] Il rinvio è a R. Sacchi, op. cit., 321.

[69] V. C. Cincotti – F. Nieddu Arrica, op. cit., 1251, i quali reputano, in particolare, che gli amministratori possano compiere gli atti di ordinaria amministrazione, nonché quelli di straordinaria amministrazione ove autorizzati ai sensi dell’art. 161, settimo comma, l. fall., quale strumento di coordinamento fra le esigenze aziendali e quelle di tutela del ceto creditorio.

[70] Sul punto si veda G. Strampelli, op. cit., 660 e 661.

[71] Così R. Sacchi, op. cit., 328.

[72] Si veda nuovamente R. Sacchi, op. cit., 321, il quale sottolinea come, in sede di predisposizione della domanda ex art. 161, sesto comma, l. fall., gli amministratori debbano scegliere se optare per l’ipotesi “in bianco” che concede loro massima libertà nell’individuazione delle caratteristiche della proposta e del piano, limitando però la gestione della società, ovvero quella “in bianco e nero” che li vincola sì nella predisposizione della proposta e del piano, ma consente loro un maggior raggio d’azione. Scelta, quella testé descritta, che gli amministratori devono compiere sulla base delle possibilità di anticipare, sin dal deposito della domanda prenotativa, taluni aspetti della proposta e del piano, prediligendo l’opzione “in bianco e nero” laddove siano orientati verso una proposta di concordato con continuità aziendale, rispetto alla quale può risultare necessario, nel periodo di tempo intercorrente fra la presentazione della domanda e l’ammissione alla procedura concordataria, porre in essere atti urgenti di straordinaria amministrazione, pagare debiti di fornitori strategici anteriori al deposito della domanda stessa, ovvero contrarre finanziamenti ex art. 182-quinquies, primo comma, l. fall.

[73] Si veda, in tal senso, G. Strampelli, op. cit., 656.

[74] Così D. Galletti, Gli obblighi degli organi sociali dopo il deposito della domanda di concordato o di omologazione di accordo di ristrutturazione, cit. Sul tema della responsabilità degli amministratori dopo la presentazione della domanda “protettiva” di concordato preventivo si veda anche il Consiglio Notarile di Firenze, op. cit., il quale reputa che, in pendenza della procedura concordataria, i criteri di gestione del patrimonio sociale non possano che essere che quelli “scanditi” dalla procedura stessa, sicché i suddetti amministratori potrebbero essere ritenuti responsabili non per aver gestito una società con un patrimonio netto inferiore al minimo legale, bensì per aver dato corso ad una gestione che viola le regole del concordato e che si pone in contrasto con gli interessi del ceto creditorio che quest’ultima vuole proteggere, specificando altresì che siffatta responsabilità potrebbe insorgere anche in ipotesi di non omologazione del concordato a seguito di mancata ammissione alla procedura, di revoca dell’ammissione, di mancata approvazione della proposta concordataria ovvero di mancata omologazione.

[75] Precisa, addirittura, che qualora l’impresa debitrice fornisca, nell’ambito della domanda prenotativa di concordato ai sensi dell’art. 161, sesto comma, l. fall., anticipazioni circa il futuro contenuto della successiva proposta e piano dotate di un sufficiente grado di specificità e univocità – limitando, di conseguenza, il proprio raggio d’azione nel confezionare questi ultimi due documenti – eventuali scostamenti significativi da siffatte anticipazioni, se non sorretti da serie e valide giustificazioni riconducibili a circostanze non prevedibili a priori, potrebbero essere considerati atti in frode ai creditori, R. Sacchi, op. cit., 316 e 317. In particolare, secondo il citato autore, potrebbe sussistere una responsabilità dell’organo gestorio nel caso in cui nella predetta domanda prenotativa di concordato fosse prospettabile una proposta di concordato con continuità aziendale, richiedendo l’autorizzazione ex art. 182-quinquies, quarto comma, l. fall. al pagamento di crediti anteriori di un fornitore illustrato come strategico per la prosecuzione dell’attività d’impresa e sulla scorta di tale prospettazione fosse stata rilasciata l’attestazione e concessa l’autorizzazione del Tribunale. Qualora, in effetti, la domanda prenotativa di un successivo concordato in continuità aziendale dovesse poi sfociare, in realtà, in un concordato liquidatorio, senza addurre valide ragioni a sostegno di un siffatto scostamento gli amministratori, ove venisse poi dichiarato il fallimento, potrebbero, se non si sono dissociati nelle forme previste dall’art. 2392, terzo comma, c.c., essere chiamati a rispondere dei danni arrecati alla massa dei creditori per il ritardo nella dichiarazione di fallimento e di quelli provocati ai creditori diversi dal fornitore pagato a seguito del pagamento preferenziale di quest’ultimo.

