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Note

Investimenti fuori sede e difetto di indicazione della facoltà di recesso

4 Giugno 2013

Daniele Maffeis

Le Sezioni Unite della Corte di cassazione, Estensore Rordorf, con la sentenza n. 13905 in data 3 giugno 2013, prendono posizione su una questione di massima di particolare importanza, ai sensi dell’art. 374, comma 2 cod. proc. civ., e statuiscono il seguente principio di diritto: “il diritto di recesso accordato all’investitore dal sesto comma dell’art. 30 del d. lgs. n. 58 del 1998 e la previsione di nullità dei contratti in cui quel diritto non sia contemplato, contenuta nel successivo settimo comma, trovano applicazione non soltanto nel caso in cui la vendita fuori sede di strumenti finanziari da parte dell’intermediario sia intervenuta nell’ambito di un servizio di collocamento prestato dall’intermediario medesimo in favore dell’emittente o dell’offerente di tali strumenti, ma anche quando la medesima vendita fuori sede abbia avuto luogo in esecuzione di un servizio d’investimento diverso, ove ricorra la stessa esigenza di tutela”.

Com’è noto, il sesto comma dell’art. 30 del TUF dispone, nel regime post MiFID (ma non diversamente, per quello che qui interessa, nel regime precedente) che “l’efficacia dei contratti di collocamento di strumenti finanziari o di gestione di portafogli individuali conclusi fuori sede è sospesa per la durata di sette giorni decorrenti dalla data di sottoscrizione da parte dell’investitore. Entro detto termine l’investitore può comunicare il proprio recesso senza spese né corrispettivo al promotore finanziario o al soggetto abilitato; tale facoltà è indicata nei moduli o formulari consegnati all’investitore. La medesima disciplina si applica alle proposte contrattuali effettuate fuori sede” ed ai sensi del comma 7 “l’omessa indicazione della facoltà di recesso nei moduli o formulari comporta la nullità dei relativi contratti, che può essere fatta valere solo dal cliente”.

Le Sezioni Unite si distaccano, ora, dall’opposta lettura adottata con le sentenze della Prima Sezione, in data 14 febbraio 2012, n. 2065 (massima: “Il diritto di recesso previsto a favore dell’investitore per i contratti conclusi fuori sede e la connessa sanzione della nullità del contratto per la mancata comunicazione all’investitore del diritto di recesso medesimo non si applica al contratto per la prestazione del servizio di negoziazione di strumenti finanziari (nella specie, acquisto di bond Cirio stipulato con la banca intermediaria”) ed in data 22 marzo 2012, n. 4564( massima: “in materia di servizi d’investimento, l’art. 1, 5º comma, testo unico delle disposizioni in materia d’intermediazione finanziaria (tuf) ne chiarisce la natura di singole specie, rientranti in un unico genere, che fruiscono di una disciplina tra loro comune, ma talvolta differenziata in relazione al particolare tipo di servizio, onde, in applicazione del criterio d’interpretazione letterale, laddove l’art. 30, 6º comma, stesso testo unico si riferisce ai contratti di collocamento di strumenti finanziari o di gestione di portafogli individuali, intende dettare una disciplina peculiare, come tale limitata a siffatte tipologie di contratti con esclusione degli altri elencati nel citato art. 1, ivi compresa la negoziazione di titoli”).

Costituiva invece una fattispecie peculiare – interessantissima, perché involgente il tema, centrale, dell’individuazione della natura giuridica di operazioni di investimento caratterizzate da un finanziamento accompagnato dall’acquisto di uno strumento finanziario – quella decisa dalla stessa Prima Sezione con la sentenza n. 1584 in data 3 febbraio 2012 (massima: “Qualora le somme erogate ad un cliente con un contratto di finanziamento siano immediatamente utilizzate nell’investimento in valori mobiliari, costituiti in pegno a favore della banca erogatrice del finanziamento e a garanzia dello stesso, si determina una complessa fattispecie che integra, non già il servizio accessorio previsto dall’art. 1, 6º comma, lett. c), d.leg. n. 58 del 1998, ma un unico «strumento finanziario», il quale – se negoziato «fuori sede» – è assoggettato, a pena di nullità, all’obbligo previsto dall’art. 30 d.leg. cit. di indicare nei moduli o formulari dei relativi contratti la facoltà di recesso del risparmiatore”).

