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Approfondimenti

La commercializzazione di oggetti preziosi presso gli sportelli bancari

19 Aprile 2017

Enea Franza, Consob

Di cosa si parla in questo articolo

Le opinioni espresse sono a titolo personale e non riguardano la Consob, Autorità presso cui il dott. Franza lavora.

 

1. Premessa

Il tema che si vuole affrontare è quello relativo alla commercializzazione di beni preziosi allo sportello bancario. La questione ha avuto di recente anche una rilevanza mediatica in più servizi televisivi di Report, in particolare in quello  intitolato “Occhio al portafoglio” andato in onda su Rai3 il 17 ottobre 2015, dove si segnalavano vere e proprie truffe ai danni dei risparmiatori sulla commercializzazione di diamanti offerti da società private, ma segnalati da istituti bancari e da questi collocati presso le loro sedi o filiali.

Nella sostanza, come vedremo, potremo ricondurre tale operazione a due distinte fattispecie giuridiche, ovvero, la vendita di cose mobile (di genere) o la vendita di un prodotto finanziario avente come sottostante appunto beni preziosi.

In entrambe le fattispecie le ipotesi di vendita hanno ad oggetto “il trasferimento della proprietà di una cosa o il trasferimento di altro diritto verso il corrispettivo di un prezzo” (ex art. 1470 c.c.) e sembrerebbero caratterizzate da alcuni comuni elementi essenziali: i soggetti, il consenso, il diritto da trasferire ed il prezzo, ma a distinguerle è il diritto che viene con essi trasferito.

Mentre, infatti, nella vendita di un oggetto prezioso viene definitivamente trasferito dal venditore all’acquirente ed a fronte del pagamento di un prezzo, il diritto di proprietà sulla cosa, ossia il diritto di godere e disporre della stessa in modo pieno ed esclusivo (art. 832 c.c.) e con essa il relativo rischio di perimento nonché i relativi oneri di gestione e custodia, nella vendita di un prodotto finanziario, il bene trasferito non è la pietra preziosa in quanto tale, ma il valore di riferimento delle prestazioni dedotte in contratto che consistono nel pagamento di un prezzo (una rinuncia ad una somma di danaro) a fronte di una remunerazione futura attesa correlata al rischio sottostante ossia all’impiego di capitali in iniziative economiche altrui, secondo una curva di utilità il cui intervallo è determinato da un orizzonte temporale.

Seguendo tale interpretazione, il canale distributivo utilizzato per la commercializzazione e distribuzione del prodotto non modifica la sostanza dell’operazione e non impatta, peraltro, sullo schema concettale delineato, a cui occorre riferirsi al fine di qualificarne anche i profili di vigilanza pubblicistica ed i connessi poteri di intervento ed inibizione della vendita da parte della Consob.

2. La commercializzazione di oggetti preziosi in Italia

In Italia la materia della commercializzazione di oggetti preziosi, ovvero di oggetti costituiti, in tutto o in parte, da metalli preziosi (oro, argento, platino e palladio) e di coralli e perle di ogni tipo, anche se venduti sciolti, pietre preziose (diamanti, rubini, zaffiri, smeraldi), anche se venduti sciolti, ed ogni altra pietra che sia unita a metalli preziosi, è sostanzialmente, regolata dal Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza (in breve, TULPS) e dal Regolamento per l'esecuzione del Testo Unico 18 giugno 1931, n. 773 delle Leggi di Pubblica Sicurezza (in breve Regolamento)[1]. Nella sostanza si tratta di un’attività esercitabile a seguito dell’ottenimento di una apposita autorizzazione da parte del Questore territorialmente competente.

In particolare l’art. 127 del sopracitato Testo Unico prevede che: “i fabbricanti, i commercianti, i mediatori di oggetti preziosi, hanno l'obbligo di munirsi di licenza del Questore. Chi domanda la licenza deve provare l'essere iscritto, per l'industria o il commercio di oggetti preziosi, nei ruoli della imposta di ricchezza mobile ed in quelli delle tasse di esercizio e rivendita ovvero deve dimostrare il motivo della mancata iscrizione in tali ruoli. La licenza dura fino al 31 dicembre dell'anno in cui è stata rilasciata. Essa è valida per tutti gli esercizi di vendita di oggetti preziosi appartenenti alla medesima persona o alla medesima ditta, anche se si trovino in località diverse. (…)”.  Ai sensi dell’art. 243 del sopra richiamato Regolamento, inoltre, “l’obbligo di munirsi della licenza stabilita dall’art. 127 della Legge incombe ai fabbricanti, ai commercianti, ai mediatori di oggetti preziosi, tanto se lavorino o negozino abitualmente, quanto occasionalmente. Non ricorre l’obbligo della licenza per gli institori e i rappresentanti di commercio, i quali devono, tuttavia, munirsi di copia della licenza concessa alla ditta rappresentata. Tale copia è rilasciata dal Questore e deve indicare il nome, il cognome, la paternità e la qualifica dell’institore o del rappresentante di commercio. (…)”.

La fabbricazione, la mediazione ed il commercio di oggetti preziosi per il quale è prevista la sopra menzionata licenza è sottoposto, peraltro,  ai sensi d.lgs. 21 novembre 2007, n. 231 anche alla disciplina in materia di riciclaggio[2]. L’art. 3 del citato d.lgs. n. 231/2007, prevede che, i soggetti sopra citati sono tenuti ad adottare “idonei e appropriati sistemi e procedure in materia di obblighi di adeguata verifica della clientela, di segnalazione delle operazioni sospette, di conservazione dei documenti, di controllo interno, di valutazione e di gestione del rischio, di garanzia dell'osservanza delle disposizioni pertinenti e di comunicazione per prevenire e impedire la realizzazione di operazioni di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo”. Per inciso, ricordiamo che la vigilanza in materia è affidato al Comitato di sicurezza finanziaria (istituito con il D.l. del 12 ottobre 2001, n. 369 convertito nella Legge 14 dicembre 2001, n. 431) ed all’Unità di Informazione finanziaria (UIF) istituita presso la Banca d’Italia[3].

