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Attualità

La formazione del giudicato interno e implicito

Limiti e strumenti di reazione avverso decisioni patologiche

1 Ottobre 2025

Paola Desideri Zanardelli, AndPartners Tax and Law Firm

Marta Moretta, AndPartners Tax and Law Firm

Di cosa si parla in questo articolo

Il presente contributo si propone di analizzare alcuni profili pratici dell’attività degli operatori di diritto in relazione alle questioni processuali pretermesse, al fine di evitarne la formazione del giudicato interno e implicito. Le Sezioni Unite con la sentenza n. 24172/2025 pubblicata il 29.08.2025, risolvendo un annoso contrasto giurisprudenziale, mirano a salvaguardare, da una parte, la tutela dei diritti costituzionali del contraddittorio e del giusto processo, dall’altra, il criterio della ragione più liquida.


Il principio di diritto sancito dal Supremo Collegio sembra non offrire alternative, in quanto l’impugnazione sarebbe l’unica strada percorribile per evitare che si formi il giudicato su questioni processuali non decise in primo grado. Tale regola non è universale, in quanto il suo campo di applicazione esclude i vizi processuali rilevabili, in virtù di espressa previsione legislativa, “in ogni stato e grado”, e i vizi relativi a questioni “fondanti”.

1. L’istituto del giudicato

Prima di affrontare le implicazioni pratiche e gli spunti di riflessione che la sentenza in commento ha suscitato, occorre analizzare l’istituto del giudicato.

Tale istituto trova il suo fondamento normativo nell’art. 2909 c.c., secondo cui la cosa giudicata (o giudicato sostanziale o autorità di cosa giudicata) fa stato ad ogni effetto dell’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato formale nei confronti delle parti, dei loro eredi o aventi causa.

In altri termini, la cosa giudicata si ravvisa nell’incontrovertibilità della regola specifica enunciata dal giudice in relazione alla fattispecie concreta, la quale non può costituire oggetto di un nuovo esame, finché rimane invariata.

L’istituto ha la finalità di assicurare la certezza dei rapporti giuridici: una volta che il giudice si è pronunciato, accertando l’esistenza o inesistenza di un diritto soggettivo, deve riconoscersi a tale accertamento l’idoneità a divenire definitivo ed immutabile per tutte le parti che, in contraddittorio tra loro, hanno concorso a determinarlo, atteso che, diversamente, sarebbe vanificata la stessa funzione dell’attività giurisdizionale, permanendo la situazione di incertezza che essa è chiamata a rimuovere.

In altre parole, grazie al diritto di difesa e al principio del contraddittorio, le parti hanno gli strumenti per influire sul contenuto della decisione del giudice durante tutta la pendenza del processo, ma una volta che questo si sia concluso, la decisione medesima rappresenta una regola ineludibile alla quale esse nonché i loro eredi ed aventi causa devono necessariamente conformarsi, eventualmente anche subendone gli effetti.

Tale disposizione va letta in combinato disposto con l’art. 324 c.p.c. relativo alla cosa giudicata formale, consistente nell’inimpugnabilità della sentenza dal momento in cui non siano più esperibili i mezzi ordinari di gravame.

Si deve, poi, distinguere tra giudicato interno e giudicato esterno.

Il giudicato interno consiste nel passaggio in giudicato che si forma in un processo ed esplica la sua efficacia nel medesimo processo (ad esempio, sulle questioni di rito o di merito che possono insorgere nel corso del giudizio). Il giudicato interno preclude di decidere nuovamente le stesse questioni all’interno dello stesso processo.

Diversamente, il giudicato esterno si forma in un processo diverso e produce i suoi effetti in altri processi tra le stesse parti.

In presenza di un giudicato, sia interno sia esterno, la Corte di Cassazione deve rilevarlo anche d’ufficio, indipendentemente da qualsiasi impulso di parte.