La sentenza ha molti meriti.

Intanto, il principio di diritto, calibrato sulla ratio legis (non sulla littera: quod deus adversat) è condivisibile.

Poi, la Sezioni Unite si discostano – pacatamente, e serenamente, come dev’essere, e dicendolo, a pagina 12 della motivazione –  dall’opposta soluzione suggerita da Consob nella Comunicazione n. DIN/12030993 in data 19 aprile 2012.

Tuttavia, il principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite in data 3 giugno 2013 è solo apparentemente chiaro ed univoco.

Lo è dal punto di vista dell’identificazione dell’ambito di applicazione del precetto: non soltanto il rapporto tra intermediario e investitore che integra al lato dell’intermediario l’esecuzione del servizio di collocamento, bensì anche qualsiasi altro rapporto tra intermediario ed investitore che ha luogo fuori sede, in particolare in esecuzione di un contratto di esecuzione di ordini per conto del cliente.

Dunque, il precetto, nella misura in cui estende il suo ambito di applicazione, è ora rafforzato.

Ma il principio di diritto non è chiaro ed univoco dal punto di vista del contenuto del precetto. Anzi, potrebbe essere, ora, indebolito.

Difatti, a pagina 13 della motivazione, la sentenza affronta il problema dei possibili “comportamenti opportunistici da parte dell’investitore” derivanti dal fatto che “durante il periodo di sospensione degli effetti del contratto le condizioni di mercato potrebbero mutare”, con la conseguenza che l’investitore potrebbe decidere di fare valere la nullità sancita dal comma 7 perché a ciò indotto dalle “oscillazioni di valore” (problema non inedito, naturalmente, anzi ben noto ed approfondito dalla dottrina specialistica: cfr. M. Maggiolo, Servizi ed attività d’investimento, in Trattato Cicu – Messineo – Mengoni cont. da Schlesinger, Padova, 2012, p. 312, nota 337 e p. 314).

Ebbene, questo problema – il classico tema dell’“opportunismo” dell’investitore – non è considerato, dalle Sezioni Unite, irrilevante – come avrebbe potuto, sulla scorta del rilievo che, statuita una causa di nullità, è insindacabile lo scopo, il fine, il motivo, per cui il contraente legittimato la faccia valere – bensì è considerato rilevante. Tuttavia, secondo le Sezioni Unite, esiste una concorrente regola che può mitigare, o eliminare, il pericolo di comportamenti opportunistici: osserva la Corte di cassazione che “il rischio di un utilizzo non corretto del diritto di recesso potrà eventualmente, ove si dia il caso, essere neutralizzato invocando il principio generale di buona fede, che deve presidiare qualsiasi rapporto contrattuale”.

Grande principio, dunque, ma che, forse, desinit in piscem.

Perché altro è dire che l’investitore è legittimato a fare valere una causa di nullità, altro è dire che lo è, a condizione che l’esercizio dell’azione sia conforme a buona fede, il che vuol dire – qui, a detta delle stesse Sezioni Unite – che esso non sia opportunistico.

Più in generale, altro è dire una la causa di nullità opera se ne ricorrono i presupposti strutturali, altro è dire che la causa di nullità opera se, oltre a ricorrerne i presupposti strutturali, il contraente legittimato non eserciti l’azione al fine di conseguirne un guadagno.

Questa seconda affermazione vanta probabilmente un nobilissimo retroterra, che è rappresentato dalla teoria dell’abuso del diritto. Ma nell’abuso del diritto si può non credere affatto.

Comunque, nel caso di specie l’affermazione è, a mio avviso, insostenibile ed ingenua.

Cominciando dall’ingenuità, basterà osservare che, dacché mondo è mondo, l’azione di nullità – anche a voler trascurare l’aquisizione dottrinale ormai molto, molto risalente, che presenta molte nullità testuali come vere e proprie “sanzioni civili indirette” (cfr. F. Galgano, Alla ricerca delle sanzioni civili indirette, premesse generali, in Contr. e impr., 1987, p. 536) – è un modo, se si vuole, per speculare, anche quando l’oggetto del contratto della cui nullità si tratta, e l’oggetto dell’azione di ripetizione, non sia rappresentato da strumenti finanziari o da altri beni o servizi per loro natura aleatori. Basta pensare all’azione di ripetizione, per equivalente, di una prestazione divenuta materialmente irrestituibile (es. azioni di società oggetto di fusione successivamente al contratto di compravendita). Basta pensare più in generale all’azione di nullità di qualsiasi compravendita immobiliare, in cui le oscillazioni del valore di mercato dell’immobile contano assai più delle tesi giuridiche in discussione.

