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Il lungo, articolato e complesso cammino dal fallimento al diritto della crisi

29 Agosto 2023

Maurizio Irrera, Professore Ordinario di Diritto Commerciale, Università degli Studi di Torino

Di cosa si parla in questo articolo

[*] SOMMARIO: Il presente scritto offre un quadro dell’evoluzione storica del diritto fallimentare dalle sue radici rinvenibili nelle legislazioni statutarie delle città italiane del Basso Medioevo sino al Codice della crisi e dell’insolvenza, oggi vigente.  L’obiettivo è quello di delineare i principi di fondo che nelle varie epoche storiche hanno connotato la disciplina della crisi. Un’attenzione particolare è dedicata al travagliato percorso che ha portato all’emanazione del Codice della crisi; viene, infine, offerto uno sguardo di sintesi al catalogo degli strumenti messi a disposizione del debitore dal Codice.

ABSTRACT: The present text provides an overview of the historical evolution of bankruptcy law from its roots found in the statutory regulations of Italian cities during the Late Middle Ages to the current Code of Crisis and Insolvency. The aim is to outline the fundamental principles that have characterized the discipline of crisis management in various historical periods. Special attention is given to the complex journey that led to the enactment of the Code of Crisis; finally, a concise look is offered at the array of tools provided to debtors by the Code.


1. L’evoluzione

1.1. Dagli statuti comunali del Basso Medioevo al Codice di commercio del 1882

L’attuale sistema normativo che disciplina il diritto della crisi e dell’insolvenza costituisce il punto di approdo di un lungo percorso, che affonda le proprie radici – almeno con riguardo alle attività d’impresa – nelle legislazioni statutarie delle città italiane del Basso Medioevo.

L’origine storica della disciplina del diritto della crisi si pone in stretto rapporto con lo sviluppo dei traffici mercantili. Il rinascimento medievale determina il passaggio dall’epoca feudale a quella dei Comuni, caratterizzata dall’abbandono di un’economia fondata sull’autosufficienza e dall’apertura ad un’“economia di mercato” fondata sugli scambi commerciali.

In questo panorama, il mercante assume il ruolo di figura chiave. La classe mercantile, in quanto portatrice di nuova ricchezza, si afferma quale detentrice anche del potere politico assurgendo al ruolo di classe dirigente, capace di condizionare perfino i vari aspetti legislativi della società dell’epoca. Quest’ultima è informata ad una logica prevalentemente corporativa, con la conseguenza che il pregiudizio in cui, per avventura, incorre uno dei membri della categoria si estende fisiologicamente a tutti gli operatori della stessa. Per questo motivo, la società dei mercanti pretende dai propri membri rigore e lealtà negli scambi e l’osservanza di rigide regole interne, proprio al fine di tutelare i traffici commerciali rispetto alle conseguenze negative scaturenti dall’inadempimento delle obbligazioni da parte di uno degli appartenenti ad una corporazione, tale da incrinare il regolare ed ordinato svolgimento delle attività della stessa.

Dal suo primo apparire, il diritto fallimentare nasce, quindi, come disciplina applicata quasi esclusivamente ai mercanti (parte consistente degli statuti comunali indica, infatti, il diritto fallimentare come la normativa speciale del ceto mercantile), i quali, in caso di insolvenza, sono assoggettati a regole molto severe.

I precetti in materia sono pochi, non organici e ovviamente ogni Comune ha un proprio sistema normativo; chiaro ne è però il tratto caratterizzante, fortemente punitivo per il debitore, che non ammette giustificazioni di sorta sulle ragioni che hanno causato l’insolvenza e sintetizzabile nel noto aforisma di Baldo degli Ubaldi “si fallitus, ergo fraudator“.

All’insolvenza seguono, dunque, conseguenze significativamente afflittive: in molti Comuni, ad esempio, al fallito viene comminata una pena cosiddetta “d’infamia” ovvero l’umiliazione e l’esposizione al pubblico ludibrio. Emblematico è il fatto che il termine “bancarotta” deriva dall’uso medievale per i venditori di sfasciare il banco al mercante divenuto insolvente. Significativo, poi, è che il fallito viene denominato semplicemente “fugitivus”, il fuggitivo.

La legislazione delle città italiane è considerata il fondamento delle normative moderne in materia di fallimento: diffusasi in Europa, con il contributo determinante dei mercanti italiani, confluisce nella Ordonnance de Commerce del 1673 promulgata in Francia durante il regno di Re Luigi XIV.

Tale testo costituisce l’antesignano diretto della nostra legislazione e marca il passaggio da una disciplina privatistica dell’insolvenza ad una più spiccatamente pubblicistica, seppur sempre dominata dall’interesse dei creditori. Nei primi nove articoli si trovano sanciti quasi tutti i caratteri del diritto fallimentare moderno: l’esecuzione sulla totalità dei beni del debitore nell’interesse di tutti i creditori; la formazione di un patrimonio separato; la disciplina dell’azione revocatoria; la distinzione fra i creditori privilegiati e ipotecari, da un lato, e i chirografari, dall’altro; l’introduzione di una differenziazione tra fallito, da una parte, e bancarottiere, dall’altra.

La disciplina fallimentare dell’Ordonnance confluisce, con revisioni piuttosto modeste, nel Code Napoleon del 1807, poi nella legge francese sui fallimenti del 1838, quindi da lì nel Codice albertino del 1842, che rappresenta la prima normativa fallimentare italiana, poi trasfusa nel primo Codice di commercio successivo all’unità d’Italia: quello del 1865.

La disciplina fallimentare nel Codice di commercio postunitario, contenuta nel Libro III, si caratterizza, in ideale continuità con quella dell’Ordonnance, per l’ampio potere attribuito all’organo gestore della procedura ovvero i sindaci, nominati dai creditori, e per il correlativo ridotto potere del giudice, al quale spettavano solo funzioni di vigilanza. Viene altresì facilitata, mediante la regola maggioritaria (artt. 618-620), la conclusione di un concordato fra il debitore ormai dichiarato fallito e i creditori; concordato che, se regolarmente adempiuto, consente al fallito di evitare alcune delle conseguenze civili della dichiarazione di fallimento

La predisposizione di un nuovo Codice di commercio inizia sin da subito; già nel 1869 iniziano i lavori che, dopo un progetto preliminare del 1872, portano, dopo un lungo e interessante dibattito parlamentare, al Codice di commercio del 1882. Ad onor del vero, tale codice non apporta grandi innovazioni in materia di fallimento: ai sindaci si sostituisce la figura del curatore, ma molto del sistema previgente resta intatto.

