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Approfondimenti

La governance del rischio di liquidità

21 Maggio 2014

Avv. Vincenzo M. Dispinzeri, Annunziata & Conso – Studio Associato

Premessa

Il rischio di liquidità, nelle sue varie forme di manifestazione, ha per sua natura forti interrelazioni con le altre tipologie di rischio alle quali gli intermediari sono esposti (di credito, di concentrazione, di mercato, operativo e reputazionale).

La corretta gestione del rischio di liquidità richiede inoltre il coinvolgimento di molteplici aree aziendali, sia operative che di controllo, una compartecipazione delle figure apicali dell’esecutivo e un consapevole indirizzo da parte degli organi sociali.

Gli studi condotti negli anni recenti, soprattutto a seguito della crisi finanziaria del 2008-2009, hanno fatto emergere come nell’industria bancaria non esista un vero e proprio benchmark e come le best practices siano in costante evoluzione, traendo impulso da fattori contingenti, non ultimi quelli rappresentati dai principi enunciati dai regulators, a loro volta ispirati dalle variabili di contesto.

Tuttavia appare evidente come l’approccio alla governance possa variare a seconda del modello di business e della complessità operativa, dimensionale e geografica (es. multivalutaria). È chiaro infatti che l’approccio gestionale debba essere più consapevole e profondo laddove gli intermediari adottino ad esempio un modello “Originate and Distribute1 piuttosto che nei casi di operatività di intermediazione creditizia tradizionale. Il principio di proporzionalità richiamato al riguardo dalle autorità di vigilanza consente agli intermediari un certo margine di manovra.

1. La governance

Prescindendo dalle variabili legate al modello di business, la gestione del rischio di liquidità presuppone la composizione di diversi elementi quali:

  • Il modello di governance;
  • Il sistema dei limiti operativi;
  • Le metodologie di misurazione in condizioni normali e avverse (stress test);
  • Processi gestionali (es. pianificazione finanziaria, budgeting, sistema di ALM);
  • Piani di emergenza (Contingency Funding Plan);
  • Attività di controllo;
  • Reporting interno e disclosure al mercato.

La definizione del modello di governance rappresenta quindi il primo passo per la realizzazione di un sistema di gestione del Liquidity Risk. In realtà, il modello di governance è un insieme che contiene tutti gli elementi gerarchicamente subordinati (limiti, metodologie, processi, CFP, controlli e reporting) ma – e soprattutto – li determina e li indirizza: la governance non è altro che l’insieme di obiettivi, struttura, attribuzioni, la cui composizione deriva dall’indirizzo dell’organo di supervisione strategica, il cui ruolo è chiaramente definito dalla normativa di vigilanza (cfr infra).

Si faceva cenno sopra al principio di proporzionalità: a seconda delle dimensioni operative della banca, a fianco agli organi aziendali necessariamente coinvolti (organo di supervisione strategica, organo di gestione, organo di controllo, funzioni di controllo, tesoreria) possono coesistere diverse unità, che vanno dall’Asset and Liability Committee (normalmente con funzione consultiva a beneficio del cda), al comitato ALM (con funzioni esecutive e di coordinamento), al Comitato rischi (coinvolto nella definizione dei limiti e nella verifica del loro rispetto).

Nei gruppi bancari, tema tradizionalmente sensibile è quello della scelta di una governance della liquidità accentrata, piuttosto che decentrata. Per i gruppi con operatività cross border (chiaramente quelli più interessati all’argomento) i fattori di orientamento sono tipicamente legati al grado di operatività multivalutaria e all’esistenza di limiti alla trasferibilità e alla localizzazione degli asset e della liquidità.

I principali pregi dei sistemi centralizzati sono stati così individuati2:

  • utilizzo più efficiente della liquidità di gruppo;
  • possibilità di ottenere fondi a condizioni più favorevoli;
  • maggiore coordinamento in situazioni di crisi;
  • creazione di valore attraverso il raccordo di expertise locali;
  • maggiore trasparenza verso gli stakeholders esterni.

Quelli dei modelli decentralizzati sono i seguenti:

  • maggiore calibrazione delle strategie nel contesto locale;
  • responsabilizzazione del management locale;
  • maggiore autosufficienza delle unità locali in caso di crisi;
  • maggiore resilienza del modello a fenomeni di crisi (es. barriere locali che potrebbero anche tutelare le unità locali).
  • Nell’approccio centralizzato, le policy, gli standard e i processi gestori sono definiti a livello di gruppo e la posizione di liquidità viene determinata a livello consolidato.

