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Giurisprudenza

L’imposta di registro richiede l’interpretazione unitaria del negozio

8 Marzo 2017

Andrea Di Gialluca, Dottore Commercialista

Cassazione Civile, Sez. V, 10 febbraio 2016, n. 2636

Nella sentenza in esame la Suprema Corte ha avuto modo di ribadire diversi importanti principi in materia di imposta di registro, tra cui quello relativo alla interpretazione unitaria del negozio giuridico, anche se frazionato in atti distinti.

La controversia origina da alcune operazioni di cessione di azienda realizzate da una società ed assoggettate ad imposta di registro. L’Agenzia delle Entrate aveva, tuttavia, ritenuto che dette operazioni non configurassero cessione di azienda in quanto il contribuente non aveva provato di aver ceduto tutti i rapporti inerenti al complesso aziendale e, segnatamente, i crediti ed i debiti aziendali; pertanto, aveva notificato al contribuente un atto di accertamento, ritenendo applicabile l’imposta sul valore aggiunto su singoli beni e diritti ceduti.

Il contribuente, impugnato l’atto presso la Commissione Tributaria Provinciale, risultava vittorioso nel primo grado di giudizio che, tuttavia, in appello veniva riformato a favore degli Uffici.

Giunto il ricorso del contribuente in Cassazione, quest’ultima ha, innanzitutto, ricordato che, poiché l'imposta di registro è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, è necessario dare rilievo preminente alla causa reale del negozio e alla effettiva regolamentazione degli interessi realmente perseguita dai contraenti[1]. E ciò in quanto, secondo la Suprema Corte, l’imposta di registro, essendo commisurata ad atti a contenuto economico, assunti dal legislatore come indici di capacità contributiva[2], si collega all'atto come negozio e non già all'atto come documento, con la conseguenza che occorrerà dare preminenza assoluta alla causa reale rispetto all’assetto cartolare[3].

La Corte di Cassazione ha, inoltre, ricordato che, nel caso specifico delle norme che disciplinano la cessione di azienda[4], l’imposta di registro, deve essere commisurata al valore complessivo dei beni che compongono l’azienda (e non già, dunque, al valore dei singoli beni e rapporti trasferiti). Tale nozione di azienda è, d’altronde, coerente con la disciplina[5] e la giurisprudenza comunitaria[6], che affermano che il trasferimento di un’azienda o di un suo ramo corrisponde al trasferimento dell’insieme di beni, materiali e immateriali, che complessivamente costituiscono un’impresa o una parte d’impresa idonea a continuare un’attività economica autonoma. Tale interpretazione, dunque, implica la necessità di assumere ad elementi della base imponibile anche i beni ed i rapporti diversi da quelli formalmente oggetto del contratto di cessione d'azienda, se comunque afferenti all'azienda ceduta ed oggetto della complessiva regolamentazione attuata.

Infine, la Suprema Corte ha ricordato che, avendo l’imposta di registro per oggetto il negozio giuridico e non l’atto documentale, richiede l’interpretazione unitaria dello stesso negozio, anche se frazionato in atti distinti. La prevalenza della “sostanza sulla forma” comporta, infatti, la necessità di verificare se sia configurabile il risultato di un comportamento sostanzialmente unitario rispetto ai risultati parziali e strumentali di una molteplicità di comportamenti formali[7].

Con queste premesse, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso del contribuente, affermando che definire quale sia, secondo la volontà dei contraenti, l'oggetto specifico del contratto, allo scopo di stabilire se quei determinati beni siano stati considerati nella loro autonoma individualità o non piuttosto nella loro unitaria e strumentale funzione, è tipico giudizio di fatto; giudizio riservato al giudice di merito, incensurabile (salvo alcune ipotesi, che nel caso di specie non ricorrevano) in sede di legittimità.



[1] In base ad un orientamento ribadito più volte; cfr. Cass. sent. 22 gennaio 2013, 1405; Cass. sent. 20 dicembre 2012, n. 23584; Cass. sent. 4 maggio 2007, n. 10273; Cass. sent. 7 luglio 2003, n. 10660; Cass. sent. 25 febbraio 2002, n. 2713.

[2] Cfr. Cass. sent. 4 maggio 2009, n. 10180.

[3] Cfr. Cass. sent. 4 febbraio 2015, n. 1955; Cass. 28 agosto 2013, n. 19752; Cass. sent. 30 maggio 2005, n. 11457; Cass. sent. 7 luglio 2003, n. 10660; Cass. sent. 23 novembre 2001, n. 14900.

[4] Art. 51, comma 4, t.u.r..

[5] Art. 19 Dir. 28 novembre n. 2006/112/CE.

[6] Cfr. Corte Giustizia UE, sent. 10 novembre 2011, causa C-444/10.

[7] Sul punto è citata Cass. sent. 25 febbraio 2002, n. 2713.


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