Negli ultimi anni hanno assunto una pari rilevanza anche la commercializzazione di altri beni preziosi, come i quadri d’arte, i tappeti pregiati, le monete preziose, i francobolli rari, ecc., riuscendo ad ampliare la categoria dei beni che vengono utilizzati a fini di riserva di valore. Tuttavia, tali ultimi beni non possono rientrare nella categoria degli oggetti preziosi di cui sopra, nonostante il loro indubbio valore e, quindi, la loro intrinseca capacità di assumere anche il ruolo di scambio di valore. Tuttavia, per i citati beni, risulta prevalente la loro caratteristica quale bene di consumo, che solo in parte è idoneo a servire da riserva di valore e, ancor più raramente, avere funzione di bene di scambio.

Limitandoci, pertanto, alla sola categoria dei oggetti preziosi propriamente detti, ci incaricheremo di dare conto, nella trattazione che segue, delle garanzie che presiedono alla loro commercializzazione, in particolare, quando per tali oggetti venga utilizzato il canale bancario, attesa la sensibilità pubblica che il tema da ultimo ha destato[4].

In particolare, nell’ambito degli oggetti preziosi, l’oro ed i diamanti, svolgono un ruolo molto importante, per il peso economico che tale attività di commercio riveste[5] e per il fatto che  la commercializzazione di tali oggetti viene sempre più svolta da società specializzate nell’intermediazione e commercializzazione degli stessi avvalendosi nella fase distributiva dell’attività di intermediari bancari. Pertanto, in tale contesto, i metalli preziosi (oro, argento, platino, palladio, ecc.), in genere, possono essere scelti tra una vasta gamma di placchette e lingotti; i piccoli risparmiatori, i collezionisti e le aziende che li utilizzano come materia prima possono acquistare metallo certificato e prodotto da raffinerie con annesso certificato di autenticità che ne riepiloga le caratteristiche. Le pietre preziose e, in particolare, i diamanti, sono generalmente venduti già tagliati ma non incastonati in un gioiello, bensì confezionati in contenitori sigillati ed accompagnati da certificazioni internazionali[6].

3. La vendita di oggetti preziosi come attività d’investimento finanziario. Limiti alla qualificabilità della commercializzazione come vendita di prodotto finanziario.

Il punto che, per ora, ci incarichiamo di sviluppare è di se e, eventualmente, in che misura, l’acquisto e/o l’offerta degli oggetti preziosi risponde ad un’esigenza di investimento prevalentemente finanziaria e dunque, in concreto, se l’acquisto di tali prodotti possa configurarsi attività mirata alla conservazione del capitale e/o alla realizzazione di rendimenti più o meno elevati rispetto a prodotti finanziari alternativi.

Il punto, come è facile intuire, è  di estrema importanza, in quanto, come noto, il nostro ordinamento giuridico (peraltro, in analogia con altri ordinamenti giuridici) ha apprestato particolari tutele di natura pubblicistica e predisposto un assetto istituzionale ad hoc quando l’individuo utilizza il proprio risparmio per finalità di investimento finanziario (bancario, previdenziale, assicurativo o mobiliare), ossia, quando investe risorse attuali per creare risorse future, alimentando così il processo di crescita del sistema[7].

In premessa, evidenziamo che è manifesto come un oggettoprezioso possa essere acquistato per soddisfare un proprio bisogno di consumo durevole o come forma di investimento di natura non finanziaria, mentre è possibile discutere se e quando l’acquisto di un tale bene, invece, qualificarsi come un investimento di natura finanziaria.

Circa i primi due aspetti evidenziati, da un punto di vista giuridico, è bene precisare che l’atto dell’acquisto non rappresenta altro se non la compravendita di un bene mobile e, conseguentemente, anche le tutele riconosciute dall’ordinamento all’individuo in caso di acquisto di un oggetto prezioso per finalità di consumo o di investimento non finanziario, anche se remunerato, sono le medesime che valgono per l’acquisto di qualsiasi altro bene mobile[8]. Tale regola, nondimeno e per inciso, non dovrebbe prevedere eccezioni nemmeno nel caso in cui tale bene venga acquistato allo sportello bancario, cosi come per altro canale di distribuzione, a nulla dovendo valere il canale commerciale utilizzato.

Peraltro, però, si deve preliminarmente indagare, da un punto di vista più propriamente giuridico, cosa debba intendersi per prodotto finanziario. Di fatto ci si trova di fronte ad un contratto con tali caratteristiche, quando di fronte ad un con tratto con prestazioni più o meno standardizzate, lo stesso prevede prestazioni di natura finanziaria, ovvero, stipulato da più soggetti, di solito un debitore ed un creditore, esso si attiva per il trasferimento nello spazio e nel tempo del potere di acquisto. Per natura dello scambio, della promessa e della ripartizione dei rischi, un contratto finanziario può distinguersi  nei seguenti “archetipi”: i contratti di debito, i contratti di partecipazione, i contratti derivati, i contratti assicurativi ed i contratti misti frutto della c.d. ingegneria finanziaria.

Dunque, la nozione di prodotto finanziario si fonda sui tre gli elementi distintivi dell’impiego di capitale, dell’aspettativa di rendimento e dell’assunzione di un rischio direttamente connesso all’impiego di capitale. Più, in particolare, si è in presenza di un «investimento di natura finanziaria», quando il risparmiatore impiega il proprio denaro con un’aspettativa di profitto, accettando al contempo il rischio e la redditività correlata all’impiego di capitale. Nel caso di un contratto di consumo, invece, l’impiego di danaro è essenzialmente finalizzato al godimento diretto di un bene, è cioè diretta a trasformare le proprie disponibilità in beni reali idonei a soddisfare in via diretta i bisogni non finanziari del risparmiatore.

Peraltro verso, le operazioni di vendita in cui siano presenti aspetti di tipo finanziario sono attratte entro la complessiva disciplina dettata in materia di offerta al pubblico, ivi inclusa quella concernente la pubblicità, soltanto in caso di effettiva prevalenza del connotato finanziario rispetto a quello di godimento.

Tuttavia, è manifesto che una “definizione” troppo ampia fa si che, ad esempio,  anche l’acquisto di un immobile per la rivendita (e non per andarci ad abitare) potrebbe figurare come un investimento finanziario,  il che non è, come meglio vedremo, per il Testo unico della finanza[9] (in breve, TUF).

