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Note

Il «ius poenitendi» tra sorpresa e buona fede: a proposito di Cass. SS. UU. n. 13905/2013

18 Giugno 2013

Aldo A. Dolmetta, Ugo Minneci e Ugo Malvagna

1.- Risolvendo un contrasto non poco acceso a livello di diritto vivente, la sentenza delle Sezioni Unite1 apre il ius poenitendi (o, come anche si diceva una volta, il delai de réflexion)2 a tutte le scelte che, nell’ambito dei servizi di investimento, il cliente viene sollecitato a compiere in luoghi diversi dalle sedi operative dell’intermediario. Portando poi il suo esame dal sesto al settimo comma dell’art. 30 TUF, pure aggiunge la Corte che la mancata previsione contrattuale di tale diritto di pentimento – i.e.: l’informazione specifica che lo stesso si pone come strumento nel concreto utilizzabile dall’investitore – conducono alla nullità del relativo contrattuale3.

Scartato l’argomento letterale (che viene giudicato polivalente), quello storico (in ragione dell’evoluzione normativa che, nel trascorrere del tempo, ha inciso nel profondo la materia) e quello del diritto comunitario (che, in buona sostanza, si manifesta caduco) – ciascuno di questi ordini risulta stimato tutto meno che risolutivo –, la Corte raggiunge la soluzione di migliore trasparenza facendo perno sull’oggettiva «ratio legis» della norma dell’art. 30: per esprimersi con altre parole, sulla regola della necessaria coerenza della struttura nei confronti della funzione. E così sottolinea, appunto, che il luogo non abituale (come diverso da quello dei locali specialmente adibiti a propria attività dall’intermediario finanziario) con facilità può indurre il cliente «a una scelta negoziale non sufficientemente meditata», perché compiuta in una situazione di impreparazione (: la «sollecitazione …, per ciò stesso, potrebbe aver colto l’investitore impreparato»)4.

Pare a noi questa soluzione essere giusta. Non si può non constatare, in effetti, come «per il costume» degli italiani rappresenti tutt’oggi fatto di sorpresa «la stipulazione di contratti bancari [più genericamente, del ceppo finanziario] fuori dai “locali commerciali” della banca: i luoghi diversi dallo sportello [aut similia] appaiono, ancora oggi, contesto alieno»5. Come pure è appena il caso di ricordare il carattere storicamente «bancocentrico» del sistema finanziario italiano e anche che – per lunghissima, e pure attuale, tradizione – l’azione distributiva dei prodotti bancari/finanziari si snoda, nel suo costone principale (in tempi non remoti, costone esclusivo), a mezzo delle filiali bancarie.

Sembra sicuro, insomma, che la attività bancaria/finanziaria «fuori sede» vada articolata con attenzione in ogni sua fase operativa6 e sottoposta a speciali cautele di tratto preventivo, nonché a tutele di ordine successivo.

2.- Così raggiunta la soluzione, la chiusa della motivazione della sentenza delle Sezioni Unite – nel ribadirne la trave portante [il rimarco è proprio alla «difficoltà di giustificare, anche sul piano costituzionale, una disparità di trattamento tra l’ipotesi di offerta fuori sede di strumenti finanziari che sia fondata sulla diversa tipologia di servizio di investimento reso dall’intermediario, quando … del tutto analoga è la situazione di maggiore vulnerabilità in cui viene a trovarsi il cliente» (il corsivo è aggiunto)] – viene a esplicitare un argomento ulteriore, per conferma della bontà della soluzione medesima.

