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Giurisprudenza

L’abuso del diritto in ipotesi di leveraged buy-out

13 Ottobre 2016

Francesca Solari, Dottoressa patrocinatrice presso lo Studio Legale Piovani&Marcheselli, Genova

Cassazione Civile, Sez. V, 9 agosto 2016, n. 16675

Di cosa si parla in questo articolo

Con la sentenza in epigrafe, la Corte di Cassazione, nel giudicare la legittimità di un procedimento di accertamento relativo alla presunta abusività di un’operazione di leveraged buy-out, si è pronunciata in ordine alla forza interpretativa della nuova disciplina dell’Abuso del diritto, prevista ex art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente. Sul punto la Corte, pur non attribuente all’art. 10-bis un’efficacia retroattiva stricto sensu, ha tuttavia rilevato che tale disposizione “rappresenta indubbiamente un termine interpretativo di riferimento, sia pure in chiave evolutiva”. La sentenza merita altresì di essere segnalata in quanto ha confermato l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale, nel caso in cui venga contestata al contribuente l’abusività di un’operazione, spetta all’Amministrazione finanziaria addurre la prova sia del disegno elusivo sia delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato e perseguiti solo per pervenire a quel risultato fiscale […] mentre grava sul contribuente l’onere di allegare l’esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti che giustifichino operazioni in quel modo strutturate. Inoltre non è configurabile l’abuso del diritto se non sia stato provato dall’ufficio il vantaggio fiscale che sarebbe derivato al contribuente accertato dalla manipolazione degli schemi contrattuali classici. Con ciò avvalorando l’imprescindibile compito del giudice, in ordine alla necessità di enucleare, nella motivazione, tali argomentazioni delle parti.

Con specifico riguardo al caso di specie, si evidenzia ulteriormente che la Suprema Corte, data un’operazione di leveraged buy-out, nella quale l’acquirente aveva acquistato l’intero capitale sociale di una società “ad un prezzo identico per ogni azione acquistata, a prescindere se dai soci di minoranza o di maggioranza”, ha escluso l’abusività di un parallelo “accordo interno di aggiustamento del prezzo” stipulato dai soci venditori, erroneamente ritenuto dall’Agenzia come una forma di corrispettivo dissimulato, motivando la propria decisione sostanzialmente sulla base di due considerazioni.

Da un lato, invero, la Corte ha rilevato che il contribuente ha efficacemente individuato la valida ragione economica dell’accordo nel “riallineare internamente (ossia tra le parti venditrici) i prezzi di cessione delle diverse partecipazioni (…) retrocedendo legittimamente, congruamente e coerentemente al socio di maggioranza il premio di maggioranza, che altrimenti sarebbe stato percepito indebitamente (sotto il profilo economico) dai soci di minoranza”.

Dall’altro lato, ha escluso l’indebito vantaggio fiscale del contribuente stesso, evidenziando che “l’operazione economica alternativa a quella concretamente realizzata (…) avrebbe sì realizzato una plusvalenza più elevata, ma questa sarebbe comunque stata esente ai fini Ires ex art. 87 del t.u.i.r.”.

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