Nonostante l’attività legislativa si avvii verso un’ottica di modernizzazione, è ancora evidente e sentito nel Codice di commercio del 1882 il carattere sanzionatorio-afflittivo del fallimento, tanto che il legislatore non è preoccupato più di tanto di focalizzare l’attenzione sul presupposto oggettivo della procedura. Infatti, l’art. 543, norma capofila del libro III, al primo comma si limita a prevedere che “il commerciante che cessa di fare i pagamenti, è in istato di fallimento”, individuando nella mera interruzione dei pagamenti (e non nello stato di insolvenza) la ragione per il fallimento.

1.2. La Legge Fallimentare del 1942

Il Codice di commercio del 1882, pur se affiancato da importanti interventi in materia fallimentare, rimane in vigore fino al 1942: all’esito di diversi progetti di riforma rimasti inattuati, nel 1942 viene emanata la nuova legge fallimentare (r.d. 16 marzo 1942, n. 267), che disciplina in maniera organica le procedure concorsuali.

L’impronta data dal legislatore è, ovviamente, quella corrispondente ai principi ed ai criteri economici e giuridici propri di quel periodo storico.

La legge fallimentare trova il proprio humus nella logica economica-giuridica dello Stato autoritario ed è fondata su una visione patrimonialistica di favor creditoris considerato quale interesse supremo. Da questo presupposto discende la finalità essenzialmente liquidatoria della procedura fallimentare, tendente allo smembramento dell’impresa fallita per garantire la maggior soddisfazione possibile del ceto creditorio.

Tale impostazione rende necessaria la previsione di un intervento penetrante del Tribunale e del Giudice Delegato in ogni attività procedimentale nell’ambito della procedura fallimentare. La gestione dell’insolvenza è affidata al Giudice Delegato, al quale sono attribuiti una serie di compiti e di poteri, oltre che – ovviamente – giurisdizionali, anche di carattere strettamente gestorio.

Altro aspetto peculiare è la correlazione effettuata sul piano dei principi tra insolvenza e colpevolezza dell’imprenditore. Il fallimento viene concepito come una sanzione nei confronti dell’imprenditore incapace che, in conseguenza dei suoi erronei comportamenti, deve essere spossessato del patrimonio ed assoggettato a restrizioni di tipo personale.

Esemplare della ratio punitiva e afflittiva che connota la Legge Fallimentare, nel suo testo originale, è ad esempio l’art. 15, secondo cui il Tribunale ha la facoltà – ma non l’obbligo – di sentire l’imprenditore nell’istruttoria prefallimentare. Nello stesso solco si pone l’originario art. 48 che impone al fallito di consegnare al curatore tutta la corrispondenza, ivi inclusa quella privata, e non solo le lettere ed i telegrammi, o ancora il divieto, sancito dall’art. 49, per il fallito di allontanarsi dalla propria abitazione di residenza senza il permesso del Giudice Delegato; il pensiero corre, da ultimo, alla disciplina del Pubblico Registro dei Falliti che, ai sensi dell’art. 50, comporta l’incapacità per il fallito ad assumere cariche sociali, quali quelle di amministratore, sindaco o revisore.

La legge fallimentare del 1942 disciplina, oltre alla procedura fallimentare (che costituisce il paradigma delle stesse), ulteriori procedure concorsuali, che, insieme al fallimento, costituiscono ed esauriscono la disciplina della crisi di impresa:

  • la liquidazione coatta amministrativa, procedura amministrativa di tipo liquidativo strutturalmente affine al fallimento, riservata a particolari categorie di imprese in funzione dell’interesse pubblico ad esso connesso;
  • il concordato preventivo, ovvero uno strumento che consente all’imprenditore insolvente, “onesto, ma sfortunato” e dunque meritevole, di evitare il fallimento mediante la soddisfazione in una percentuale, piuttosto elevata, dell’ammontare dei crediti (il 100% dei creditori privilegiati ed il 40% dei chirografari); la finalità è pur sempre la salvaguardia dell’interesse dei creditori al soddisfacimento delle loro pretese, piuttosto che l’esigenza di conservazione e risanamento dell’impresa;
  • l’amministrazione controllata, che si sostanzia nella concessione di una dilazione di pagamento per un periodo massimo di due anni a fronte di un invadente controllo gestorio da parte degli organi della procedura sull’intero patrimonio dell’imprenditore; anche in questo caso il concreto risanamento dell’impresa è soltanto un obiettivo riflesso, purché la procedura non contrasti con gli interessi, tutelati in via diretta, dei creditori sociali

L’impianto dell’originaria legge fallimentare rimane sostanzialmente immutato fino al 2005, salvo sporadici interventi ad opera della Corte costituzionale, soprattutto finalizzati a garantire un effettivo rispetto del diritto di difesa del debitore nell’ambito delle procedure ivi disciplinate, tutelato all’art. 24 della Costituzione, nel frattempo intervenuta. Si pensi, ad esempio, al menzionato art. 15 l. fall., secondo cui il Tribunale ha la facoltà – ma non l’obbligo – di sentire l’imprenditore nell’istruttoria prefallimentare; solamente nel 1970, la Corte costituzionale interviene per sancire l’incostituzionalità di tale norma per violazione del diritto di difesa.

A partire dal 2005 inizia, invece, una tumultuosa stagione di modifiche che solo oggi – con l’entrata in vigore del Codice della crisi – sembra trovare compimento e conclusione.

1.3. Gli anni ’70 ed ’80 e l’emersione delle finalità di conservazione dell’organismo produttivo

L’evoluzione della realtà economico-sociale degli organismi produttivi e la situazione generale dell’economia che si viene a creare negli anni ’70 ed ’80 del secolo scorso sottopone a significative tensioni i modelli di soluzione della crisi di impresa offerti dalle procedure concorsuali tradizionali.

Esse, come esposto, si caratterizzano per la totale (o quasi) assenza di considerazione della realtà dell’impresa in sé, a scapito dell’esigenza fortemente avvertita di riconoscere un’adeguata tutela del ceto creditorio.

La ragione fondamentale di questo approccio è da individuarsi – come osservato – nella centralità assunta dal paradigma giuridico dell’obbligazione, la cui attuazione si realizza con l’assunzione, ad opera di entrambe le parti, del comportamento corrispondente al contenuto delle rispettive posizioni, quindi l’esercizio del diritto o l’adempimento dell’obbligo. Esercizio del diritto ed adempimento dell’obbligo costituiscono, secondo tale prospettiva, due momenti entrambi indispensabili, con la conseguenza che la mancanza di uno di essi esclude la possibilità di considerare attuato il rapporto obbligatorio. In tale quadro, il fallimento costituisce l’estrema conseguenza dell’inadempimento generalizzato delle obbligazioni assunte dal debitore ed il trattamento riassunto nel termine “fallimento” (oggi si impiegherebbe la locuzione “diritto dell’insolvenza” o “diritto della crisi di impresa”) consiste nell’esecuzione coattiva di una serie di rapporti obbligatori rimasti insoddisfatti, attraverso la vendita forzata del patrimonio del debitore e la distribuzione del ricavato ai creditori.