[76] Anche V. Calandra Buonaura, op. cit., 2596, osserva come l’interesse dei creditori alla conservazione del valore patrimoniale della società ed a non essere esposti ad ulteriori rischi di perdita dei propri crediti, la cui tutela è rimessa all’organo amministrativo, affondi le sue radici nel principio di corretta amministrazione di cui all’art. 2497 c.c., negli obblighi di conservazione dell’integrità del patrimonio sociale sanciti dall’art. 2394 c.c. e, al verificarsi di una causa di scioglimento, dall’art. 2486 c.c. Ne consegue che, già prima di assumere decisioni inerenti alla composizione della crisi ed a prescindere dal verificarsi di una causa di scioglimento che imponga una gestione di stampo conservativo, l’operato degli amministratori dovrà necessariamente tendere alla protezione dei creditori non proponendo o adottando decisioni, o, ancora, dando esecuzione a deliberazioni assembleari in grado alterare, a discapito dei creditori stessi, l’equilibrio finanziario o il valore patrimoniale della società.

[77] Cfr. F. Lamanna, op. ult. cit., 32.

[78] Già nel vigore della previgente disciplina si riteneva, infatti, che la risoluzione per inadempimento del concordato preventivo con cessione dei beni ai creditori, salvo che quest’ultimo contenesse un patto espresso di immediata e totale liberazione del debitore, ben potesse essere dichiarata anche prima del compimento delle operazioni di liquidazione dell’attivo concordatario nell’ipotesi in cui fosse emerso, secondo il prudente apprezzamento del Giudice del merito, che il concordato medesimo era venuto meno alla sua funzione, essendo ragionevolmente prevedibile che le somme ricavate dalla vendita dei beni ceduti fossero del tutti insufficienti, per cause originarie o sopravvenute, da un lato a corrispondere una minima percentuale ai creditori chirografari, e, dall’altro, a pagare integralmente quelli di rango privilegiato. In tal senso si veda, per la giurisprudenza di legittimità, Cass. 21 gennaio 1993, n. 709, in Il fallimento 1993, 807; Cass. 3 novembre 1981, n. 5790, in Foro. it. 1983, I, 1092; Cass. 25 marzo 1976, n. 1073, in Dir. fall. 1976, II, 297; e quali obiter dictum Cass. 7 giugno 2007, n. 13357, in Foro it. 2007, I, 3404 e 3405; Cass. 5 giugno 1967, n. 1223, ivi, 1967, I, 1417 e 1418, con nota di G. Petrocelli.

Con l’avvento della riforma della legge fallimentare la validità dell’indirizzo riportato in testo è stata confermata, dopo l’entrata in vigore dell’atto primo della novella, da V. Vitalone, Il nuovo concordato preventivo. Commento alle novità introdotte dal decreto «competitività», Milano, 2005, 182, il quale non ha mancato di ribadire come l’impossibilità di pagare in toto i creditori assistiti da privilegio generale costituisca causa di risoluzione del concordato senza nemmeno dover attendere l’integrale liquidazione del patrimonio ceduto ove emerga l’oggettiva inadeguatezza di quest’ultimo ad assicurare il soddisfacimento della suddetta tipologia di creditori; nonché, prima dell’entrata in vigore del d. lgs. n. 169/2007, da Trib. Roma 14 marzo 2007, in Il fallimento 2007, 1206 e ss., con nota di G. Rago, La risoluzione del concordato preventivo fra passato, presente e … futuro, il quale ha, altresì, sottolineato come il giudizio in ordine alla risolvibilità di un concordato preventivo, anche nell’ipotesi in cui quest’ultimo contempli la cessione dei beni ai creditori, debba ora essere condotto avendo quale unico punto di riferimento il mancato raggiungimento degli obiettivi fissati dal piano di ristrutturazione dei debiti, dal momento che la suddetta cessione dei beni, inserita nell’ambito di tale documento programmatico, rappresenta oggi semplicemente una modalità per perseguire gli obiettivi che l’imprenditore in crisi si è prefissato, con la quanto mai ovvia conseguenza che la procedura in oggetto deve essere risolta qualora la stessa, indipendentemente dalla percentuale di soddisfacimento dei creditori, non abbia ottenuto i risultati prospettati nella proposta concordataria.