Il riferimento viene portato, in tal modo, ai «principi generali desumibili» dal TUF, che vengono dichiarati quali pure supportati dalla norma dell’art. 38 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, che, nel «garantire un “livello elevato di protezione dei consumatori”, per ciò stesso impone [per ogni buon conto] d’interpretare le norme ambigue nel senso più favorevole a questi ultimi». E pure questo passaggio, per quanto fatto per la sola abbondanza, si manifesta importante assai: in specie, perché evidentemente inteso a valorizzare – e sul piano direttamente negoziale dello svolgimento dell’attività di impresa finanziaria – la clausola generale predisposta nella lett. a. dell’art. 21, comma 1, TUF, del necessario agire dell’intermediario medesimo nel senso di «servire al meglio l’interesse dei clienti».

Tutto ciò sullo sfondo – non è inopportuno sottolineare ancora con diretto riferimento alla questione interpretativa condotta dai commi 6 e 7 dell’art. 30 – della constatazione, che la Cassazione svolge con tratto di penna sì veloce, ma non per questo meno incisivo, della illegittimità costituzionale di trattamenti differenziati per situazioni sostanzialmente omogenee.

3.- Tra questi due poli di motivazione positiva (n. 1 e n. 2), la sentenza insinua poi un discorso inteso a sbarazzarsi, se cosi si può dire, di una serie di «obiezioni» che nel corso del tempo sono state avanzate contro la tesi di trasparenza dalla stessa Corte accolta7.

La prima obiezione è che il differente trattamento del «collocamento» (così il frammento letterale di cui all’avvio del comma 6 dell’art. 30) rispetto agli altri servizi di investimento sarebbe giustificato dal fatto che il prezzo e le altre condizioni di vendita sono, in queste ultime ipotesi, «più o meno predefiniti»: il punto non c’entra, così rileva la sostanza della decisione, perché a contare, qui, è la circostanza della «decisione di investimento», che – se assunta in luoghi alieni (storicamente non «naturali», cioè) – non è «lecito presumere … sia stata preceduta da una matura riflessione». Una seconda obiezione si risolve nell’allegazione che la previa esistenza di un contratto quadro già di per sé realizzerebbe le esigenze di tutela cui mira la disciplina del «fuori sede»: tuttavia, la semplice presenza di un contratto normativo (che, per l’appunto, non decide alcuna operazione reale) non elimina, né attenua – correttamente riscontra la Corte – alcun rischio di sorpresa per il cliente, lasciandolo proprio nella sua situazione di impreparazione (come legata al «fuori sede»). Un’ultima obiezione si condensa, infine, nella rilevazione che «durante il periodo di sospensione del contratto le condizioni di mercato potrebbero mutare»: e questo – così è stato detto, riscontra il Supremo Collegio – potrebbe reggere l’eventualità di «comportamenti opportunistici da parte dell’investitore», volti a sottrarsi ai cattivi esiti dell’operazione.

Ora, quest’ultimo tema sembra meritare, secondo il nostro giudizio, un attimo di attenzione maggiore. Nel senso che, per la verità, la replica che la Corte spende per rintuzzare l’obiezione in discorso lascia spazio, per un tratto della sua estensione – e ove sia da intendere in un determinato significato (infra, n. 5) -, alle più ampie perplessità: per essere più precisi, su questo proposito la condivisione delle affermazioni del Supremo Collegio può essere solo parziale, mentre il dissenso deve porsi per un aspetto di non lieve spessore.

4.- Merita consenso la rilevazione, svolta dalla decisione, che il diritto di ripensamento concesso dalla norma al cliente costituisce una sorta di «naturale contropartita dei vantaggi» che l’intermediario intende conseguire dall’uso di sistemi distributivi dei prodotti a mezzo di rete «capillare esterna» e di tratto «più aggressivo» di quelli usuali. La domanda, che segue, non ha davvero bisogno di risposte esplicite: perché mai l’ordinamento dovrebbe premiare l’«effetto sorpresa»8 del cliente che, attraverso la modalità in questione, viene valorizzato dall’impresa?