L’evoluzione della realtà economico-sociale avvenuta negli anni ’70-’80 del secolo scorso portano all’emersione ed all’affermazione – al fianco delle finalità tradizionalmente attribuite alle procedure concorsuali – di obiettivi diversi, correlati alla diversa realtà ed al diverso ruolo delle imprese e, fra queste, specificamente quelli della conservazione dell’organismo produttivo, sempre più assurto a valore da tutelare in sé, in considerazione di tutti gli interessi collettivi che sono collegati alla sua esistenza.

Quanto precede si traduce nell’esigenza, sia sul piano normativo, sia su quello fattuale, di privilegiare sempre più nettamente, rispetto alla liquidazione del patrimonio dell’impresa fallita, procedure finalizzate al risanamento dell’impresa, attraverso l’eliminazione dei fattori di crisi, o quantomeno di recupero, previa riorganizzazione, dei complessi produttivi.

In tale contesto, si registra l’avvento di leggi volte a ricercare il “salvataggio” di categorie di imprese o, anche di singole imprese: risale al 1979, ad esempio, il d.l. 30 gennaio 1979, n. 26, convertito nella legge 3 aprile 1979, n. 95, c.d. “Legge Prodi” che – a seguito della crisi di importanti gruppi industriali italiani – introduce la procedura dell’amministrazione straordinaria. Tale procedura è volta a consentire alle imprese commerciali di rilevanti dimensioni di mettere in atto attività di prosecuzione, riattivazione o riconversione dirette, da un lato, a favorire la conservazione del patrimonio produttivo e, dall’altro, a causa delle notevoli dimensioni dell’impresa, ad evitare un’espansione sistemica della crisi nel medesimo settore o in altri ad esso collegati. Il connotato saliente è l’affidamento della gestione dell’impresa insolvente ad uno o più commissari straordinari, con la continuazione dell’attività di impresa per un massimo di quattro anni, finalizzata alla riorganizzazione, sulla base di un programma e di un piano di risanamento dei complessi produttivi, in funzione del trasferimento a terzi di tali complessi una volta risanati.

1.4. Gli anni ’90

A partire dagli anni ’90 del secolo scorso si apre per il sistema giuridico ed economico occidentale (tra cui, quindi, l’Italia) una stagione – alimentata da spinte provenienti dal processo di integrazione europea e, più in generale, dalla internazionalizzazione e dalla globalizzazione dei mercati – che vede una forte affermazione di schemi e valori di tipo liberisti, fondati sui principi del libero mercato e della concorrenza, che segnano un consistente ridimensionamento dell’idea di socialità e funzionalizzazione dell’impresa e dell’intervento pubblico nell’economia.

Nel quadro generale sopra descritto si inserisce, per quel che qui specificamente interessa, la rivalutazione della funzione tradizionalmente assegnata alle procedure concorsuali, quella cioè di assicurare il più possibile il soddisfacimento paritetico dei creditori e, parallelamente, il ridimensionamento dell’obiettivo del risanamento o del recupero dell’impresa quale finalità da perseguire ad ogni costo.

Espressione di tali spinte è, ad esempio, l’intervento operato con il d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270 (in forza della legge delega 30 luglio 1988, n. 274) noto anche come “Legge Prodi-bis”, emanata a seguito di due condanne inflitte all’Italia dalla Corte di Giustizia Europea, che aveva qualificato la procedura di amministrazione straordinaria del 1979, come allora disciplinata, nei termini di un aiuto di Stato illegittimo.

La “Legge Prodi-bis” abroga la previgente disciplina dell’amministrazione straordinaria, introducendo una procedura integralmente nuova anche nel nome, ovverosia “l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza”.

La nuova procedura, rispetto alla previgente, si caratterizza:

  • per l’introduzione di una fase preliminare, successiva alla dichiarazione giudiziale dello stato di insolvenza, deputata all’accertamento dell’effettiva sussistenza di “concrete prospettive di recupero dell’equilibrio economico delle attività imprenditoriali”;
  • per la chiara demarcazione degli indirizzi o obiettivi della procedura, rappresentati, alternativamente, o dal recupero dei complessi aziendali per la cessione a terzi o dalla ristrutturazione economico-finanziaria dell’impresa in chiave di risanamento, entro limiti temporali ristretti (un anno nel primo caso e due anni nel secondo) e con la previsione della conversione dell’amministrazione straordinaria in fallimento (oggi, liquidazione giudiziale), ove, esauritosi il tempo concesso, non siano stati raggiunti gli obiettivi;
  • per il ruolo incisivo e penetrante riconosciuto all’autorità giudiziaria, che ha determinato il residuare in capo all’autorità amministrativa delle sole funzioni amministrativo-gestionali.

1.5. Gli anni 2000: le riforme della Legge Fallimentare

A partire dagli anni 2000, tuttavia, si comincia ad avvertire che la riforma dell’amministrazione straordinaria non esaurisce il bisogno di ammodernamento della normativa in materia di procedure concorsuali, le quali necessitava di un’ampia riforma in conseguenza del mutamento dei tanti presupposti su cui si fondava la legislazione del 1942, che – lo si ricorda – continua ad essere in vigore nella sua interezza, ad eccezione di limitate modifiche conseguenti a sporadici interventi della Corte Costituzionale.

In quegli anni vengono presentati numerosi progetti di riforma, alcuni dei quali ispirati a principi fortemente innovativi. Mentre a vari livelli si discute di tali progetti, alla fine del 2003 esplode il caso Parmalat. Tale dissesto, di proporzioni gigantesche, che coinvolge centinaia di società in tutto il mondo, migliaia di imprese medio-piccole la cui attività imprenditoriale “gravita” intorno a quelle del gruppo e decine di migliaia di dipendenti (la maggior parte dei quali in Italia), contribuisce a far sì che il problema dell’adeguatezza delle procedure d’insolvenza assuma una rilevanza centrale anche nel dibattito politico.

Con il d.l. 23 dicembre 2003, n. 347 (convertito con l. 18 febbraio 2004, n. 9. d. Legge Marzano) viene introdotta una variante dell’amministrazione straordinaria, alla quale essere ammesse solo imprese di grandissime dimensioni (come, appunto, Parmalat).

Viene, inoltre, avviata, seppure mediante più interventi, la riforma organica della legge fallimentare del 1942. Essa è attuata attraverso:

  • il d.l. 14 marzo 2005, n. 35, convertito con la l. 14 maggio 2005, n. 80, che modifica in alcune parti la disciplina della revocatoria fallimentare e quella del concordato preventivo;
  • il d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 – emanato in attuazione della delega contenuta all’art. 1, 5º co. e 6º co, della l. n. 80/2005 e intitolato “riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali” – che innova in molti aspetti la disciplina del fallimento ed abroga l’amministrazione controllata;
  • il d.lgs. 12 settembre 2007, n. 16 (c.d. “correttivo”), che integra, con modifiche il decreto del 2006, intervenendo anche sulla disciplina della liquidazione coatta amministrativa.