[79] Successivamente all’ammissione alla procedura concordataria ed all’omologazione di quest’ultima, il Collegio sindacale permane, infatti, nella pienezza delle proprie funzioni che continuerà, pertanto, a svolgere regolarmente: gli organi nominati nel corso della procedura si affiancano a quelli societari, con la conseguenza che gli organi sociali di controllo coesistono con quelli di nomina tribunalizia, ossia il Commissario giudiziale ed, in caso di concordato preventivo con cessione dei beni, il Liquidatore. Cfr. sul punto la norma n. 11.5. Vigilanza del Collegio in caso di concordato preventivo ex art. 160 l.f., contenuta nelle Norme di comportamento del Collegio sindacale, elaborate dal Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili, nel testo in vigore dal 1° gennaio 2012. In dottrina, anche V. Calandra Buonaura, op. cit., 2601, osserva come, nel corso di un concordato preventivo ovvero di un accordo di ristrutturazione dei debiti, le competenze e le prerogative degli organi sociali non vengano meno, ponendosi semmai un problema di compatibilità del loro esercizio con gli obiettivi della procedura e, con specifico riferimento al concordato preventivo, con il controllo del Giudice sugli atti di straordinaria amministrazione ex art. 167 l. fall.

[80] Anche se non è tenuto ad esprimersi sul merito dello stesso, il Collegio sindacale deve, in effetti, vigilare sul corretto adempimento del piano concordatario, dovendo, a tal fine, prendere conoscenza della proposta concordataria formulata dalla società, al pari di quanto precisato dalla norma n. 11.5. Vigilanza del Collegio in caso di concordato preventivo ex art. 160 l.f., cit.

[81] E’ questa una valutazione che sconta tutte quelle incertezze che di norma contraddistinguono le scelte imprenditoriali e che sfocia in un giudizio in ordine ai requisiti di diligenza e correttezza delle iniziative intraprese dall’organo amministrativo rispetto al particolare contesto in cui si è venuta a trovare la società. Così A. Jorio, Crisi d’impresa e controlli interni, in Il nuovo diritto delle societàLiber amicorum Gian Franco Campobasso, diretto da P. Abbadessa – G.B. Portale, vol. 3, Torino, 2007, 78 e 79, che soggiunge come, nelle situazioni di crisi, i poteri-doveri dei sindaci e le relative responsabilità, all’interno della società e con riguardo ai rapporti con gli altri organi sociali, permangano inalterate, semmai accentuandosi. Infatti, se il dovere dei sindaci di presentare un esposto al Pubblico ministero permane solo in relazione a quelle ipotesi in cui la reazione degli amministratori alla crisi dell’impresa sociale presenta connotati penalmente rilevanti e, comunque, esclusivamente in presenza dell’insolvenza, la responsabilità dei sindaci medesimi emerge tutte le volte in cui questi ultimi vengano meno al dovere di monitorare in modo adeguato l’andamento economico-finanziario e la condizione patrimoniale della società, non si siano sufficientemente attivati presso gli altri organi sociali al fine di addivenire all’adozione di interventi idonei al superamento della crisi d’impresa e non abbiano valutato con un’ottica sufficientemente imprenditoriale le misure poste in essere dall’organo gestorio per il superamento delle difficoltà.

[82] Il rinvio è a S. Poli, op. cit., 1356.

[83] Come S. Poli, op. cit., 1352 ss., deduce da una lettura congiunta degli artt. 2380-bis c.c., 152 e 161 l. fall., i quali attribuiscono all’organo amministrativo, sebbene con precetto «espressamente dispositivo, le competenze in materia di concordati». Peraltro, fermo restando l’obbligo di addivenire ad una tempestiva attivazione di uno dei rimedi approntati dal legislatore, il sopra citato autore – muovendo dalla premessa di carattere generale in forza della quale anche in caso di crisi i doveri fiduciari degli amministratori continuano ad avere, quali principali destinatari, i soci, mentre l’interesse del ceto creditorio opera quale limite esterno, «(con impatto direttamente proporzionale alla gravità della crisi) ai margini di discrezionalità tecnica dei manager nel darvi attuazione» – ritiene che, rispetto al modo con cui gli amministratori intendono affrontare la crisi, riemergano dei profili di discrezionalità tecnica riconducibili, anche nell’eventualità in cui la scelta si dovesse poi rivelare errata, alla business judgement rule, «salva l’applicazione del canone di diligenza professionale introdotto dalla riforma che, secondo la giurisprudenza, comporta, in sostanza, che le scelte macroscopicamente imperite risultino anche negligenti».