Ricordiamo, infatti, che il TUF distingue tra valori mobiliari, strumenti finanziari  ed i prodotti finanziari[10] e che mentre ai primi due si applica la disciplina dei servizi e delle attività di investimento, all’ultima categoria, quella dei prodotti finanziari appunto, si applica la disciplina dell’offerta al pubblico oltre che quella di acquisto o scambio. In tale ripartizione, peraltro, la categoria dei prodotti finanziari è la più ampia e, con la sola eccezione dei depositi bancari e postali non rappresentati da strumenti finanziari, comprende al proprio interno la categoria degli strumenti finanziari oltre ad “ogni altra forma di investimento di natura finanziaria”, che ai sensi di quanto si prevede all’art. 18, comma 5, del TUF (e dell’art. 1, comma 2-bis, TUF per i contatti derivati), sono individuabili con un mero intervento regolamentare da parte del Ministero dell’economia e delle finanze, sentita la Banca d’Italia e la Consob. Sul punto rileva la delibera n. 14454 del 2 marzo 2004 della Consob, che  ha avuto modo di chiarire che “la nozione di prodotto finanziario, recata dal D. Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, si presta a ricomprendere non solo ogni titolo di investimento, sia esso tipico ovvero atipico,  ma anche forme di investimento non cartolarizzate, ancorché connesse ad un bene materiale per le quali si realizzi una sollecitazione all’investimento”. Riassumendo, la definizione di prodotto finanziario contenuta nell’art. 1, comma 1, lett. u) abbraccia, in definitiva, sia gli strumenti finanziari, che ogni altra forma di investimento di natura finanziaria. Resta, dunque, aperta la nozione di prodotto finanziario.

Anche alla luce di quanto sopra detto, in definitiva, si individuano gli elementi essenziali nell’essere, “un investimento di natura finanziaria[11], ossia, in altri termini “un investimento del risparmio” diretto alla“aspettativa di un reddito, non influenzabile in modo decisivo dall’investitore e con assunzione di un rischio pur esso finanziario, in quanto derivante dalla stessa operazione di impiego di capitali”[12].

La Corte di Cassazione, per altro verso, ha avuto modo di chiarire in proposito che “gli investimenti di natura finanziaria, per essere assoggettati ai controlli (…) in quanto prodotti finanziari, debbono rispondere a caratteristiche economico – giuridiche che, se pur non tali da consentirne la riconduzione alla gamma delle fattispecie tipiche (di strumenti finanziari) elencate nel citato comma 2 (dell’art. 1 del TUF), siano quanto meno oggettivamente analoghe”. Ciò al fine di evitare che, data “l’estrema genericità della previsione normativa, che in palese contrasto con il principio di legalità e tipicità dell’illecito amministrativo dettato dalla L. 689 del 1981, art. 1”, si possa “assoggettare a sanzione amministrativa, a mera discrezione della Consob, una vasta gamma di condotte di operatori commerciali, ogni qual volta le offerte (o richieste) rivolte al pubblico prospettassero la particolare remuneratività di operazioni negoziali finalizzate al conseguimento di un reddito qualsiasi” (Cass. 15 aprile 2009 n. 8947).

Da un mero profilo economico finanziario, quindi, le caratteristiche tipiche possono essere individuate come suggerito dalla Corte di Cassazione in“… ogni conferimento di una somma di danaro da parte del risparmiatore con un’aspettativa di profitto o remunerazione, vale a dire di attesa di utilità a fronte delle disponibilità investite nell’intervallo determinato da un orizzonte temporale, e con un rischio”.

In altre parole e, definitivamente, l’investimento finanziario si sostanzia in ogni contratto – non necessariamente standardizzato e/o incorporato in un titolo destinato alla circolazione – che vede l’utilizzo di un capitale che comporta l’assunzione di un rischio e cui è correlata un’attesa di rendimento. Il capitale investito, in questo modo, viene remunerato per l’alea assunta e viene gestito da colui che ha proposto l’investimento. Per configurare tale forma di investimento, dunque, non è sufficiente che vi sia un accrescimento delle disponibilità patrimoniali dell’acquirente – cosa che potrebbe realizzarsi disponendo del bene (come, ad esempio, con la rivendita ad opera dell’acquirente di vini, opere d’arte, francobolli, manoscritti di pregio) – ma è necessario che l’atteso incremento di valore del capitale impiegato ed il rischio correlato siano elementi intrinseci all’operazione stessa[13].

La nozione di prodotto finanziario cosi delineata non comprende, pertanto, le operazioni che portino al mero acquisto di beni materiali allo scopo di fruizione diretta o di consumo  o anche con finalità di investimento non finanziario, ossia non inserito in una iniziativa economica condotta da altri.

Tutto ciò rappresentato, la vendita di oggetti preziosi sembrerebbe non sostanziarsi in un’attività di investimento di natura finanziaria, a meno che, ad essere oggetto dello scambio, sia un “contratto” di cui il sottostante sia un bene prezioso come sopra definito.

In tal caso, l’oggetto esclusivo dello scambio non è l’acquisto della proprietà del bene, ma il danaro o, meglio, la differenza tra il prezzo pagato al momento della vendita (da parte dell’acquirente) ed il corrispettivo ottenuto al momento della rivendita, ovvero, il c.d. differenziale. In tal caso ci troveremmo di fronte alla fattispecie di un contratto di tipo finanziario, allorquando il negozio posto in essere diventi il veicolo di investimento di risparmi e lo strumento con cui gli operatori economici possono ridistribuire i rischi che derivano dal processo produttivo[14].

La Consob si è occupata di una iniziativa di una società avente ad oggetto diamanti[15], dove, tuttavia, ciò che l’autorità di vigilanza ha indicato come  rilevante ai fini dell’individuazione dell’investimento di natura finanziaria era, la promessa, all’atto dell’instaurazione del rapporto contrattuale, di un rendimento collegato all’attività svolta dal proponente l’investimento Nel caso che andiamo a ricordare, una società proponeva un investimento, denominato Contatto di affidamento di diamanti, tramite il quale era offerta la possibilità di ricevere in affidamento un diamante e, alla scadenza  ottenere l’importo investito maggiorato di una somma. La Consob ha ritenuto nel caso esaminato che la causa del contratto non fosse da ravvisarsi nella vendita dei diamanti – ossia nello scambio di un bene con una somma di danaro –  ma, piuttosto, nell’attesa di un rendimento finanziario legato ai risultati dell’attività imprenditoriale altrui e che quindi il contratto dovesse essere ricondotto nella fattispecie del prodotto finanziario ai sensi dell'art. 1, comma 1, lett. u) del TUF.