L’angolo visuale in cui si pone il legislatore è radicalmente diverso rispetto a quello da cui prendeva le mosse la legge fallimentare del 1942. La scelta politica è quella di spostare il baricentro da un assetto costruito a tutela dei creditori verso un sistema di favore per l’impresa, ponendo valide alternative alla procedura fallimentare e tutelando l’attività creditizia bancaria quale primo propulsore dell’attività imprenditoriale, soprattutto rispetto ad un impiego spesso troppo ampio ed indiscriminato dello strumento delle revocatorie fallimentare delle rimesse in conto corrente. In tale prospettiva, il fallimento non deve essere più considerato una sanzione per l’imprenditore, ma una delle possibili forme in cui si declina il rischio di impresa; una situazione attribuibile non necessariamente a responsabilità individuali del debitore, ma a particolari circostanze congiunturali. Pertanto, la tutela apportata non si concretizza più in un intervento a tutto campo di tipo pubblicistico a difesa del ceto creditorio, bensì in una tendenziale “privatizzazione” del fallimento, lasciando al giudice il ruolo di “arbitro” di una partita giocata direttamente tra debitore e creditori che potranno trovare accordi con un’ampia autonomia di tipo contrattuale. Ancora, non è più possibile non considerare la nuova identità dell’impresa che non può più essere valutata, in ottica liquidatoria, esclusivamente come sommatoria del valore dei singoli beni che la compongono. L’impresa è, ormai, un valore di per sé e diventa obiettivo primo della nuova normativa.

Gli elementi caratterizzanti di questo importante intervento riformatore sono, quindi, individuabili: nella preclusione dell’avvio di procedure fallimentari a fronte di dissesti di modesta entità, in un’ottica deflattiva; nel favorire meccanismi e tecniche di conservazione delle strutture produttive, in base all’idea che la crisi di impresa è un evento patologico, ma non necessariamente distruttivo (un evento, quindi, da gestire in una chiave non punitiva e il più possibile conservativa, in funzione del recupero e del reinserimento nella vita economica delle strutture produttive); nella semplificazione e nella velocizzazione dell’iter delle procedure concorsuali in ogni loro fase; nel riconoscimento di un ruolo più attivo, nella gestione della crisi, al debitore ed ai creditori, muovendo dal presupposto per cui tale gestione è fondamentalmente un fatto privato fra questi soggetti, da lasciare, quindi, in principio, al governo degli stessi, con limitati spazi di intervento per l’autorità giudiziaria.

Il succedersi non certo armonico delle importanti modifiche della legge fallimentare riguarda in maniera rilevante l’istituto del concordato preventivo. Esso è oggetto di interventi legislativi che ne hanno significativamente modificato la disciplina. All’esito di essi risultano non solo completamente rivisti i presupposti (la procedura riguarda non solo più l’impresa insolvente, ma anche quella soltanto in crisi), le condizioni (non è più necessario il soddisfacimento integrale dei creditori privilegiati, né una percentuale minima almeno per i concordati in continuità), le modalità e l’iter procedurale, ma viene riconsiderata anche la stessa natura giuridica del concordato preventivo: da istituto premiale riservato all’imprenditore “onesto, ma sfortunato” diviene, infatti, un vero e proprio accordo transattivo rimesso alla volontà delle parti, con libera scelta delle ipotesi proponibili da parte del debitore ai propri creditori, seppure con il rischio di comportamenti abusivi ad opera del primo.

Gli interventi riformatori sanciscono, inoltre, anche il definitivo venir meno degli aspetti più punitivi previsti nella Legge Fallimentare del 1942: il d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, tra le sue novità, in argomento annovera la modifica dell’obbligo di consegna della corrispondenza in capo al fallito, limitandola a quella relativa ai rapporti con il fallimento; stabilisce, poi, l’obbligo di mera comunicazione del cambio di residenza da parte del fallito; elimina il Registro dei Falliti; introduce, infine, l’istituto dell’esdebitazione. Nel 2007, il d.lgs. 12 settembre 2007 n. 169 sancisce la cessazione delle incapacità personali del fallito all’atto della chiusura del fallimento e amplia i presupposti soggettivi dell’esdebitazione.

Fra gli elementi di novità si segnala, infine, anche il riconoscimento normativo di strumenti privati di composizione delle crisi, quali gli accordi di ristrutturazione (art. 182-bis l. fall.) e i piani di risanamento (art. 67, 3º co., l. fall.).

Nel 2012, infine, viene attuato un ulteriore intervento urgente, in risposta alla crisi dilagante, con lo scopo di modernizzare la procedura di concordato preventivo e di facilitare ulteriormente gli accordi fra creditori e debitore e il finanziamento delle imprese in crisi (d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con l. 7 agosto 2012, n. 134); ciò sul presupposto, internazionalmente condiviso, che quando l’impresa in crisi è ancora capace di produrre ricchezza, tali accordi, per quanto onerosi per i creditori, sono nella massima parte dei casi migliori dell’alternativa della liquidazione del patrimonio.

1.6. Il fenomeno del sovraindebitamento e la sua disciplina

Con la l. 27 gennaio 2012, n. 3 e poi con il d.l. 18 ottobre 2012, n. 179 (convertito, con modificazioni, dalla l. 17 dicembre 2012, n. 21) viene introdotta nel nostro ordinamento una nuova disciplina: la composizione delle crisi da sovraindebitamento. La necessità di regolamentare il fenomeno del sovraindebitamento, che inizia a svilupparsi a partire dagli anni ’90 del secolo scorso, si collega con il processo di liberalizzazione del settore creditizio attraverso cui si amplia la gamma degli strumenti di finanziamento a disposizione delle famiglie. Si espande, a macchia d’olio, il credito al consumo. La poderosa spinta ai consumi delle famiglie crea nel corso del tempo situazioni di crescente apprensione sul piano sociale.

Mentre per le imprese sopra soglia (ovverosia sottoponibili alle norme della Legge Fallimentare) è possibile il ricorso alle procedure concorsuali che nel tempo si arricchiscono di nuovi strumenti, per i debiti contratti per motivi personali, non esistono procedure analoghe: i debitori – persone fisiche, lavoratori autonomi e imprese a carattere familiare, «non fallibili» per ragioni dimensionali – rimangono in tale condizione senza limitazioni di tempo e senza possibilità di ipotizzare per loro un ritorno nel mercato: vendita forzosa di immobili da parte delle banche creditrici; svendita di beni preziosi; pignoramento e messa all’asta di beni mobili; chiusura delle forniture da parte degli enti erogatori di servizi; ritiro del bene non pagato interamente; pignoramento del quinto dello stipendio; protesti; blocco dell’accesso al credito bancario; fino al possibile ricorso al mercato illegale di denaro.