Conseguentemente, gli elementi del processo sono determinati a livello centrale (metodologie, limiti – anche individuali, controlli, CFP ecc.)

Nell’approccio decentralizzato, invece viene di norma determinato un set minimo di standard a livello di gruppo e servizi di supporto (es. funzione di Risk management) ma coesistono tesoreria di gruppo e tesorerie individuali, sebbene in stretto raccordo funzionale e informativo. Va da sé come un decentramento totale non sia compatibile con le logiche della vigilanza consolidata. Occorre tra l’altro considerare come gran parte dei pregi del modello decentrato possano essere preservati da un modello accentrato che tenga conto anche delle peculiarità dei contesti locali. Questa sembrerebbe la strada preferita dai regulators.

Nella circolare della Banca d’Italia n. 263/06 (4° aggiornamento) è infatti chiaramente indicato che le capogruppo di gruppi bancari debbano rispettare su base consolidata le disposizioni in tema di governo e gestione del rischio di liquidità. Viene inoltre specificato che nel caso di gruppi, le decisioni strategiche in materia di gestione del rischio di liquidità “sono rimesse agli organi aziendali della capogruppo che, nellesercizio delle proprie funzioni, tengono conto della complessiva struttura del gruppo e dei rischi a cui esso è esposto. Si parla di “Organi”, ma verosimilmente le decisioni strategiche di cui si tratta sono di competenza dell’organo – appunto – con funzione di supervisione strategica.

La discrezionalità nella scelta di accentrare o decentrare3 incontra quindi un forte limite nella determinazione strategica, che – potremmo aggiungere “ovviamente” – è riservato all’organo di supervisione strategia della capogruppo. La Capogruppo (in questo caso con tutti i propri organi aziendali per le rispettive competenze) è chiamata inoltre a: i) fissare la soglia di tolleranza al rischio di liquidità e verificare periodicamente la coerenza del sistema di articolazione delle soglie di tolleranza eventualmente stabilite per le controllate con quella complessiva; ii) verificare l’affidabilità complessiva del sistema di gestione del rischio di liquidità.

Fatta questa naturale premessa, il regulator afferma che, indipendentemente dall’adozione di un modello di gestione accentrata o di gestione decentrata del rischio di liquidità, il gruppo deve assicurare il mantenimento nel tempo di riserve adeguate presso tutte le unità, in modo da tenere conto di eventuali vincoli di natura normativa e delle peculiarità dimensionali e operative delle controllate estere. In altri termini, la gestone accentrata deve necessariamente considerare il “punto di vista” delle entità periferiche.

L’approccio del regulator è particolarmente precettivo in materia di stress test: le II di VV dicono che nei gruppi bancari le prove di stress vanno effettuate sia su base consolidata che su base individuale. Nell’ambito di gruppi caratterizzati da una gestione accentrata del rischio di liquidità, lo svolgimento di prove di stress solo a livello accentrato è consentito “a condizione che ciò sia coerente con il modello organizzativo e gestionale adottato, siano colte in maniera adeguata le specificità del profilo di rischio di ciascun componente del gruppo (inclusa leventuale operatività allestero), sia consentito anche agli organi aziendali di tali componenti di conoscerne prontamente i risultati, si tenga conto, nellesercizio di stress, di eventuali ostacoli al trasferimento della liquidità allinterno del gruppo”.

In sintesi: a prescindere dal modello operativo, la governance dei gruppi è fortemente accentrata ma deve avere un focus particolare sulle possibili problematiche locali (per le banche con operatività crossborder). L’eccezione è rappresentata in qualche mododall’approccio agli stress test, per i quali la regola è quella del “doppio binario”, con la possibilità di scegliere l’accentramento quale alternativa condizionata.

La governance del rischio di liquidità presuppone che le scelte strategiche, le manovre correttive e le azioni “di risposta” si basino su flussi informativi continui e adeguati e che seguano non solo percorsi verticali, ma anche trasversali, quindi a livello di tutte le funzioni coinvolte nel processo di governo del rischio di liquidità. Un sistema di reporting adeguato deve essere basato su un set di dati e una infrastruttura IT efficace, al fine di supportare correttamente il sistema di governo e gli elementi metodologici, consentendo la misurazione, il monitoraggio e la gestione dei rischi cui la banca è esposta.