Per inciso, per verificare di fatto la natura dell’accordo sottoscritto, secondo la Consob rileva, in primo luogo, il materiale pubblicitario che accompagna l’informazione resa agli investitori dalle società specializzate e, dagli intermediari bancari o meno con esse convenzionate, l’eventuale peso dato alla performance dei beni preziosi, in particolare, rispetto a titoli di Stato, indici azionari, inflazione e, quindi, implicitamente ne riconosco la qualificazione di “beni d’investimento”. Per altro verso, l’ulteriore presenza di informazioni sul livello del rischio e sulla presenza di una garanzia al riacquisto, modulata in modo più o meno diretto, sollevano il legittimo dubbio che le operazioni di vendita dell’oggetto in realtà nasconda un’operazione di investimento finanziario.

4. La vendita di un bene prezioso attraverso il canale bancario

Tutto ciò premesso, verifichiamo adesso l’ulteriore aspetto del canale di collocamento e delle informazioni che il collocatore deve fornire all’acquirente in sede di proposta contrattuale, per verificare se, ed eventualmente in che misura, le modalità di collocamento possano qualificare la vendita di un oggetto prezioso come vendita di prodotto finanziario. In altre parole, verifichiamo, se l’offerta di oggetti preziosi presso i canali bancari, in particolare dei lingotti in oro e delle pietre preziose, evidenzi le caratteristiche relative alla vendita di un prodotto finanziario.

Veniamo adesso a verificare lo schema generalmente utilizzato nella commercializzazione attraverso il canale bancario nella vendita di oggetti preziosi. Nella prassi il sistema è quello di una società specializzata nell’intermediazione e compravendita di oggetti preziosi che conclude con una o più banche un accordo di collaborazione a titolo oneroso al fine di ampliare la rete di distribuzione dei propri prodotti e che impegna la banca, a fronte di un corrispettivo in danaro, a porre in essere una serie di prestazioni volte a favorire in qualche modo gli investimenti dei propri clienti negli oggetti preziosi della predetta società. In altre parole, la banca si impegna a porre a disposizione dei clienti interessati, nei propri locali, il materiale divulgativo predisposto a cura e a spese della società venditrice, ad indirizzare i clienti alla medesima società per eventuali richieste informative sull’investimento, a raccogliere gli ordini effettuati dai clienti/investitori, nonché a segnalare alla società eventuali offerte di rivendita dei beni precedentemente acquistati[16]. 

In merito, la Consob, con la Comunicazione n. 13038246 del 6 maggio 2013, ha precisato che la disciplina di trasparenza e correttezza sui servizi di investimento "non è di per sé applicabile alla vendita di diamanti o di altri beni materiali anche qualora avvenga tramite il canale bancario né, in tali casi, è prevista la pubblicazione di un prospetto informativo". Tuttavia, la vendita di un bene materiale, "può assumere le caratteristiche di offerta di un prodotto finanziario se siano esplicitamente previsti, anche tramite contratti collegati, elementi come, ad esempio, promesse di rendimento, obblighi di riacquisto, realizzazione di profitti ovvero vincoli al godimento del bene".

Ciò premesso, dunque, occorre meglio approfondire l’analisi al fine di verificare, nei fatti, come si atteggia ciascuna offerta e quindi confrontarla con la fattispecie normativa.  E per farlo ci proponiamo di indagare se lo svolgimento da parte delle banche dell’attività di promozione della conclusione di contratti di compravendita di oggetti preziosi possa rientrare tra le attività consentite alla banca, non essendo la stessa né attività bancaria in senso stretto, né attività finanziaria, né attività strumentale a quella bancaria, ma potendosi ben qualificare tale operazione di vendita una modalità d’impiego del risparmio diverso dall’investimento bancario, previdenziale o finanziario in senso stretto, ma comunque capace di offrire al potenziale cliente la possibilità di trasformare le proprie disponibilità liquide in beni reali idonei a soddisfare i propri bisogni futuri di consumo.

5. La riconducibilità delle vendita degli oggetti preziosi nelle attività bancarie

Da un punto di vista giuridico, l’attività prestata dalle banche è disegnata nel D. Lgs. 1° settembre 1993, n. 385 (“Testo Unico Bancario” o “TUB”) e, in particolare, l’art. 10 del TUB individua l’attività bancaria “nella raccolta del risparmio tra il pubblico e nell’esercizio del credito” e, ne prevede la riserva di attività, al 2 comma, “l’esercizio dell’attività bancaria è riservato alle banche”[17].  Peraltro, ai sensi del comma 3,“… le banche esercitano, oltre all’attività bancaria, ogni altra attività finanziaria, secondo la disciplina propria di ciascuna, nonché attività connesse o strumentali”, significandosi che non è consentito l’esercizio di attività bancaria da parte di enti diversi dalle banche e, che, in aggiunta, all’esercizio della principale attività bancaria, possono essere porre in essere anche l’esercizio di “ogni altra attività finanziaria, secondo la disciplina propria di ciascuna di esse, nonché attività connesse e strumentali”.

Andando a verificare l’attività delle banche nel vigente quadro normativo, è possibile distinguere un’ attività bancaria propriamente detta, che attiene come sopra ricordato alla raccolta del risparmio tra il pubblico congiunta all’esercizio del credito, da ogni altra attività che è consentita alle banche esercitare che, come sopra rilevato, deve individuarsi facendosi puntuale riferimento, sia nelle “altre attività finanziarie”, nelle “attività strumentali” che, infine, nelle “attività “connesse”. In particolare, le“altre attività finanziarie”, devono essere interpretare, innanzitutto, come le “attività ammesse al beneficio del mutuo riconoscimento” così come individuate dall’art. 1, comma 2, lett. f), del TUB a cui, tuttavia, vanno aggiunte, come è stato osservato, ulteriori attività finanziarie.

Si tratta, a ben vedere, di attività “non nominate” che possono essere specificate, ad esempio, nel servizio di pagamento di emissione di moneta elettronica (attività, queste, che possono essere svolte anche da istituzioni diverse dalle banche quali sono gli Istituti di moneta elettronica e gli istituti di pagamento), nella distribuzione di polizze assicurative vita, nel servizio di intestazione fiduciaria statica offerto da società fiduciarie, nella offerta fuori sede, mediante la rete dei promotori finanziari, nel servizio di amministrazione fiduciaria statica prestato ad altra società, nella vendita di pacchetti-viaggio e di oggetti di tipo promozionale (quali orologi, monete, ecc.) nonché, in servizi di esattoria e di tesoreria per la pubblica amministrazione, nelle funzioni di istruttoria e di controllo nella gestione di taluni incentivi pubblici alle imprese, ciò tutto quanto al fine di evitare che una dettagliata previsione normativa venisse ad essere superata dalla logica innovativa del mercato, con un occhio strizzato, in particolare, alla concorrenza delle banche straniere, le quali svolgono spesso attività anche diverse da quelle che godono del mutuo riconoscimento che le stesse devono affrontare in un mercato aperto.