Tale quadro generale induce il legislatore ad intervenire e ad introdurre una disciplina che regolamenti il fenomeno del sovraindebitamento del consumatore e, più in generale, dei soggetti non fallibili.

L’intento dichiarato è quello di fornire a soggetti non fallibili, gravati da plurimi debiti, uno strumento per sistemare tutte le proprie pendenze, consentendo loro di reimmettersi nel mercato.

Gli interventi normativi indicati portano all’ingresso in campo di tre diverse procedure: il piano del consumatore, l’accordo di ristrutturazione dei debiti e la liquidazione dei beni.

Le prime due procedure sono affini al concordato, mentre la terza è più vicina alla procedura fallimentare.

Il legislatore ha, infatti, previsto tre procedure tra loro molto diverse, quantunque lo scopo comune sia sempre quello di condurre il debitore all’esdebitazione: il piano del consumatore, che non necessita del consenso dei creditori; l’accordo di ristrutturazione dei debiti, sulla base sempre di un piano proposto dal debitore e, infine, la liquidazione del patrimonio del debitore, prevista nel caso in cui il piano o l’accordo proposto non siano fattibili o accettabili.

L’attenzione del legislatore nei confronti del fenomeno in esame assume portata crescente nel corso degli anni e segna una mutazione profonda del nostro sistema, il quale inizia a connotarsi per la compresenza di due sottosistemi diversi, ma complementari:

  • quello delle procedure concorsuali disciplinate dalla legge fallimentare e dalle leggi a questa collegabili che ha come referente soggettivo l’area degli imprenditori commerciali di non piccole dimensioni;
  • l’altro delle procedure di sovraindebitamento introdotte dal 2012 che ha come presupposto soggettivo l’area di tutti i soggetti diversi dagli imprenditori commerciali di non piccole dimensioni: un’area comprensiva delle figure del consumatore, del piccolo imprenditore, del professionista intellettuale e degli enti senza scopo di lucro.

1.7. Il Codice della Crisi di Impresa e dell’Insolvenza

L’incessante succedersi di interventi normativi, almeno a partire dal 2005, conduce all’esigenza di una razionalizzazione dell’intera materia che trova il suo punto di caduta con l’emanazione della l. 19 ottobre 2017, n. 155 attraverso cui si delega il Governo a predisporre una ampia riforma della disciplina della crisi d’impresa e dell’insolvenza. In attuazione della delega viene emanato il d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 contenente il Codice della crisi. L’elemento qualificante del nuovo Codice, originato dalla stessa legge delega, è che la crisi debba emergere il più rapidamente possibile perché ciò rende concretamente fattibile il risanamento dell’impresa e, laddove tale obiettivo non sia perseguibile, i valori della liquidazione saranno più elevati, rispetto al caso di una procedura che riguarda un debitore che ha oramai dissipato il proprio patrimonio.

L’entrata in vigore del Codice della crisi era stata immaginata in due momenti: il primo, immediato, riguardante alcune modifiche del Codice civile; il secondo, a distanza di oltre un anno (ovvero il 15 agosto 2020), concernente il restante corpus normativo, per consentire agli interpreti di “digerire” le novità ed al sistema di attrezzarsi con la messa in campo dei nuovi strumenti previsti.

Tra le modifiche al codice civile non si può in queste sede non segnalare l’introduzione di un secondo comma all’art. 2086 c.c. (collocato all’interno del Capo I “Dell’impresa in generale” – Titolo II “Del lavoro nell’impresa” del Libro V “Del lavoro”) che ha sancito il dovere generale per l’imprenditore che opera in forma societaria o collettiva di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell’impresa e della perdita della continuità aziendale. La scelta del legislatore di collocare il tema degli assetti nell’ambito del citato Capo I “Dell’impresa in generale” ha un forte valore sia simbolico, sia sistematico. Dal primo punto di vista, il “messaggio” è chiaro: l’obbligo degli assetti adeguati è intestato direttamente all’imprenditore (collettivo); per fare ciò si è scelto un “luogo” dal significato storico-giuridico di assoluto rilievo ovvero il Capo I “Dell’impresa in generale” che ospita la definizione di imprenditore e che rappresenta il superamento della visione ottocentesca che limitava il suo raggio d’azione al solo commerciante: il primato mantenuto per secoli dal commercio e dal mercante, cede di fronte al crescente ruolo della manifattura.

La collocazione della nuova disposizione sul piano sistematico rileva, invece, in quanto rafforza in modo consistente il nucleo di norme dedicate ai profili organizzativi dell’impresa (collettiva); ai citati artt. 2086, 1ºco., e 2087 c.c. (che stabiliscono che l’imprenditore, da un lato, è il capo dell’impresa e da lui dipendono gerarchicamente i suoi collaboratori e, dall’altro, che questi è tenuto a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro) si affianca, con un peso specifico molto significativo, il nuovo art. 2086, 2º co., c.c. che sembra definitivamente dar ragione alla peculiarità del contratto di società ovvero alla sua natura tipicamente organizzativa.

La crisi economica, soprattutto di liquidità, conseguente alla pandemia da covid-19, induce a rinviare – più volte – l’entrata in vigore del Codice della crisi. Nel frattempo, il legislatore comunitario emana la Direttiva 2019/1023 (c.d. Direttiva Insolvency) che si propone di:

  • garantire alle imprese e agli imprenditori sani che sono in difficoltà finanziarie la possibilità di accedere a quadri di ristrutturazione preventiva efficaci che consentano di preservare la continuità aziendale;
  • permettere ai debitori di ristrutturarsi efficacemente in una fase precoce e prevenire l’insolvenza e quindi evitare la liquidazione di imprese sane;
  • prevenire l’accumulo di crediti deteriorati;
  • garantire di poter intervenire prima che le società non siano più in grado di rimborsare i prestiti, contribuendo in tal modo a ridurre il rischio di un deterioramento di questi ultimi nei periodi di congiuntura sfavorevole, nonché di attenuare l’impatto negativo di tutto ciò sul settore finanziario.

In tale quadro, il legislatore interno sceglie di mettere mano all’attuazione della Direttiva Insolvency, modificando il Codice della crisi, non ancora entrato in vigore. Il raggiungimento degli obiettivi indicati sul piano europeo necessita – tra l’altro – di strumenti di allerta precoce che consentano di aumentare l’efficienza delle procedure di ristrutturazione, incentivando l’accesso dell’imprenditore a quadri e tecniche di ristrutturazione preventiva, in una fase molto anticipata; in un sorta di prova generale, il legislatore con il d.l. 24 agosto 2021 (convertito in l. 21 ottobre 2021, n. 147), introduce un nuovo strumento ovvero la composizione negoziata della crisi con l’intento di offrire un congegno in grado di operare su istanza del solo debitore, diretto a facilitare il raggiungimento di accordi col ceto creditorio, anche grazie all’opera di un esperto indipendente che coadiuva le parti: istituto che poi confluisce nella versione finale del Codice della crisi.