Detto questo, da un recente studio di Protiviti4, emerge come le banche italiane “spesso utilizzano report prodotti manualmente, contenenti indicatori e metriche non omogenee o, comunque, non allineate alle effettive esigenze informative dei destinatari”.

Dice ancora Protiviti: “Per garantire che il sistema di reporting assolva al suo ruolo informativo nei confronti dellalta direzione, è necessario che gli indicatori e le metriche inserite nei report siano chiari, comprensibili e non eccessivamente tecnici, bensì in grado di evidenziare le fonti di rischio che potrebbero avere impatti significativi sul business.

Dall’analisi risulta inoltre la necessità che le banche realizzino significativi investimenti sulla propria struttura IT e che la diffusione delle informazioni non sia ancora adeguata (ad esempio, viene segnalato che spesso i risultati delle prove di stress non verrebbero presentati all’alta direzione). Un ulteriore profilo di attenzione riguarderebbe la non frequente inclusione nel sistema di reporting (immaginiamo non in quello agli organi aziendali) del costo del funding, che rappresenta invece oggi un elemento fondamentale per la responsabilizzazione delle strutture operative.

La governance del rischio di liquidità si basa – così si legge in vari documenti dei regulator – anche sulla disclosure al pubblico. Quindi informativa di bilancio (nota informativa, parte E)5 e terzo Pilastro.

Con riferimento al Pillar III, il CRR non impone alcun obbligo di disclosure in merito ai profili di liquidità e funding degli Enti6 con l’eccezione di quanto previsto dall’art. 439, comma 1, lett. d)7, e dall’art. 433. Il legislatore comunitario si è infatti posto sulla scia dell’Accordo di Basilea, nella consapevolezza che mai come in questa materia si possa parlare di trade-off. E’ evidente come l’esigenza di disclosure possa confliggere con quella della stabilità, rischiando di innescare effetti indesiderati. Nell’attuale quadro normativo sono quindi fuori dal Pillar III sia il net stable funding ratio sia il liquidity coverage ratio.

Tuttavia, la questione è in divenire e nel gennaio del 2014 il Comitato di Basilea per la Vigilanza Bancaria ha pubblicato il documento “Liquidity Coverage Ratio: requisiti di informativa pubblica”, che pur richiamando le connaturali ragioni di cautela, propone uno standard di informativa sull’LCR e invita le autorità nazionali alla sua adozione a partire dal Pillar III del 2016.

Rimanendo però nel campo delle norme già emanate ed efficaci nel nostro ordinamento in tema di funding, va considerato quanto enunciato dall’art. 443 del CRR che, più che disciplinare l’informativa sulle attività non vincolate, stabilisce un percorso per la definizione di forme e contenuti della stessa informativa. La norma si limita a stabilire che l’EBA dovrà emanare i propri orientamenti entro il 30 giugno 2014 (nel frattempo è stato pubblicato il 20.12.2013 il relativo documento di consultazione8) e proporre gli ITS entro il 1° gennaio 2016 per specificare l’informativa concernente “il valore di bilancio per classe di esposizione e suddiviso per qualità di attività”, tenendo conto della raccomandazione del Comitato Europeo per il Rischio Sistemico del 20 dicembre 20129.

Dalla disclosure sono tuttavia esclusi i rapporti di emergency liquidity assistance (ELA) in essere con la Banca Centrale e i collateral swap negoziati con la stessa, ciò al fine di evitare appunto “effetti indesiderati” nel rapporto con la clientela e le controparti e, quindi, di tutelare la stabilità delle banche.