E pure merita condivisione l’ulteriore passo svolto dalla Corte, per cui «neanche la normale fissità del prezzo di collocamento di strumenti finanziari in pendenza di offerta al pubblico basta del tutto a escludere la possibilità che nel medesimo lasso di tempo … si determinano oscillazione di valore in grado d’influenzare la decisione dell’investitore di recedere dall’acquisto». La convivenza del periodo di sospensione con l’oscillazione di valore del prodotto è, in effetti, evento del tutto fisiologico9.

5.- A non persuadere è l’ultimo punto della replica impostata dalle Sezioni Unite al rischio connesso al mutamento delle condizioni del mercato in pendenza del periodo di riflessione del cliente. Osserva, invero, la Corte: il «rischio di un utilizzo non corretto del diritto di recesso potrà eventualmente, ove si dia il caso, essere neutralizzato invocando il principio generale di buona fede»; il contesto del discorso – in cui l’affermazione si trova inserita – può fare pensare10, allora, che la stessa Corte ritenga la buona fede come presidio11 di eventuali comportamenti del cliente a fronte di «mutamenti del mercato» verificatisi nell’arco dei periodi di esplicazione del ius poenitendi e, per così dire, più o meno imprevisti.

Ora, su questo tema occorre – con tutta franchezza – essere affatto chiari.

Chi, in presenza di un deterioramento del valore del prodotto – che sia grave e che sia improvviso -, dà corso allo strumento del ius poenitendi non va contro la buona fede oggettiva, perché la buona fede è prima di ogni altra cosa rispetto della regola di ragionevolezza. E la ragionevolezza indica che – se si viene a deteriorare nel breve volgere di una settimana (che è lo spazio di riflessione fissato dal comma 6 dell’art. 30) – l’investimento tanto buono non era e che, potendolo fare, è senz’altro opportuno defilarsi. Non c’è nulla di opportunistico in questo: c’è solo buon senso.

È vero, piuttosto, che lo spazio concettuale del ius poenitendi è oggettivamene maggiore, più ampio di quello segnato dagli improvvisi scostamenti di mercato: essendo data al cliente la possibilità di valutare con attenzione ponderata se un dato investimento, che gli è stato proposto, possiede uno spazio di vita – e di utilità di investimento – ben più lungo di quello dato dal rapido passare di sette giorni.

È vero altresì – e soprattutto – che l’ordinamento vigente si attende dalle banche e dagli altri intermediari finanziari una professionalità importante: una professionalità da status (di impresa regolamentata e controllata in modo speciale dall’Autorità Pubblica), è stato detto12. Nei suoi termini reali, il tema del mutamento delle condizioni di mercato in pendenza di sospensione del rapporto si pone, quindi, in termini rovesciati rispetto a quelli che le Sezioni Unitesembrano volere assegnargli: con una certa dose di superficialità, si potrebbe pure chiosare.

Non viene davvero a rispondere a criteri di professionalità elevata l’operare dell’intermediario che consiglia e propone al cliente un investimento che viene a deteriorarsi subito dopo che il consiglio è stato dato. In altre parole: la stessa paventata preoccupazione di approfittamenti opportunistici del cliente sembrerebbe potere velare atteggiamenti assolutori di evidente negligenza/imperizia professionale dell’impresa13.

Fuori dalla negligenza/imperizia del consiglio dato, in effetti, sembrerebbe restare, a ben vedere, il mutamento del mercato dovuto, in sostanza, al caso fortuito o giù di lì (del genere delle «torri gemelle» dell’11 settembre, per intendersi). Perché mai – in questi casi, di ordine eccezionale – la perdita dovrebbe essere addossata al cliente che sta ragionevolmente cercando di capire cosa sta andare a fare? Per sua natura, il punto sembra assai più fronteggiarsi con il rischio connesso alle specifiche conformazioni (in sé aggressive, appunto) del servizio predisposto dall’impresa.