Il 15 luglio 2022, dopo quasi due anni di rinvii, quindi, entra in vigore il nuovo Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza.

Si tratta certamente di una novità rilevante per il nostro ordinamento, che si apre altresì ai principi contenuti nella citata Direttiva Insolvency, il cui Considerando n. 2 evidenzia programmaticamente come “i quadri di ristrutturazione preventiva dovrebbero innanzitutto permettere ai debitori di ristrutturarsi efficacemente in una fase precoce e prevenire l’insolvenza e quindi evitare la liquidazione di imprese sane”.

Tale principio, che già faceva parte dei principi della legge delega n. 155/2017, costituisce una profonda innovazione della filosofia di fondo del diritto concorsuale, che prosegue nel solco segnato dalle menzionate riforme degli anni 2000 di abbandono del principio di tutela esclusiva dei creditori e consacra una concezione dinamica, nella quale la conservazione dell’impresa in attività – pur se eventualmente in capo ad un soggetto terzo – costituisce un valore tutelato che deve coordinarsi con i diritti dei creditori e che, anzi, può ove necessario comportare una loro ragionevole compressione, purché lo strumento o la procedura con la quale si realizza la ristrutturazione non risulti dannosa per i creditori rispetto ad un’ipotetica alternativa liquidatoria.

Con il Codice della crisi si completa il menzionato passaggio dalla concezione del fallimento come sanzione ad occasione di ripartenza. Ciò dal punto di vista lessicale è testimoniato dalla sostituzione della parola “fallimento” con l’espressione “liquidazione giudiziale”, al fine di eliminare dal linguaggio giuridico la connotazione negativa legata al fenomeno. Allo stesso modo, dal punto di vista sostanziale, il Codice della crisi muta la visione della crisi dell’impresa che, ove non sia fraudolenta, deve intendersi, non come mero momento negativo per i creditori sociali e per il mercato, ma come un evento, in qualche modo anche fisiologico, nella vita dell’impresa. Il legislatore della riforma non ritiene necessario – in altri termini – punire le attività di impresa che non hanno condotto a risultati positivi, a condizione che manchino comportamenti fraudolenti. La forte connotazione sanzionatoria della precedente disciplina viene dunque sostituita con la prospettiva di un fresh start.

La riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali si attiene – tra gli altri – ai seguenti principi generali, imposti dalla legge delega n. 155/2017, così come di quelli contenuti nella Direttiva Insolvency:

  • sostituire il termine “fallimento” con l’espressione “liquidazione giudiziale”;
  • introdurre una definizione dello stato di crisi, intesa come probabilità di futura insolvenza, anche tenendo conto delle elaborazioni della scienza aziendalistica, mantenendo l’attuale nozione di insolvenza;
  • adottare un unico modello processuale per l’accertamento dello stato di crisi o di insolvenza del debitore e con caratteristiche di particolare celerità;
  • assoggettare ai procedimenti di accertamento dello stato di crisi o insolvenza ogni categoria di debitore, persona fisica o giuridica, ente collettivo, consumatore, professionista o imprenditore esercente un’attività commerciale, agricola o artigianale, con esclusione dei soli enti pubblici;
  • dare priorità di trattazione alle proposte che comportino il superamento della crisi assicurando la continuità aziendale, anche tramite un diverso imprenditore;
  • uniformare e semplificare, in raccordo con le disposizioni sul processo civile telematico, la disciplina dei diversi riti speciali previsti dalle disposizioni in materia concorsuale;
  • armonizzare le procedure di gestione della crisi e dell’insolvenza del datore di lavoro con le forme di tutela dell’occupazione e del reddito dei lavoratori
  • introdurre l’inedita procedura di composizione negoziata per la soluzione della crisi di impresa di natura extra giudiziaria e non avente carattere concorsuale, che consente all’imprenditore, che si trova in condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario, ma anche di perseguire il risanamento dell’impresa con il supporto di un esperto indipendente, che agevoli le trattative con i creditori e altri soggetti interessati.

Tra le novità da ultimo introdotte si annovera, tra l’altro, la ridefinizione della nozione di “crisi”, nonché l’espressa previsione — in linea con i precetti della Direttiva Insolvency rispetto alla tutela dei lavoratori – dell’obbligo di consultazione sindacale preventiva per il datore di lavoro che occupi più di 15 dipendenti e che intenda avviare un percorso di risanamento nell’ambito di un quadro di ristrutturazione preventiva.

Il Codice della Crisi è composto da quattro parti: la prima e preponderante parte contiene l’intera disciplina della crisi e dell’insolvenza (artt. 1-374), la seconda, le modifiche al Codice civile (artt. 375-384), la terza le garanzie in favore degli acquirenti di immobili da costruire (artt. 385-388) ed infine la quarta, le disposizioni finali e transitorie (artt. 389-391).

La struttura del Codice segna, anche dal punto di vista della sequenza degli istituti, una decisa novità. Si apre con alcune definizioni e con l’enunciazione di principi generali, per poi proseguire con tutti gli istituti che il debitore può impiegare per affrontare la crisi e l’insolvenza e solo da ultimo viene disciplinata la liquidazione giudiziale, intesa come estrema ratio.

Seppure il Codice riunisca al suo interno gran parte degli istituti concorsuali ed abbia dunque un carattere tendenzialmente unitario, la disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi e grandissime imprese in crisi è rimasta fuori (così come parte della disciplina contenuta in numerose leggi speciali che regolano la liquidazione coatta amministrativa), frustrando almeno in parte l’idea di un unico corpus normativo.

2. Il catalogo degli strumenti

2.1 Uno sguardo di sintesi

Il legislatore offre un variegato catalogo di strumenti, aventi come scopo quello di consentire di fronteggiare il rischio di crisi, la crisi e l’insolvenza.

Nella “topografia” del Codice, peraltro, il Titolo I della Parte I contiene disposizioni di carattere generale estremamente rilevanti che si compendiano in numerose definizioni e nell’introduzione di meccanismi di allerta in senso ampio rispetto alla crisi (assetti adeguati, misure idonee, segnalazioni degli organi di controllo interno e dei creditori pubblici qualificati: gli obblighi di segnalazione sono contenuti negli artt. 25 octies e 25 novies c.c.i.). Sono poi disciplinati i doveri delle parti e principi generali in materia processuale.