2. I recenti interventi normativi

Con la crisi finanziaria degli anni 2008-2009, che ha portato ad una rarefazione della liquidità, è emerso come l’industria bancaria fosse impreparata ad adottare misure gestionali correttive idonee a fronteggiare scenari straordinari di crisi e, in ogni caso, inconsapevole della portata dei rischi di liquidità attraverso i quali si era mossa con apparente disinvoltura. In diversi casi i dissesti hanno avuto alla base proprio una scarsa percezione della multidimensionalità del rischio di liquidità e l’approccio gestionale è apparso inadeguato anche a causa di meccanismi di governance poco evoluti e scarsamente integrati. Ne è derivata l’esigenza, da parte delle Autorità di supervisione, di intervenire per rafforzare i presidi gestionali, anche alla luce dei risultati delle analisi condotte dal CEBS tra la fine del 2007 e il 200810, che avevano riguardato tutti i profili del rischio di liquidità, ivi compresi quelli relativi agli assetti organizzativi e di controllo e al ruolo degli organi con funzione di gestione e di supervisione strategica nonché ai compiti del management.

Nel contempo, il Comitato di Basilea aveva sottoposto a revisione i principi contenuti nelle “Sound Practices” per la gestione della liquidità pubblicate nel 200011. I principi, come rivisti nel 2010, rammentavano la necessità di:

  • determinare un appropriato risk appetite;
  • detenere un’adeguata riserva di attività con alto livello di liquidità;
  • allocare tutti i costi del funding tra le pertinenti unità di 
business;
  • predisporre piani operativi per la gestione delle situazioni di emergenza;
  • utilizzare severi scenari di stress;
  • favorire la disciplina di mercato attraverso un adeguato livello di disclosure.

Le misure correttive della CRD, quindi di Basilea 2, hanno pertanto avuto un focus particolare sulla gestione del rischio di liquidità, che diventa norma comunitaria attraverso la CRD II (dir. 2009/111).

Il passo finale per l’attuazione nell’ordinamento italiano della CRD II è stato la modifica della circolare 263/06, attraverso il 4° aggiornamento (dicembre 2010).

Nel 2010, prende anche avvio la riforma denominata Basilea 3, che ha tra i suoi connotati più evidenti l’introduzione di requisiti minimi vincolanti in materia di liquidità, la cui entrata in vigore avverrà gradualmente: l’LCR dal gennaio 2015 e l’NSFR dal 2018. Nel frattempo, dal giugno del 2014, le banche e le sim destinatarie del regolamento UE N. 575/2013 (CRR)12 sono tenute a segnalare su base individuale o consolidatagli elementi di calcolo dei requisiti.

Com’è noto, Basilea 3 è entrata in vigore dal 1° gennaio 2014, mediante il recepimento della direttiva CRD IV e l’emanazione del regolamento comunitario CRR.

Apparentemente, quest’ultima riforma, nei tre passaggi fondamentali che la compongono (Basilea 3, CRD IV e CRR) non sembrerebbe introdurre elementi di novità in tema di governance del rischio di liquidità. Alcuni spunti sono tuttavia contenuti negli artt. 86 e 88 della CRD IV (cfr infra); ulteriori riflessioni vengono sollecitate dalla lettura dei documenti del BCBS dedicati ai nuovi requisiti di liquidità e dall’analisi delle norme del CRR.

Occorre quindi partire dall’ultima riforma organica in tema di gestione del rischio di liquidità, (quella del 2010) rammentandone i punti cardine e vedere se e in che modo l’introduzione dei requisiti in materia di liquidità offra la chiave per una nuova lettura della normativa esistente.

Come detto, la Banca d’Italia ha introdotto una disciplina organica della gestione del rischio di liquidità attraverso il 4° aggiornamento della circolare n. 263/2006, emanato nel dicembre del 2010 e con il quale è stata recepita la direttiva comunitaria CRD II. L’introduzione di principi e obblighi in materia di liquidità era – si legge nel documento di consultazione – volta “ad orientare gli intermediari ad un maggiore rigore nella gestione di tale rischio e ad orientare il sistema verso losservanza dei vincoli che verranno imposti dal nuovo quadro normativo prudenziale internazionale…”.

Nel 4° aggiornamento della 263, la Banca d’Italia ha posto particolare enfasi sul ruolo degli organi aziendali:

– l’organo con funzione di supervisione strategica è chiamato a:

  • definire la soglia di tolleranza13 al rischio di liquidità e a mantenere un coerente livello di liquidità;
  • definire le politiche di governo e dei processi afferenti il rischio di liquidità;

– ad approvare:

  • la metodologia per determinare l’esposizione al rischio di liquidità;
  • le principali ipotesi sottostanti gli scenari di stress;
  • i piani di emergenza e i relativigli indicatori di attenzione;
  • i principi di definizione del sistema di Fund Transfer Pricing.