Quanto alle attività strumentali, l’art. 8 del TUB, recita che "è strumentale l’attività che ha carattere ausiliario rispetto a quella esercitata; a titolo indicativo, rientrano tra le attività strumentali quelle di: studio, ricerca e analisi in materia economica e finanziaria; gestione di immobili ad uso funzionale; gestione di servizi informatici o di elaborazione dati; formazione e addestramento del personale." Esse, dunque, si connotano per il loro carattere ausiliario rispetto a quella bancaria, cosi come, peraltro, prevede l’art. 59, comma 1, lett. c), del citato TUB, con riferimento alle società strumentali rientranti in un gruppo bancario. Difatti, per “società strumentali”, si devono intendere “le società che esercitano, invia esclusiva o prevalente, attività che hanno carattere ausiliario dell'attività delle società del gruppo, comprese quelle consistenti nella proprietà e nell'amministrazione di immobili e nella gestione di servizi anche informatici”. Ciò premesso, si può sostenere, pertanto,  che la norma esemplifica tali sopracitate attività individuandole in quelle collegate alla gestione di servizi informatici o di elaborazione dati e di formazione di gestione di immobili ad uso funzionale, ma anche in quelle connesse all’addestramento del personale, all’attività di studio, ricerca e analisi in materia economica e finanziaria. Le anzidette attività strumentali, quindi, si caratterizzano per l’offerta di beni e/o di servizi che sono realizzati nell’ambito dello svolgimento di quest’attività a terzi e che vengano organizzate e pianificate in funzione strumentale al processo produttivo principale e non per il mercato esterno.

Più complesso è invece l’individuazione delle attività connesse. Secondo la nozione fornita al Titolo V del TUB è un’attività connessa “… l’attività accessoria che comunque consente di sviluppare l’attività esercitata; a titolo indicativo, costituiscono attività connesse la prestazione di servizi di informazione commerciale; locazione di cassette di sicurezza.”  Una più attenta indicazione viene fornita, anche, dalle nozioni dell’art. 8, comma 3, del D.M. Tesoro del 6 luglio 1994 e, l’art. 8, 3 comma 3, D.M. Economia e finanze del 17 febbraio 2009, n. 29  secondo cui «… è connessa l’attività accessoria che comunque consente di sviluppare l’attività esercitata» e dall’art. 5, del D.M. Economia e finanze del 2 aprile 2015, n. 53, che attesta che per “… servizi connessi si intendono quei servizi che consentono di sviluppare l’attività, sono svolti in via accessoria a quest’ultima e hanno finalità coerenti con essa”. Tali riferimenti aiutano, in primo luogo, ad scartare l’idea che l’attività connessa – qualunque essa sia – possa assurgere ad attività prevalente, o addirittura esclusiva, esercitabile dalle banche.

L’attività connessa, in effetti, al pari di quella strumentale deve comunque essere sempre accessoria ed ulteriore rispetto a quella principalmente svolta dalle banche, sia essa attività bancaria in senso proprio, sia essa “altra” attività finanziaria[18]. Sul punto è intervenuta anche la Banca d’Italia, che ha precisato che le attività connesse“devono (…) costituire una componente soltanto marginale e accessoria della complessiva attività svolta presso le singole dipendenze” e, che, solo, entro questi limiti, pertanto, “le banche possono quindi svolgere direttamente presso i propri sportelli le attività aventi le caratteristiche sopra indicate, sempre che, ovviamente, non siano riservate per legge ad altri soggetti”.

A tale proposito, la Banca d’Italia ritiene che, possano considerarsi “connesse” le attività non finanziarie che, creando occasioni di contatto con il pubblico, consentono alle banche di promuovere e sviluppare l’attività principale. Deve, dunque, trattarsi di attività aventi ad oggetto la fornitura di un servizio alla clientela, compatibile con le normali modalità organizzative e di funzionamento degli sportelli bancari. Le attività in discorso, peraltro, devono altresì costituire una componente soltanto marginale ed accessoria della complessiva attività svolta presso le singole dipendenze. Le banche possono quindi svolgere direttamente presso i propri sportelli le attività aventi le caratteristiche sopra indicate, sempre che, ovviamente, “non siano riservate per legge ad altri soggetti”.

Per altro verso, occorre rilevare altresì come tali attività connesse evidenziano la necessità di un legame con l’attività bancaria, legame, che anche se non meglio specificato nel testo normativo, deve essere di certo essere differente da quello individuato per l’attività strumentale, stante la distinta menzione nel disposto normativo.

In buona sostanza, il rapporto di ‘connessione’ può dirsi sussistente tra attività che, pur essendo diverse tra loro, possono comunque “avere nel concreto ciclo economico di un’impresa un legame costituito dal fatto che l’organizzazione dei fattori della produzione, reali e personali consente però lo svolgimento anche di un’altra attività, per questo considerabile connessa alla prima, migliorando ad un tempo l’utilizzazione dell’organismo produttivo di base, ma anche consentendo lo svolgimento dell’attività ‘connessa’ in condizioni migliori rispetto ad un esercizio autonomo”[19].

Si tratterebbe, dunque, di attività si pongono in rapporto di complementarietà o meglio e più in generale in rapporto di utilità indiretta all’attività d’impresa[20], rilevandosi in definitiva il suo nero collegamento economico-funzionale ed il suo coordinamento all’interno della più complessa organizzazione dell’impresa principale. Con l’indicazione delle attività “connesse”, il legislatore ha pertanto inteso ampliare le possibilità operative delle banche a nuove opportunità economiche e ad attività che non le sono proprie ma di cui ha i mezzi necessari per poterle svolgere meglio di altri e a costi inferiori e fra cui si annoverano, ad esempio, la ricarica di telefoni a scheda, la locazione di cassette di sicurezza, i servizi di informazione commerciale, la vendita di biglietti di viaggio o per spettacoli o eventi, sul presupposto di un collegamento strutturale delle attività “diverse” da quelle finanziarie con quella principale. In proposito la Banca d’Italia ha affermato che “possano considerarsi ‘connesse’ le attività non finanziarie che, creando occasioni di contatto con il pubblico, consentono alle banche di promuovere e sviluppare l’attività principale; in tal senso, deve trattarsi di attività aventi ad oggetto la fornitura di un servizio alla clientela, compatibile con le normali modalità organizzative e di funzionamento degli sportelli bancari.[21]

Ciò detto, sembra evidente, quindi, che non si possa costruire un elenco chiuso, una sorta di catalogo delle attività connesse; semmai possono venire utilizzati i princìpi sopra esposti, per valutare in concreto e caso per caso, la compatibilità, per qualità e quantità, delle attività “connesse” con la struttura organizzativa e patrimoniale dell’impresa bancaria che intenda esercitarle.