Il Titolo II della Parte I disciplina la composizione negoziata della crisi ovvero un istituto funzionale, come si è già accennato, al recupero dei valori dell’impresa attraverso un negoziato tra debitore e creditori, facilitato dalla presenza di un esperto. Strumento riservato al debitore che si trova in condizione di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che ne rende probabile la crisi o l’insolvenza, ma per il quale è ragionevolmente perseguibile il risanamento.

Vi sono, poi, gli strumenti negoziali di regolazione della crisi e dell’insolvenza, tra i quali si annoverano:

  • i piani attestati di risanamento;
  • gli accordi di ristrutturazione dei debiti,
  • la convenzione di moratoria,
  • il piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione;
  • il concordato preventivo (ed il concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio).

Sono strumenti che il legislatore ha messo a disposizione esclusivamente dei debitori che svolgono attività d’impresa e il loro elemento caratterizzante è rinvenibile nella natura negoziale, nel senso che essi presuppongono una proposta del debitore rivolta ai propri creditori, avente come oggetto e scopo il soddisfacimento dei creditori in esecuzione di un piano economico-finanziario.

Vi sono poi procedure definibili come procedure di insolvenza, previste per il caso in cui la crisi è sfociata ormai nella forma più grave dell’insolvenza. Esse prevedono che il patrimonio del debitore venga affidato ad un organo nominato dall’autorità giudiziaria o dall’autorità amministrativa, che provvede ad amministrarlo, liquidarlo e ripartirne il ricavato tra i creditori, oppure procede al tentativo di ristrutturazione economico-finanziaria dell’impresa, oppure ancora opera la modifica coattiva della struttura finanziaria del debitore. In tale categoria, si annoverano le procedure di liquidazione giudiziale, la liquidazione coatta amministrativa e l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza, con le quali si organizza, in modo efficiente ed equo, il concorso dei creditori su un patrimonio generalmente insufficiente a consentire la loro integrale soddisfazione.

E’ individuabile poi un’ulteriore categoria di strumenti costituita dalle procedure di sovraindebitamento che, come si è già osservato (v., supra, par. 1.6.), hanno l’intento di fornire a soggetti diversi quali il consumatore, il professionista, l’imprenditore minore, l’imprenditore agricolo e le start-up innovative gravati da plurimi debiti, strumenti idonei per affrontare la crisi o l’insolvenza; le procedure messe a disposizione dal legislatore sono la ristrutturazione dei debiti del consumatore, il concordato minore e la liquidazione controllata del sovraindebitato: le prime due hanno carattere negoziale, mentre la terza no.

Le fonti normative del diritto della crisi e dell’insolvenza sono varie: il testo normativo centrale è ovviamente il “Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza”, che disciplina tutti gli strumenti indicati nel presente paragrafo, ad eccezione della liquidazione coatta amministrativa (la cui disciplina si riviene in parte nel Codice ed in parte nelle singole leggi speciali che regolamentano l’attività delle categorie di imprese soggette a questa procedura) (v., infra, cap. XIV), l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza (la cui disciplina si rinviene nel  d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270 noto anche come “Legge Prodi-bis” per la sua versione “ordinaria” e nel  d.l. 23 dicembre 2003, n. 347, convertito con l. 18 febbraio 2004, n. 39 “Legge Marzano”, introdotto successivamente al crack della Parmalat, per la sua versione “speciale”).

2.2. Le procedure concorsuali

È individuabile, inoltre, un genus al quale sono riconducibili taluni degli strumenti appartenenti alle diverse categorie indicate al paragrafo che precede ovverosia quello delle procedure concorsuali.

La locuzione “procedure concorsuali” è ampiamente richiamata dal legislatore (come, ad esempio, agli artt. 6, 288 e 360 c.c.i. e all’art. 2499 c.c., che sancisce la possibilità di trasformazione di una società anche in pendenza di una procedura concorsuale), benché non sia rinvenibile nella normativa oggi vigente una definizione generale della nozione di concorsualità.

È, tuttavia, possibile declinare i tratti identificativi di tale nozione attraverso l’esame degli istituti in relazione ai quali essa è normativamente impiegata.

In termini generali, le procedure concorsuali sono le procedure nelle quali, attraverso l’intervento di un’autorità pubblica e l’imposizione di un vincolo di varia natura e intensità sul patrimonio del debitore, viene gestita una situazione di crisi o di insolvenza.

I tratti che connotano indistintamente le procedure avvinte dal carattere della concorsualità sono:

  • l’officiosità, nel senso che esse si aprono con un provvedimento dell’autorità giudiziaria o amministrativa e si svolgono nelle loro fasi su impulso della medesima;
  • l’universalità o globalità, nel senso che coinvolgono l’intero patrimonio del debitore esistente al momento dell’apertura della procedura. Ciò le distingue dalle procedure esecutive individuali disciplinate dal Codice di Procedura Civile (ovverosia le azioni esecutive promosse da creditori singoli, finalizzate ad ottenere la soddisfazione in via coattiva dei singoli crediti dai medesimi vantati) che, viceversa, riguardano singoli beni (mobili e/o immobili) del debitore; con le procedure concorsuali, l’intero patrimonio viene, quindi, sottoposto ad un vincolo di destinazione al soddisfacimento del ceto creditorio ed è insensibile sia alle azioni esecutive individuali dei creditori, sia all’attività del suo titolare ed alle obbligazioni da questo contratte;
  • la generalità, nel senso che esse riguardano e coinvolgono l’intera massa dei creditori esistenti al momento dell’apertura della procedura, i quali concorreranno sul patrimonio nel rispetto del principio della c.d. par condicio creditorum.

Sulla base di tali elementi tipologici, viene riconosciuta la natura di procedura concorsuale ai seguenti strumenti messi a disposizione del legislatore: gli accordi di ristrutturazione dei debiti, la convenzione moratoria, il piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione, il concordato preventivo, il concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio, la liquidazione giudiziale (che, come esposto, ha sostituito il previgente fallimento), la liquidazione coatta amministrativa, l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi in stato di insolvenza e le procedure di sovraindebitamento.

Non sono, invece, qualificabili come procedure concorsuali la composizione negoziata della crisi ed i piani attestati di risanamento.

2.3. Le diverse tipologie di procedure concorsuali

Diverse sono le classificazioni proposte per le procedure concorsuali, a seconda delle loro caratteristiche strutturali e funzionali.

Una prima classificazione trae fondamento dal modo attraverso cui si realizza il soddisfacimento dei creditori: a seconda che esso si realizzi all’interno della procedura oppure dopo la chiusura si distingue tra procedure esecutivo-satisfattive e no.  Tra le prime si annoverano, ad esempio, la liquidazione giudiziale e la liquidazione coatta, mentre tra le seconde, ad esempio, l’amministrazione straordinaria con indirizzo di ristrutturazione (ovverosia l’amministrazione “speciale” introdotta nel 2003).