– l’organo con funzione di gestione è invece chiamato ad attuare e sviluppare, con il supporto della funzione di risk management e dell’eventuale comitato rischi/ALM, le strategie adottate dal cda, nella cornice definita dal livello di tolleranza al rischio di liquidità indicato dall’organo collegiale, curando i relativi flussi informativi.

– Infine, l’organo con funzione di controllo vigila sull’adeguatezza e sulla rispondenza del sistema di gestione e controllo dei rischi.

L’art. 86 della CRD IV ripropone sostanzialmente gli stessi temi già trattati dalla CRD II e, con l’art. 88, conferma il ruolo nodale dell’organo di supervisione strategica nella definizione degli obiettivi di rischio, della soglia di tolleranza e del processo di gestione del rischio, in coerenza con gli obiettivi strategici e le politiche di governo. Il 15° aggiornamento della circ. 263/06 “il sistema dei controlli interni”, non aggiunge elementi innovativi rispetto al 4°. Viene tuttavia richiamato un concetto che, laddove riferito al rischio di liquidità, appare di assoluta pertinenza: nell’ambito dei principi generali, è detto che il processo di gestione dei rischi debba essere “efficacemente integrato”; che il linguaggio aziendale relativo alla gestione dei rischi debba essere “comune”; che i modelli e i metodi di misurazione debbano essere tra di loro coerenti; che a reportistica debba favorire la comprensione e la corretta valutazione dei rischi; che debbano essere adottati presidi di coordinamento e pianificazione; che vengano realizzati flussi informativi su base continuativa tra le funzioni di controllo; che sussista condivisione nell’individuazione delle azioni di rimedio. Il 15° aggiornamento, inoltre si preoccupa di chiarire l’importanza del ruolo del Risk Manager a supporto delle decisioni di competenza degli organi collegiali, sia nella fase di definizione del RAF, sia in quella di verifica nel continuo. A tal proposito, viene precisato che il coinvolgimento del RM nei Comitati di liquidità o ALM non debba compromettere o depotenziare le prerogative della funzione di controllo dei rischi.

In siffatto contesto, è chiaro come gli organi di governo societario debbano recitare un ruolo attivo e autorevole nella gestione dei rischi in generale, ma ancor più nella gestione del rischio multidivisionale e multidimensionale per antonomasia, e cioè quello di liquidità.

Al riguardo va considerato l’impatto della nuova normativa sul governo societario14.

Leggendo il 1° aggiornamento della circolare n. 285/13, con il quale si intendono recepire la direttiva CRD IV e le Linee Guida emanate dall’EBA nel 2011 sulla governance interna, colpiscono i richiami ai profili qualitativi della composizione degli organi di governo: “Sotto il profilo qualitativo, il corretto assolvimento delle funzioni richiede che negli organi con funzioni di supervisione strategica e gestione siano presenti soggetti:

  • pienamente consapevoli dei poteri e degli obblighi inerenti alle funzioni che ciascuno di essi è chiamato a svolgere (funzione di supervisione o gestione; funzioni esecutive e non; componenti indipendenti, ecc.);
  • dotati di professionalità adeguate al ruolo da ricoprire, anche in eventuali comitati interni al consiglio, e calibrate in relazione alle caratteristiche operative e dimensionali della banca;
  • con competenze diffuse tra tutti i componenti e opportunamente diversificate, in modo da consentire che ciascuno dei componenti, sia allinterno dei comitati di cui sia parte che nelle decisioni collegiali, possa effettivamente contribuire ad assicurare un governo efficace dei rischi in tutte le aree della banca

La Banca d’Italia poi richiama l’attenzione sui componenti, non esecutivi, affermando che essi sono chiamati a svolgere un’importante funzione dialettica e di monitoraggio sulle scelte compiute dagli esponenti esecutivi. Il passaggio che qui interessa è il seguente: “Lautorevolezza e la professionalità dei consiglieri non esecutivi devono essere adeguate allefficace esercizio di queste funzioni [dialettica e di monitoraggio delle scelte compiute dagli esponenti esecutivi], determinanti per la sana e prudente gestione della banca: è quindi fondamentale che anche la compagine dei consiglieri non esecutivi possegga ed esprima adeguata conoscenza del business bancario, delle dinamiche del sistema economico-finanziario, della regolamentazione bancaria e finanziaria e, soprattutto, delle metodologie di gestione e controllo dei rischi. Si tratta di conoscenze essenziali per lefficace svolgimento dei compiti loro richiesti.