6. Spunti di riflessione in merito agli obblighi di comportamento cui sono tenuti le banche nella distribuzione di pietre preziose allo sportello

Certamente, se come argomentato le tutele apprestate dall'ordinamento per il risparmio investito in prodotti finanziari non operano a favore del risparmiatore che abbia acquistato in banca beni di consumo o di investimento non finanziari, ciò non significa che lo stesso sia privo di tutele. In effetti a ben vedere intervengono a suo vantaggio diverse forme di garanzia, che si palesano quando si vadano a considerare le regole che sovraintendono il rapporto esistente tra l’esercizio dell’attività principale bancaria e l’esercizio delle attività ad essa connesse.

Tra queste regole la prima da prendere in considerazione è il limite quantitativo posto dall’ordinamento nello svolgimento delle attività connesse da parte delle banche. Le attività connesse, infatti, non possono essere quantitativamente superiori all'attività bancaria principale e in secondo luogo l’attività connessa non può e non deve mettere a rischio l'attività bancaria esercitata in via principale.

Tra i rischi che l'attività connessa può far ricadere sulla sana e prudente gestione della banca ci sono sia i rischi derivanti dai potenziali conflitti di interessi che si possono venire a creare tra attività bancaria (principale) e attività industriale (connessa), ma anche e soprattutto i rischi (operativi, legali, reputazionali [22], ecc.) che attengono alla stabilità stessa della banca e che l'ordinamento sottopone a stringenti controlli da parte della Banca d’Italia.

La Banca d’Italia è, infatti, normativamente investita del compito di valutare che nel loro insieme tutte le attività svolte dalle banche siano svolte ai sensi dei rispettivi statuti, seppur nell’ambito della discrezionalità che è data dal TUB, tanto nella fase di autorizzazione all’esercizio dell’attività bancaria quanto successivamente nel corso dello svolgimento delle attività strumentali e connesse[23]. Per queste ragioni la Banca d’Italia potrà quindi sempre vietare ad una banca l’esercizio di una qualunque attività connessa laddove la stessa risulti in conflitto con la sana e prudente gestione dell’ente e potrà, altresì, dettare anche disposizioni in materia di organizzazione e controlli interni necessari per implementare la correttezza e la trasparenza dei rapporti con i clienti ai sensi dell’art. 127 del TUB.

Nella commercializzazione di oggetti preziosi allo sportello la banca è tenuta al rispetto di una sere di obblighi che, come cennato in premessa della trattazione, derivano dalla disciplina antiriciclaggio. Il D.Lgs. 21 novembre 2007, n. 231 ha, infatti,  previsto presidi specifici per il controllo del rischio riciclaggio richiedendo alle banche ed agli intermediari in generale di dotarsi di risorse specializzate, a cui sono affidati ruoli,  compiti e responsabilità (come ad esempio per il responsabile aziendale per l’antiriciclaggio) nonché  idonee procedure, funzioni organizzative ed architetture interne per garantire l’osservanza degli obblighi di adeguata verifica della clientela, di attribuzione agli stessi di profilo di rischio preventivo e di segnalazione delle operazioni sospette oltre che sulla conservazione della documentazione nell’apposito archivio unico informatico e delle evidenze dei rapporti e delle operazioni.

Tali obblighi nascono sia al momento di instaurazione di un rapporto continuativo con i propri clienti, che nel corso di svolgimento dello stesso ed, in ogni caso, quando si eseguono operazioni per i clienti occasionali che comportano la trasmissione o la movimentazione di mezzi di pagamento di importi pari o superiori ad una prefissata soglia e consistono nell’identificare il cliente, nell’ottenere dallo stesso informazioni sullo scopo e sulla natura prevista dal rapporto continuativo quale ad esempio conti correnti, depositi a risparmio bancari, custodia e amministrazione di strumenti finanziari, ecc. e, infine, nello svolgere un controllo costante sul rapporto medesimo nel corso del tempo ed eventualmente anche nel richiedere informazioni circa l’origine dei fondi utilizzati.  E’ palmare che gli oneri citati impegnano la banca o l’intermediario anche nel momento in cui utilizzano la provvista detenuta dalla banca per l’acquisto di oggetti preziosi che il citato intermediario si incarica di vendere allo sportello, atteso che, infatti, questi obblighi di verifica della clientela incombono sulla banca tanto quale destinataria diretta della disciplina antiriciclaggio, quanto quale tramite di altro soggetto destinatario della normativa stessa cui metterà a disposizione le informazioni acquisite.

Quanto osservato ha, secondo noi, dunque, una importante conseguenza nel fatto che la banca e/o l’intermediario non potranno mai sostenere di non conoscere il contratto (e le relative prestazioni) per cui hanno prestato la propria attività di intermediazione dovendo avere al proprio interno apposite risorse specializzate, idonee procedure, funzioni organizzative ed architetture interne che pur poste in essere per diverse finalità caricano una serie di oneri anche per tali rapporti.

Infine va segnalato che chi  acquista beni preziosi presso uno sportello bancario, gode della tutela accordata dall’ordinamento al consumatore. La disciplina in materia ritiene, infatti, un soggetto meritevole di una particolare tutela nell’atto del consumo di un bene laddove lo stesso agisca “per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta” (ex art. 3, comma 1, lett. a, Cod. cons.). Il consumatore dunque avrà la legittima aspettativa di avere dal venditore (nel nostro caso banche e/o intermediario finanziario) l’esercizio di qualsiasi pratica commerciale improntata secondo principi di buona fede, correttezza e lealtà (cfr. art. 2, comma 2, lett. c-bis, Cod. cons.).