Inoltre, a seconda della circostanza che la funzione di intervento e supervisione sia affidata all’organo giudiziale o all’organo amministrativo, si distingue tra procedure concorsuali giudiziali (nell’ambito delle quali rientrano gli accordi di ristrutturazione dei debiti, la convenzione di moratoria, il piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione, il concordato preventivo, il concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio, la liquidazione giudiziale e le procedure da sovraindebitamento), procedure concorsuali amministrative (nell’ambito delle quali si annovera la liquidazione coatta amministrativa) e procedure miste, caratterizzate per la compresenza di un controllo sia giudiziale sia amministrativo (come, ad esempio, nell’amministrazione straordinaria).

Vi sono poi procedure che riservano esclusivamente al debitore il diritto di accedervi ed esse vengono comunemente definite come procedure volontarie (tra le quali vi sono gli accordi di ristrutturazione del debito, la convenzione di moratoria, il piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione, il concordato, il concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio, la ristrutturazione dei debiti del consumatore, il concordato minore) ed altre che possono essere disposte anche su richiesta di terzi e contro la volontà del debitore comunemente definite come procedure coattive (tra le quali figurano la liquidazione giudiziale, la liquidazione controllata del sovraindebitato, la liquidazione coatta amministrativa e l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi disciplinata dalla c.d. Legge Prodi-bis).

Si era poi soliti distinguere  tra procedure liquidatorie, che mirano alla soddisfazione del creditore mediante la dismissione del patrimonio del debitore (tra le quali si annoverano la liquidazione giudiziale, la liquidazione coatta e l’amministrazione straordinaria con indirizzo di recupero) e procedure finalizzate alla conservazione del patrimonio del debitore, che, a loro volta, vengono suddivise tra procedure di risanamento (finalizzate a consentire il ripristino dell’equilibrio patrimoniale dell’impresa, con il recupero nel tempo della possibilità di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni) e procedure di recupero-riorganizzazione (finalizzate al recupero ed alla riorganizzazione dei processi produttivi nella prospettiva di una successiva cessione a terzi).

Dopo, tuttavia, la stagione delle riforme degli anni 2000, la distinzione tra procedure liquidatorie e conservative non pare più propriamente sostenibile, in quanto le finalità liquidatorie e quelle conservative coesistono, sia pure con intensità differente, in tutte le singole procedure concorsuali: ad esempio, anche la liquidazione giudiziale e la liquidazione coatta amministrativa possono consentire la conservazione delle attività produttive. L’unica distinzione effettivamente ancora proponibile è, quindi, quella tra procedure di risanamento (quale è ormai solo l’amministrazione straordinaria con indirizzo di ristrutturazione) e recuperatorie (a cui appartengono tutte le altre).

Allo stesso modo, non è sostenibile l’esistenza di una distinzione tra procedure orientate alla massima soddisfazione dei creditori e procedure orientate alla prioritaria tutela del debitore o di interessi di terzi (quali, ad esempio, i lavoratori), in quanto tale distinzione – che è stata in passato da taluni prospettata – non coglie la complessità delle varie procedure, in ognuna delle quali è ponderata la tutela dei vari interessi, secondo criteri di contemperamento che vanno valutati n modo analitico e non schematico.

La complessità delle procedure concorsuali di cui si è dato conto, oltre a precludere, come visto, la sostenibilità di talune distinzioni in passato prospettate, esclude anche la possibilità di fornire una risposta unitaria alla domanda relativa alle finalità che esse si propongono di assolvere nel loro complesso: come si avrà modo di vedere attraverso l’esame delle singole procedure, ogni procedura persegue, infatti, una finalità sua propria che, tuttavia, non si presta ad essere identificata in modo netto, ma richiede una risposta articolata e dettagliata.

2.4 Gli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza

Gli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza sono disciplinati nell’ambito del Titolo IV e del Tirolo V della Parte I del Codice della crisi.

La definizione normativa è rinvenibile all’art. 2, lett. m-bis, c.c.i. che qualifica tali strumenti come “le misure, gli accordi e le procedure volti al risanamento dell’impresa attraverso la modifica della composizione, dello stato o della struttura delle sue attività e passività o del capitale, oppure volti alla liquidazione del patrimonio o delle attività che, a richiesta del debitore, possono essere preceduti dalla composizione negoziata della crisi”.

Tali strumenti sono sottoposti ad una disciplina comune (anche eventualmente con adattamenti previsti per i singoli strumenti) contenuta nel Titolo III della Parte I del Codice della crisi (su cui v., infra, par. 4); disciplina che si compone di quattro pilastri: la giurisdizione (artt. 11 e 26); la competenza (artt. 27-32); la cessazione del debitore (artt. 33-36), l’accesso alle procedure (artt. 37-55), a cui va aggiunta la disciplina di accesso nel caso in cui il debitore sia una società (art. 120-bis) collocata in altra parte del Codice.

Si annoverano nella categoria in esame i seguenti strumenti: il piano attestato di risanamento, gli accordi di ristrutturazione dei debiti, la convenzione di moratoria, il piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione, il concordato preventivo, il concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio e la liquidazione giudiziale, mentre non sono riconducibili a tale categoria la liquidazione coatta amministrativa e l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, in quanto disciplinate non dal Codice della crisi, ma da leggi speciali.

Allo stesso modo, le procedure di sovraindebitamento non sono formalmente ricomprese nella categoria in esame, benché l’art. 65, 2º co., c.c.i. preveda che ad esse si applichino, in quanto compatibili, anche le disposizioni comuni dettate con riferimento agli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza (Titolo III della Parte I), talché l’esclusione delle procedure di sovraindebitamento dal novero degli strumenti in esame appare più formale che sostanziale.

Il perimetro degli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza è distinto da quello delle procedure concorsuali, benché essi possano, in taluni casi, sovrapporsi: alcuni strumenti sono riconducibili, infatti, oltre che alla categoria in esame, anche al genus delle procedure concorsuali (ad esempio, gli accordi di ristrutturazione dei debiti, la convenzione moratoria, il piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione, il concordato preventivo, il concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio, la liquidazione giudiziale), altri strumenti viceversa appartengono esclusivamente al novero delle procedure non concorsuali (il piano attestato di risanamento), altri ancora – infine – sono esclusivamente procedure concorsuali (almeno formalmente, le procedure di sovraindebitamento).

 

[*] Il presente contributo riproduce i primi due paragrafi del Capitolo I, opera dell’Autore, del Volume M. IRRERA, M. PERRINO, F. PASQUARIELLO, Lineamenti di diritto della crisi e dell’insolvenza, Zanichelli – Bologna, 2023 che qui si pubblica con il consenso dell’Editore.

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