Possiamo ricavare da quanto precede la convinzione che il c.d.a. di una banca debba avere una composizione tale da garantire che i compiti ad esso assegnati in tema di liquidità vengano assolti con piena consapevolezza da parte di tutti i singoli componenti e con l’apporto particolarmente qualificato da parte di alcuni di essi, soprattutto nelle realtà di maggiore complessità.

Ciò è particolarmente vero se si considera l’impatto di Basilea 3 sul rischio di liquidità, che come detto – a regime – prevedrà il rispetto dei requisiti vincolanti LCR e NSFR su base individuale o consolidata. Il CRR, entrato in vigore dal 1° gennaio 2014, contiene previsioni normative che portano ad una declinazione dei doveri attribuiti agli organi societari dal 4° aggiornamento della 263. In particolare, la disciplina dell’LCR si basa sull’obbligo di detenere un adeguato “stock” di attività liquide e di elevata qualità “HQLA”. In base al requisito, le banche devono detenere HQLA non vincolate in quantità tale da coprire il totale dei deflussi di cassa netti per un periodo di 30 giorni in uno scenario di stress. Per essere classificate come “HQLA”, le attività devono essere facilmente liquidabili sui mercati anche in periodi di tensione.

Il vero tema che si propone oggi è quello di vedere come e a che livello tali ultime diposizioni vanno ad interagire con quelle preesistenti.

Ad esempio: nel 4° aggiornamento il cda viene investito della responsabilità del mantenimento di una liquidità coerente con la soglia di tolleranza; il CRR (art. 417) interviene – sovrapponendosi in sostanza al paragrafo 4.1 “riserve di liquidità” della 263 – definendo i “Requisiti operativi per la detenzione di attività liquide” e dettando le regole per l’individuazione e monitoraggio delle HQLA. Vengono pertanto forniti ora parametri precisi per la definizione delle condizioni – anche di processo – in presenza delle quali le attività liquide sono da includere al fine di un loro computo e raffronto con la soglia di tolleranza stabilita.

Si può affermare che la soglia di tolleranza dipenda anche dagli elementi qualitativi e di processo definiti per l’individuazione delle HQLA.

Il cda è ora chiamato ad adottare una politica per individuare le entità giuridiche, le ubicazioni geografiche, le valute e i conti di custodia o bancari specifici presso i quali sono detenute le HQLA (a che livello di dettaglio ?). In aggiunta, la banca (a che livello ?) dovrebbe stabilire quali attività di questo tipo debbano eventualmente essere escluse dallo stock per motivi operativi.

Gli organi di vertice aziendale devono ora definire e valutare periodicamente processi operativi (da tradurre in “disposizioni interne”) che consentano l’amministrazione dello stock di HQLA secondo canoni di prontezza e indipendenza (anche in questo caso va fatta una scelta circa il grado di coinvolgimento degli organi di vertice). Si pensi agli obblighi di testing mediante la monetizzazione periodica attraverso operazioni PcT oppure la vendita definitiva di una parte rappresentativa delle attività dello stock al fine di verificare la possibilità di accesso al mercato, l’efficacia dei processi di smobilizzo e la possibilità di utilizzare le attività, si pensi ancora ai nuovi requisiti in capo alla funzione di tesoreria che dovrà avere in ogni momento il potere e la capacità giuridica e operativa di smobilizzare qualunque attività dello stock.

3. Riflessioni conclusive: una nuova prospettiva ?

La corretta gestione del rischio di liquidità è cruciale per le banche. Sappiamo tutti che la stabilità di una banca risiede nel rapporto fiduciario con la clientela e con le controparti istituzionali e sappiamo che sia il rischio di credito sia quello di mercato hanno una diretta correlazione con il rischio di liquidità. Si pensi infatti agli effetti sulla liquidità delle immobilizzazioni finanziarie dovute al deterioramento della qualità del portafoglio prestiti o all’effetto sullo stock di attività liquide del ribasso dei prezzi di mercato. La combinazione di tali profili di rischio (liquidità in senso stretto/credito/mercato) può dar luogo ad una complessiva rischiosità della banca maggiore della semplice somma di ciascun rischio.