Inoltre, se il Supremo Collegio intende verificare se sia formato un giudicato può anche procedere al relativo accertamento con cognizione piena, che include la valutazione e l’interpretazione degli atti del processo, mediante indagini e accertamenti anche di fatto.

Si potrebbe azzardare una semplificazione e dire che il principio affermato è quello secondo cui, allorquando l’eccezione non sia diversamente qualificata dalla legge, essa può essere dedotta e rilevata ex officio, mentre, affinché un’eccezione possa essere considerata rimessa all’autonoma ed esclusiva volontà delle parti, occorre una specifica disposizione normativa.

La ratio dell’istituto e la sua funzione concreta consentono di affermare che l’“autorità” dell’“accertamento” è indisponibile, derivando da norme imperative di ordine pubblico.

È inoltre sottratta ad ogni deroga da parte dei privati e impedisce alle parti qualsiasi possibilità di conseguire un bis in idem, ovvero che le questioni incontrovertibilmente decise vengano riesaminate e decise nuovamente da un nuovo magistrato, nonostante si sia già consolidato quel giudicato.

Sul punto, si osserva che è ormai risalente e consolidato l’orientamento della giurisprudenza secondo cui le parti del rapporto giuridico immutabilmente accertato possono validamente rinunziare agli effetti sostanziali del giudicato, ma non agli effetti processuali e alla preclusione del bis in idem, che ne sono derivati.

2. I profili pratici

Nella realtà professionale ci si imbatte spesso in decisioni emesse da giudici di prime cure nelle quali risulta difficoltoso ravvisare se una questione risulti decisa implicitamente ovvero vi sia stato un assorbimento, al fine di comprendere se sia opportuno/necessario impugnare tali pronunce, o, riproporre, ai sensi dell’art. 346 c.p.c. domande o eccezioni non accolte in primo grado, che altrimenti si intendono rinunciate.

Le Sezioni Unite in questione hanno deciso di continuare sulla scia dell’orientamento che pone a carico della parte soccombente l’onere di proporre gravame principale e in capo alla parte vittoriosa l’onere di proporre impugnazione incidentale, con lo scopo di sollecitare una decisione sulla questione processuale decisa implicitamente.

Tuttavia, tale principio soffre di alcune limitazioni.

Da una parte, troviamo disposizioni di legge che espressamente qualificano i vizi rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado del processo, quali:

  • il difetto di giurisdizione ex art. 37 c.p.c.,
  • la violazione del principio di litisconsorzio necessario ex art. 102 c.p.c.,
  • le nullità assolute degli atti processuali,
  • la violazione del principio del contraddittorio ex art. 101 c.p.c.

Dall’altra, le Sezioni Unite menzionano i vizi che inficiano requisiti fondanti il processo, che, indipendentemente da un’esplicita previsione legale e dalla condotta delle parti, sono rilevabili in ogni stato e grado, quali il difetto di legittimazione ad agire, il difetto di interesse ad agire ai sensi dell’art. 100 c.p.c., il difetto delle condizioni di proponibilità dell’azione, il difetto di rappresentanza processuale, le decadenze, il ne bis in idem, la litispendenza, l’inesistenza della sentenza.

Effettuata una breve disamina dei vizi che possono inficiare una pronuncia, ci si chiede quale sia la strategia difensiva più efficace per gli avvocati, al fine di evitare che le “patologie” siano sanate per omessa impugnazione.

  • Eccepire tempestivamente il vizio processuale fondante

In primo luogo, occorre prestare maggiore attenzione alle questioni processuali piuttosto che esclusivamente al merito della causa, al fine di sollevare tempestivamente l’eccezione che abbia ad oggetto un vizio processuale fondante.

Nel caso in cui il giudice di primo grado ometta di decidere circa tale vizio, l’impugnazione dovrà contenere in modo esplicito i motivi sul vizio processuale rilevabile d’ufficio, per evitare che si formi il giudicato implicito sulla questione.