Tale diritto tutela, in primo luogo, il consumatore contro le pratiche commerciali scorrette per tali intendendosi “qualsiasi azione, omissione, condotta o dichiarazione, comunicazione commerciale ivi compresa la pubblicità e la commercializzazione del prodotto, posta in essere da un professionista, in relazione alla promozione, vendita o fornitura di un prodotto ai consumatori” (art. 18, comma 1, lett. d, Cod. consumatore). Come è stato acutamente osservato, la scorrettezza del modus operandi della banca o dell’intermediario deriva in primis dalla contrarietà alla diligenza professionale, che come  ha avuto modo di affermare dall’Autorità garante della Concorrenza e del Mercato, va intesa nel senso che nei rapporti con la clientela la banca è tenuta a conformare la propria attività – sia prima, sia durante, sia dopo un’operazione commercialeex art. 19, comma 1, Cod. cons. – agli stessi canoni di elevata diligenza professionale che essa deve avere nella propria attività interna (elevata attenzione al rispetto delle complesse normative applicabili all’attività ed elevata fedeltà aziendale dei dipendenti). Il principio così fissato è quello secondo cui tanto maggiore è la legalità specifica che caratterizza l’attività esercitata da un imprenditore, tanto maggiore deve essere la diligenza professionale che il consumatore può aspettarsi e che l’ordinamento esige dallo stesso imprenditore.

Ulteriore elemento che va tenuto in conto è l’idoneità della condotta tenuta dalla banca e/o dall’intermediario a falsare il comportamento del consumatore “medio” (art. 20, comma 2, Codice cons.) che, nel caso di pratiche commerciali indirizzate ad un ben individuabile gruppo di consumatori, particolarmente vulnerabile, deve essere rilevato con riferimento a tale gruppo (art. 20, co. 3, c. cons.), e quindi al consumatore medio bancario.

7. Conclusioni

Tutto ciò premesso, appare potersi rilevare che la disciplina in materia di commercializzazione di beni preziosi e sulla commercializzazione di tali prodotti attraverso il canale bancario non sia tale da consentire di attrarre l’operatività al controllo assegnato dal legislatore alla Consob.

Ad escluderlo c’è in primo luogo il ruolo assegnato alla Consob di vigilante sui  valori mobiliari, strumenti finanziari  ed i prodotti finanziari, con la precisazione  che mentre ai primi due si applica la disciplina dei servizi e delle attività di investimento, all’ultima categoria, quella dei prodotti finanziari appunto, si applica la disciplina dell’offerta al pubblico oltre che quella di acquisto o scambio.

Pertanto, di fronte ad una proposta commerciale effettuata da un intermediario finanziario, non sarebbe sufficiente l’elemento soggettivo relativo all’essere un distributore una banca o un intermediario finanziario, ma va considerato anche l’elemento del bene che è oggetto di intermediazione, di cui occorre indagare l’essere o meno un bene di consumo. E’ in questo elemento che va, dunque, a parere dello scrivente e come riteniamo di aver sopra argomentato, che va trovato lo spartiacque al fini di non vanificare i poteri di intervento di cui è dotato l’autorità di vigilanza.

Più nel dettaglio, com’è noto, ai fini della qualificazione di un’offerta al pubblico e dell’applicabilità della disciplina oggetto delle norme sopra richiamate è infatti sempre necessaria la sussistenza di un “prodotto finanziario”.

Pertanto, in concreto, va verificato se l’oggetto dell’investimento proposto possa ritenersi un prodotto finanziario ai sensi dell’art. 1, comma 1, lett. u), del TUF.

Ciò significa che è necessario verificare nel concreto lo schema del contratto proposto. Qualora, sulla scorta delle informazioni disponibili,  dovesse emergere che la  funzione primaria ed essenziale del contratto fosse  quella di impiego di capitale per l’acquisto del bene prezioso con il fine del godimento materiale e diretto del bene da acquistare e non già la massimizzazione del valore del capitale impiegato per la realizzazione di un profitto in denaro, non verrebbero ad assumere valore qualificante la possibilità per l’investitore di liquidare i beni acquistati, senza certezza alcuna, né l’eventuale promessa fatta in sede di vendita di un apprezzamento economico.

Come sottolineato, infatti, l’investimento di natura finanziaria comprende ogni conferimento di una somma di denaro da parte del risparmiatore con un’aspettativa di profitto o di remunerazione, vale a dire di attesa di utilità monetaria a fronte delle disponibilità investite, in un intervallo determinato da un orizzonte temporale, e con l’assunzione di un rischio correlato all’impiego di capitale e a nulla vale la circostanza che vi sia un’enfasi promozionale circa la possibilità che il valore del bene prezioso si conservi ovvero aumenti nel tempo non potendo il “confezionamento” dell’offerta mutare le caratteristiche del prodotto.

Altro discorso è l’eventuale rilevanza di quanto rappresentato ai fini della valutazione in sede civilistica dell’eventuale comportamento scorretto dell’impresa.

 


[1] Il primo (TULPS) adottato con R.D. 18 giugno 1931, n. 773 ed il Regolamento col  Regio Decreto 6 maggio 1940, n. 635.

[2] M. Condemi e F. De Pasquale, Lineamenti della disciplina internazionale di prevenzione e contrasto del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo, in Quaderni di Ricerca Giuridica della Banca d’Italia, n. 60, febbraio 2008; id., Profili internazionali dell’attività di prevenzione e contrasto del riciclaggio di capitali illeciti, Ufficio Italiano dei Cambi, 2004.

[3] A livello globale, peraltro, è prevista una attività di coordinamento ed indirizzo delle politiche di antiriciclaggio volte a tutelare il sistema finanziario globale appunto contro il riciclaggio di danaro ed il finanziamento al terrorismo, gestita dalla Financial Action Task Force (in breve, FATF) che  è un corpo intergovernativo indipendente che sviluppa e promuove politiche. Esso è composto da Argentina, Australia Austria, Belgio, Brasile, Canada, Cina, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Hong Kong, Islanda, India, Irlanda, Italia, Iran, Repubblica della Corea, Lussemburgo, Malesia, Messico, Olanda, Nuova Zelanda, Norvegia, Portogallo, Federazione Russa, Singapore, Sud Africa, Spagna, Svezia, Svizzera, Turchia, Regno Unito, Stati Uniti, cui vanno aggiunte la Commissione Europea e il Gulf Co-operation Council.

[4] Cfr. “Report”, intitolato “Occhio al portafoglio” andato in onda su Rai3 il 17 ottobre 2016.