La crisi finanziaria che ha colpito i mercati internazionali, ma anche una mera ricognizione del numero di provvedimenti di sospensione dei pagamenti ex art. 74 TUB, ci ricordano che le banche sono chiamate un governo del rischio di liquidità improntato a criteri di consapevolezza delle scelte.

La risposta del sistema, orientata dai regulators, è quella di cercare di creare i presupposti per lo sviluppo di una governance consapevole. E la consapevolezza presuppone l’adeguatezza dei profili professionali degli organi chiamati a decidere e a controllare15, ma anche l’uso di sistemi di reportistica interni appropriati a cogliere e rappresentare la reale portata dei rischi attuali e prospettici e le interrelazioni che impattano sul rischio di liquidità. Questo è quello che si coglie leggendo in rapida successione i provvedimenti normativi post 2009: dal 4° aggiornamento della 263, al 15°, al CRR, al 1° aggiornamento della 285. Usando un lessico oggi di moda, potremmo dire che la resilienza non forse è sufficiente: bisogna pensare all’antifragilità16.

 

1

Es.: origination e collocamento di ABS a investitori istituzionali e/o strutturazione di derivati su crediti.

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2

Cfr Pasqualina Porretta, in “La gestione del rischio di liquidità” a cura di Franco Tutino, Bologna 2012.

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3

Va da sé che nel caso dei gruppi bancari, il CFP debba prevedere meccanismi di interazione tra le diverse entità del gruppo e gli interventi attivabili, tenendo conto delle eventuali limitazioni alla circolazione dei fondi.

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4

Protiviti, “Modelli di gestione del rischio di liquidità – Risultati della Survey 2011/2012”.

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5

Si rammenta che ad oggi, non sussiste per le banche non quotate nessun obbligo di pubblicare il bilancio di esercizio (ovviamente a parte il deposito presso la Camera di Commercio).

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6

Ovviamente, in tema di funding e liquidità la locuzione “Enti” sta qui per “banche”.

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7

Descrizione dell’impatto dell’importo delle garanzie che l’ente dovrebbe fornire in caso di ribasso del suo rating di credito”.

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8

EBA Consultation Paper – Draft guidelines on disclosure of encumbered and unencumbered assets.

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9

Raccomandazione ESRB/2012/2 del 20 dicembre 2012, relativa al finanziamento degli enti creditizi, raccomandazione D).

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10

CEBS “Survey of the current regulatory frameworks adopted by the eea regulators”, anni 2007 e 2008

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11

BCBS “Sound practices for
managing liquidity in banking organisations” – febbraio 2000.

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12

Quelle che prestano i servizi di negoziazione c/proprio e assunzione a fermo e/o collocamento di strumenti finanziari sulla base di un impegno irrevocabile.

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13

La Banca d’Italia definisce la soglia di tolleranza come: “La massima esposizione al rischio ritenuta sostenibile in un contesto di “normale corso degli affari” (going concern) integrato da “situazioni di stress” (stress scenario)”, essa deve essere coerente con le misure adottate per il calcolo degli indicatori per il monitoraggio del rischio di liquidità, sia sul breve (liquidity gap, periodo di sopravvivenza, adozione di maturity ladder adeguata per l’osservazione, etc.) che nel lungo termine (vista strutturale della posizione di liquidità).

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14

Circolare della Banca d’Italia n. 285/13, 1° aggiornamento del 6 maggio 2014.

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15

Sul punto è chiaro l’orientamento della Vigilanza: “Anche la professionalità dei singoli amministratori e dell’organo nel suo complesso è stata oggetto di crescente attenzione: come in più occasioni ricordato, l’idoneità degli amministratori all’esercizio delle proprie funzioni è un concetto che va oltre la meccanica verifica del possesso di predeterminate qualifiche, che vanno valutate in concreto, in relazione alle caratteristiche della singola banca e al ruolo che ciascun amministratore ricopre” – C. Barbagallo, “Doveri e responsabilità degli amministratori delle banche: il punto di vista della Banca d’Italia”, intervento presso l’ABI del 25 marzo 2014.

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16

Un’interessante lettura: “Antifragile. Prosperare nel disordine, di Nassim Taleb. Il Saggiatore, 2013.

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