Venendo all’insostenibilità, bisogna osservare che l’idea stessa di opportunismo – o, con qualche variante, di paternalismo – elaborata dalle dottrine economiche, e adottata del tutto acriticamente da alcuni giuristi come strumento di lavoro, è stata bensì fatta propria da una parte della giurisprudenza di merito – basta pensare alla giurisprudenza del Tribunale di Verona sulla asserita convalidabilità della nullità relativa, per difetto di forma, dei contratti bancari e finanziari (cfr. Trib. Verona, 23 marzo 2010, in Rass. dir. civ., 2011, p. 1276; in dottrina D. Semeghini, Forma ad substantiam e exceptio doli nei servizi di investimento, Milano, 2010) – ma è del tutto antinomica rispetto alla scelta di fondo del legislatore comunitario, e quindi del legislatore interno, che è quella di limitare all’investitore la legittimazione a fare valere particolari cause di nullità e ciò al fine di disincentivare l’intermediario dal prestare scarsa attenzione al rispetto di vincoli di condotta e segnatamente di prescrizione di forma e di contenuto.

In questa prospettiva, è da criticare l’idea stessa di fondare sulla “buona fede” un richiamo all’opportunismo al fine di contrastare quella che indiscutibilmente è una scelta legislativa di ordine pubblico di direzione. Tanto più nel contesto di una sentenza pregevole, che proprio sulla lucidissima ricostruzione della ratio legis fonda, dichiaratamente, la ricostruzione, ampiamente indagata e meditata, del perimetro del precetto, e della conseguente sanzione.

Da ben prima che diventasse di moda parlare di opportunismo, o di paternalismo, e cioè di nozioni economiche, il giurista conosce una nozione che è, innanzitutto, un istituto giuridico: l’interesse ad agire, il quale spiega perfettamente che il contraente legittimato – a maggiore ragione, qui, e non a caso l’unico legittimato – eserciti l’azione di nullità se, quando, perché, esclusivamente perché, ciò gli conviene, conti alla mano.

Basta questo per spiegare che, se la legge concede all’investitore sette giorni per pentirsi, l’investitore può pentirsi, e ha sette giorni per farlo e che, se la legge prevede la nullità per difetto di indicazione della facoltà di recesso, l’investitore può esercitarla, anche a distanza di tempo.

Insomma, il riferimento delle Sezioni Unite alla “buona fede” si pone del tutto fuori dal solco di altre ben note sentenze di legittimità – che richiamano l’eccezione di dolo in casi di vera e propria frode nell’esercizio dell’azione (basti richiamare Cass., 20 marzo 2009, n. 6896, in Foro it., Rep. 2009, voce “Contratto in genere”, n. 437; Cass., 7 marzo 2007, n. 5273, in Banca, borsa tit. cred., 2007, II, 69) – e sembra davvero giustificare una “accanita reazione”: quella di recente descritta come l’“accanita reazione della nostra dottrina a una giurisprudenza che coraggiosamente si impegna a scorgere nell’obbligo di buona fede e correttezza l’espressione di un generale principio di solidarietà la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica” (così F. D. BUSNELLI, Il principio di solidarietà e l’attesa della povera gente, oggi, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2013, p. 417).

In materia, l’“accanita reazione” può essere sintetizzata così: con il vivo auspicio che la exceptio doli sia rettamente intesa (A.A. Dolmetta, Exceptio doli generalis, in Banca borsa tit. cred., 1998, I, p. 147) e che il riferimento delle Sezioni Unite alla “buona fede” sia espunto dalla massima che si ricaverà dalla sentenza, e che non si concretizzi la clausola generale di buona fede elaborando in materia di contratti dell’intermediazione finanziaria una regola in forza della quale l’investitore non può esercitare l’azione di nullità, a lui testualmente riservata in via esclusiva, proprio quando gli serve.

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