E’ questa un’opzione interpretativa che, per stessa ammissione del Poli, non è per nulla pacifica in dottrina. Così, ad esempio, P. Montalenti, op. cit., 826 e 827, reputa che la scelta fra le diverse soluzioni operative – piano attestato, concordato preventivo, accordi di ristrutturazione dei debiti e così via – non sia del tutto discrezionale, ben potendo la stessa essere valutata sulla scorta di parametri di correttezza basati, rispettivamente, sulla ragionevolezza del piano, sull’attuabilità dell’accordo e sulla fattibilità del piano di concordato. Secondo il citato autore, infatti, nel momento in cui l’imprenditore deve ricorrere a strumenti di prevenzione o di composizione della crisi d’impresa la discrezionalità del suo agire incontra, quale limite, l’interesse del ceto creditorio, sicché «la conservazione dell’impresa si configura certamente come interesse al mantenimento dello scopo lucrativo ma nel limite di una migliore protezione dell’interesse dei creditori»: la scelta di quale “strada” tentare di percorrere in ipotesi di crisi non è, quindi, affidata alla discrezionalità insindacabile dell’imprenditore, ma alla sua discrezionalità tecnica assistita dalla valutazione qualificata di un professionista esperto, la centralità della cui presenza ed attestazione riduce notevolmente, salvo i casi di dolo o colpa grave imputabili ad entrambi, «il perimetro della potenziale responsabilità dell’imprenditore per erroneità della scelta dello strumento adottato per fronteggiare la crisi».

Anche A. Mazzoni, op. cit., 839 e 840, considera inevitabile, a fronte di un’insolvenza irrimediabile – che preclude, per legge, la possibilità di considerare soluzioni della crisi d’impresa differenti dall’apertura di una procedura concorsuale – il venir meno di quella discrezionalità tecnica di valutazione di cui godono, di norma, gli amministratori anche in caso di un’impresa priva della prospettiva della continuità ma non ancora insolvente. Il che significa, che il dovere di corretta gestione imprenditoriale impone agli amministratori di una società già insolvente di attivare la regolazione giurisdizionale dell’insolvenza, residuando un margine di apprezzamento in ordine a quale adottare fra le due procedure che hanno in comune il presupposto dell’insolvenza irreversibile: fallimento e concordato preventivo. Si tratta, ad ogni modo, di un «margine interno a quella traslazione di campo che l’impresa non può evitare» e che si concreta nel dovere degli amministratori di attivare la supervisione giudiziaria o amministrativa sulla nuova gestione concorsuale dell’impresa.

In modo non del tutto dissimile, F. Brizzi, La mala gestio degli amministratori in prossimità dello stato di insolvenza e la quantificazione del danno risarcibile, in Giust. civ. 2009, 2441 ss., ove ulteriori richiami in dottrina, ritiene che, in prossimità o prevedibilità dello stato di insolvenza, siano i creditori, e non anche i soci, i soggetti maggiormente interessati alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale, essendo più esposti alle eventuali conseguenze negative di un prosecuzione dell’attività imprenditoriale. Il che fa sì che, nella fattispecie in esame, il giudizio di conformità della gestione dell’impresa ai canoni della diligenza professionale postuli una valutazione in ordine alla ragionevolezza delle scelte operate dagli amministratori rispetto alla categorie di soggetti che potrebbero essere maggiormente danneggiate. E’ questo un «diverso modo di operare della regola della business judgement rule in prossimità dell’insolvenza», che si verifica se si ammette che nel giudizio di responsabilità degli amministratori possa svolgere un ruolo importante la mancata considerazione degli interessi dei creditori. Ne consegue che la verifica della legittimità delle scelte gestorie degli amministratori richiederà una valutazione nel merito delle stesse, operata sulla base delle sole circostanze conoscibili a priori e non sul loro eventuale esito negativo.

Da ultimo, anche L. Stanghellini, La crisi di impresa fra diritto ed economia, Bologna, 2007, 40, 41 e 45, ha rilevato un serio problema in ordine al controllo dell’impresa allorquando quest’ultima si trovi ad operare in condizioni di crisi in grado di pregiudicare l’adempimento dei debiti. Infatti, se in condizioni di normale esercizio il ceto creditorio è del tutto estraneo al controllo dell’impresa, in ipotesi di insolvenza, sorgono in capo agli amministratori precisi obblighi di protezione nei confronti dei creditori, essendo alquanto chiaro che, nell’ipotesi ora al vaglio, «il cordone ombelicale che lega gli amministratori agli azionisti deve essere reciso», dovendo gli amministratori divenire «i gestori dell’impresa nell’interesse dei creditori» stessi.