[5] Cfr. Report, Money Laundering and Terrorist Financing Through Trade in Diamonds, ottobre 2013, http://www.fatf-gafi.org/media/fatf/documents/reports/ML-TF-through-trade-in-diamonds.pdf.

[6] I certificati più diffusi sono quelli dell’Hoge Raad voor Diamant dell’Alto Consilgio dei Diamanti, dell’Istituto Gemmologico Internazionale (www.igiworldwide.com) e del Gemmological Institute of America. Per la valutazioni peritali compiute in Italia da parte dei consulenti tecnici di ufficio dei diamanti si veda l’interessante scritto di S. Sardelli, Gioielli e principio di parità di trattamento degli azionisti: un contributo impossibile?, in Giur. comm., 2016, I, p. 516 e ss.

[7] In effetti, in questo ambito, come noto, alla Consob è attribuita la funzione di garantire la parità informativa tra gli operatori che intervengono nel sistema finanziario (emittenti,  intermediari, investitori istituzionali e risparmiatori), ossia fare in modo che agli stessi vengano messe a disposizione tutte le informazioni necessarie per compiere scelte consapevoli ed efficienti. Viceversa alla Banca d’Italia persegue la sana e prudente gestione degli intermediari, la stabilità complessiva e l’efficienza del sistema finanziario, nonché l’osservanza delle disposizioni che disciplinano la materia da parte dei soggetti vigilati, mentre, all’Istituto per la Vigilanza sulle Assicurazioni, infine, è dato il ruolo di operare per garantire la stabilità del mercato assicurativo e la tutela del consumatore di contratti assicurativi.

[8] La Corte di Cassazione , in proposito,  ha sostenuto che “gli investimenti di natura finanziaria, per essere assoggettati ai controlli (…) in quanto prodotti finanziari, debbono rispondere a caratteristiche economico – giuridiche che, se pur non tali da consentirne la riconduzione alla gamma delle fattispecie tipiche (di strumenti finanziari) elencate nel citato comma 2 (dell’art. 1 del TUF), siano quanto meno oggettivamente analoghe”.

[9] D. Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58

[10] La cui definizione è contenuta, rispettivamente, nell’art. 1, comma 1-bis,  nel comma 2, e nel comma 1, lett. u) del TUF.

[11] Per tutti sul tema si vedano: R. Costi, Il mercato mobiliare, VI ed. Torino, 2014, 11 ss.; F. Annunziata, La disciplina del mercato mobiliare, VII ed., Torino, 2014, 317 ss.; M. Fratini, Prodotti finanziari, valori mobiliari e strumenti finanziari, in Fratini, M. – Gasparri, G., a cura di, Il testo unico della finanza, I, Torino, 2012, sub art. 1, 20 ss.; F. Accettella, Il collocamento di strumenti finanziari, Milano, 2013, 16 ss.; F. Annunziata, Appello al pubblico risparmio, in La disciplina delle società quotate nel testo unico della finanza D. Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, a cura di Marchetti e Bianchi, Tomo I, Milano, 1999, p. 86.

[12] M. Miola, Obblighi degli offerenti, in Testo unico della finanza – Commentario (diretto da Campobasso), Torino, 2002, sub. art. 94, p. 798 e ss.

[13] Con la comunicazione Consob n. 97006082 del 10 luglio 1997 era stato affermato che devono intendersi operazioni di investimento in attività finanziarie “quelle operazioni in cui la raccolta di fondi avviene a fronte di una redditività riconosciuta direttamente dal proponente o comunque da questi prospettata, cioè quelle operazioni in cui il risparmiatore sollecitato affidi il proprio denaro a terzi allo scopo di ricavare un profitto accrescendo le disponibilità investite”.

[14] Per una completa disamina del rischio finanziario, vedasi A.Lupoi, “ I prodotti finanziari nella realtà del diritto: rilevanza del rischio finanziario quale oggetto dell’operazione d’investimento” in  Diritto dell’economia,  n.3/2016  .

[15] Cfr. Delibera Consob n. 14454 del 2 marzo 2004.

[16] L’elemento causale dei contratti sottoscritti dai clienti della banche con la società venditrice (secondo lo schema sottoposto in passato all’attenzione della Consob) è il trasferimento della proprietà dei diamanti (ex art. 1470 c.c.). Non essendo previsto ex ante alcun patto di riacquisto dei diamanti, l’acquirente può ricevere assistenza nell’eventuale fase di successiva rivendita dei diamanti da parte della società venditrice conferendole apposito mandato remunerato

[17] P. Vedi, Ferro-Luzzi, Attività bancaria e attività delle banche, in Banca impresa società, 1996 Id., L’attività delle banche, in La nuova disciplina dell’impresa bancaria (a cura di U. Morera e A. Nuzzo), 1996.

[18] Sul tema cfr.Belli, Losappio, Porzio, Rispoli Farina, Santoro (a cura di),Testo unico bancario, Milano, 2010; Galanti (a cura di), Diritto delle banche e degli intermediari finanziari, Padova, 2008 e A. Nigro, L’integrazione fra l’attività bancaria e l’attività assicurativa: profili giuridici, in Dir. banca e mercato fin., I, 199, 190 e ss.

[19] P. Ferro-Luzzi, op.loc.ult.cit.

[20] Cfr. A. Nigro, L’integrazione fra attività bancaria e attività assicurativa: profili giuridici, in Dir. Banca, 1997, I, p. 190 e ss. e F. Belli e G.L. Greco, I servizi bancari, in I contratti bancari (a cura di E. Capobianco), Torino, 2016, p. 1539 che richiamano anche C. Motti, Commento all’art. 10, in Belli ed al. (a cura di), Commento al d.lg. 1° settembre 1993, n. 385, Bologna, 2003, p. 191 e G. Minervini, Le attività non bancarie della banca, in Bancaria, n. 11, 2000, p. 23 e ss.

[21] Cfr. Comunicato Banca d’Italia del 15 gennaio 1998 in Boll. Vig. B.I., 1998, 1, 3, cit.

[22] Rischio reputazionale che, secondo al Circolare della Banca d’Italia n. 263/2006, è “il rischio attuale o prospettico di flessione degli utili o del capitale derivante da una percezione negativa dell’immagine della banca da parte dei clienti, controparti, azionisti della banca, investitori o autorità di vigilanza”.

[23] G. Castaldi, La nuova disciplina dell’attività bancaria nella normativa primaria e secondaria, in Bancaria, ottobre, 1994, p. 67 e ss.

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