A titolo esemplificativo, in merito ai profili di incontrovertibilità e di irretrattabilità dell’accertamento, si ritiene sia nullo, ai sensi dell’art. 1418 c.c., l’eventuale accordo di parte che si proponga di rimuovere gli effetti preclusivi del giudicato e di sottoporre ex novo la medesima controversia a un nuovo giudice, al fine di pretendere una nuova decisione.

Ciò comporta che essa potrà essere riproposta e rilevata d’ufficio nel grado successivo, non essendosi formato alcun giudicato.

  • Prestare attenzione all’utilizzo da parte del giudice del criterio della ragione più liquida

Inoltre, qualora il giudice si avvalga del criterio della ragione più liquida e, nella motivazione della decisione dichiari che ha omesso l’esame di una questione di rito per decidere la causa sulla base di una questione di merito di facile soluzione, si ritiene che la questione di rito sia stata “assorbita”.

  • Sollevare censure in appello specifiche e circostanziate

La Riforma Cartabia (D.lgs. 149/2022 e successivo correttivo D.lgs. 164/2024) ha modificato, tra le altre, le norme sull’appello, rendendolo più stringente e prevedendo l’inammissibilità per la mancanza di specificità dei motivi.

Queste modifiche alla fase di impugnazione hanno un impatto indiretto anche sul giudicato interno, in quanto rendono ancora più importante la corretta enunciazione e impugnazione delle statuizioni.

La disposizione di cui all’art. 342 c.p.c. novellata richiede la necessità di una censura specifica e circostanziata dei motivi di fatto o di diritto della sentenza impugnata al fine di contestare il potenziale vizio processuale derivante dalla mancata risoluzione di una questione pregiudiziale.

  • Impugnare pronunce deliberate in violazione dell’art. 276 c.p.c.

Si pone, altresì, l’attenzione sull’esercizio del potere da parte del giudice in modo responsabile, non solo nell’attualità del grado in cui si trova ad esercitare la potestas iudicandi, ma in una dimensione prospettica, con particolare riferimento ai successivi gradi di giudizio.

A garanzia del diritto di difesa e del contraddittorio, il giudice dovrà motivare la scelta di assorbimento di una questione di fatto rispetto a questioni di rito, preferendo una pronuncia su una questione di merito di più pronta soluzione.

Gli avvocati sono onerati di chiedere al giudice chiarimenti sull’iter logico- giuridico seguito e, in ogni caso, di impugnare decisioni assunte per saltum, che non tengano conto della scansione rito – merito di cui all’art. 276 c.p.c.

Del resto, occorre anche tenere a mente che tale disposizione contiene esclusivamente indicazioni per il giudice, non prescrivendo alcuna sanzione a fronte di una sua eventuale violazione.

3. Esperienza sul campo e spunti di riflessione

Alla luce delle considerazioni svolte, si ritiene, se concesso, che, qualora la disposizione di cui all’art. 276 c.p.c. venisse munita di conseguenze sanzionatorie, ovvero il giudice venisse obbligato a prendere chiaramente atto di una questione preliminare e/o pregiudiziale, si risolverebbe il caos processuale.

Infatti, il comportamento omissivo del giudice nei confronti della suddetta questione genera nelle parti difficoltà interpretativa di tale silenzio, che potrebbe essere considerata una dimenticanza o una valutazione che ha condotto ad una decisione nel merito.

Di ausilio alle parti soccorre l’art. 346 c.p.c., che è uno strumento processuale, in virtù del quale si salvano eccezioni respinte, dichiarate assorbite, pretermesse dal giudice di primo grado, che non richiede particolare formalismo, ma esprime la volontà della parte di riproporre le medesime domande.

Quindi, il monito per gli operatori del diritto potrebbe essere quello di effettuare una valutazione comparativa tra i costi e i benefici all’interno della complessa dinamica processuale, sempre nel rispetto della certezza del diritto, ordine nella sequenza decisionale, salvaguardia del diritto di difesa.

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