[84] Al pari di quanto precisato anche da S. Poli, op. cit., 1354, che trae quest’ultima conclusione dalla considerazione che scelte macroscopicamente imperite sono contrarie al canone di diligenza che deve guidare l’operato dell’organo amministrativo (si veda al riguardo la nota che precede). Dal punto di vista degli strumenti di reazione, il citato autore precisa poi che, se la scelta compiuta dagli amministratori e ritenuta illegittima dal Collegio sindacale dovesse sfociare in una delibera consigliare – a titolo meramente esemplificativo ai sensi degli artt. 152 e 161 l. fall. – il Collegio stesso potrebbe o, forse, dovrebbe esercitare l’impugnativa prevista dall’art. 2388, quarto comma, c.c.

[85] Per la dottrina si veda L. Boggio, op. cit., 880 ss., il quale rileva, in effetti, come, anche in caso di concordato preventivo, l’organo di controllo mantenga inalterate tutte le sue funzioni di rilevanza endosocietaria, rispetto alle quali non si può quindi prospettare alcuna sovrapposizione con quelle degli organi della procedura. Allo stesso modo, secondo il citato autore, l’organo di controllo conserva intatte le proprie funzioni di rilevanza extrasocietaria, ossia d’interesse per i terzi o, comunque, incidenti in modo diretto sulle posizioni di questi ultimi, i quali possono quindi beneficiare, oltre che delle garanzie offerte dal diritto societario, anche di quelle riconnesse alla figura del Commissario giudiziale; nonché G. Lo Cascio, Il concordato preventivo, Milano, 2007, 426, che mette in evidenza come, nel concordato preventivo delle società, i relativi organi continuino ad esercitare regolarmente le proprie funzioni, e ciò anche nell’eventuale successiva fase di liquidazione dei beni, trattandosi di concordato per cessione dei beni.

[86] Il tutto muovendo dalla considerazione che l’obbligo di riservatezza che incombe sui sindaci non riguardi anche il flusso informativo verso il Commissario giudiziale e, più in generale, gli organi della procedura, il cui operato mira a tutelare l’interesse del ceto creditorio. Cfr. S. Poli, op. cit., 1359 e 1360. Contra L. Boggio, op. cit., 882 e 883 che considera non solo legittimo, ma doveroso, a fronte di una richiesta di informazioni avanzata dal Commissario giudiziale – e, pertanto, da un organo terzo estraneo alla società – un eventuale diniego degli organi di controllo, soprattutto se la divulgazione delle informazioni richieste potrebbe arrecare un pregiudizio alla società. Verrebbe meno, invece, ai compiti assegnatogli quel Commissario giudiziale che, a conoscenza di informazioni utili e/o necessarie all’espletamento delle funzioni di controllo interno assegnate agli organi endosocietari, non trasmettesse tali informazioni agli organi di controllo interno della società in concordato preventivo, quando ciò possa imporre a questi ultimi di attivare «rimedi endosocetari funzionali ad assicurare la salvaguardia anche degli interessi dei creditori sociali».

[87] Così S. Poli, op. cit., 1361 e ss., il quale con riferimento alla fase esecutiva del concordato liquidatorio si affretta a precisare che le funzioni di vigilanza del Collegio sindacale sono affievolite dalla gestione diretta della fase attuativa posta in essere dai quei due organi di nomina tribunalizia, che sono il Liquidatore giudiziale ed il Comitato dei creditori, tant’è che a tale ruolo più marginale dei sindaci corrispondono rimedi che non sono più quelli di diritto societario, bensì quelli approntati dal sistema concorsuale: la segnalazione al Tribunale o al Comitato dei creditori anche al fine di attivare, nei casi più gravi, la revoca del Liquidatore per giusta causa ex art. 37 l. fall. (richiamato dall’art. 182 l. fall.) o la sostituzione dei componenti del Comitato dei creditori ai sensi dell’art. 40 l. fall. (anch’esso richiamato dal predetto art. 182 l. fall.). Per l’autore sembra, in effetti, da escludere che il complesso sistema di rinvii possa consentire al Collegio sindacale di promuovere un azione di responsabilità nei confronti del Liquidatore revocato (art. 39 l. fall.) e dei componenti del Comitato dei creditori (art. 41 l. fall.), salva la possibilità di segnalare al Tribunale ed al nuovo Liquidatore le circostanze che potrebbero giustificare una simile proposizione.

[88] Il rinvio è ancora a S. Poli, op. cit., 1362 e 1363.


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