6.1.- Fermato questo punto, per dare un poco di maggiore compiutezza all’esposizione, sembra ancora opportuno dedicare almeno un piccolo cenno alla necessaria previsione espressa in contratto del ius poenitendi, come affermata dalla sentenza della Cassazione in relazione a tutte le figure di cui ai servizi di investimenti.

Si rimane pur sempre nella prospettiva della buona fede, naturalmente; ma adesso la si viene a riguardare nei confronti di un profilo diverso: il riferimento alla buona fede transita, insomma, dall’esercizio del ius poenitendi al sollevamento dell’eccezione di mancato rispetto della forma contrattuale prescritta dall’art. 30, comma 7, TUF.

Nell’operatività – è ben noto – spesso i contratti, anche recenti, non contengono l’indicazione di tale facoltà. Appare pertanto opportuno tenere distinte – per pulizia di discorso – tre situazioni: i contratti quadro che verranno stipulati dopo l’intervento delle SS.UU.; quelli a tale epoca per contro già esauriti14; da ultimo, quelli in corso di svolgimento al momento.

6.2.- Il discorso relativo ai contratti da stipulare nel futuro (post Sezioni Unite, cioè) può, nei fatti, concludersi molto velocemente. E’ chiaro: se questi contratti intendono utilizzare lo strumento dell’operatività «fuori sede», occorre prevedere in maniera espressa il ius poenitendi. In mancanza di una simile previsione, la relativa operatività risulta di per sé stessa preclusa. Assunta questa necessaria prospettiva, sembra di conseguenza sicuro che la rilevazione da parte del cliente – che il contratto, nonostante tutto, non contempla l’indicazione prescritta – va senz’altro esente da venature o profili di contrarietà alla buona fede.

È piuttosto da chiedersi, in proposito, se l’adempimento della prescrizione formale dell’art. 30, comma 7, TUF non richieda più e distinte indicazioni: così nel contratto, così ancora in ciascuno degli ordini posti in essere. In effetti, in dottrina non si è mancato di rilevare che «potrebbe apparire per altro incongruo relegare l’applicazione del diritto di ripensamento alla sola stipulazione del contratto-iniziale, lasciando poi il cliente sprovvisto di tutela in occasione dei successivi acquisti sollecitati dall’intermediario offerente»15: e da ciò, appunto, l’esigenza normativa delle plurime indicazioni (in ciascuno degli atti di natura contrattuale, che vengano in risalto)16.

6.3.- Passando quindi ai contratti ormai esauriti al tempo della sentenza delle Sezioni Unite, sembra evidente, prima di ogni altra cosa, come la mera circostanza di fare valere il vizio di nullità formale non possa essere considerato fatto in sé contrario alla buona fede: pensare diversamente equivarrebbe, invero, a togliere ogni valore, ogni significato ai dicta delle Sezioni Unite.

Ciò non esclude – questo pure è naturale – che possano riscontrarsi, a livello di fattispecie concreta, situazioni di comportamenti ostruzionistici da parte dell’investitore. Un caso, che potrebbe anche essere considerato come esemplare, è quello del sollevamento dell’eccezione di mancata indicazione del ius rispetto a ordini che di fatto non furono impartiti fuori da una sede operativa dell’intermediario. Un’altra ipotesi (peraltro, di meno immediate individuazione e prova a livello concreto) potrebbe essere quella dell’ordine raccolto dal promotore sì fuori sede, ma a seguito di specifiche, reiterate e insistite richieste del cliente (ad esempio, di essere raggiunto nella sua abitazione, perché malato o per altro): la «visita»del promotore dietro manifesta richiesta, per intendersi.

Più difficile, diremmo, l’eventualità di andare oltre.

Al riguardo, non si può non segnalare che, di per sé, alla mancata indicazione del diritto nel testo contrattuale fa riscontro – per logica sua propria – la non possibilità da parte del cliente di utilizzare, all’epoca dell’ordine, lo strumento del ius. E’ la sostanza della tutela preventiva a venire meno, nella realtà delle cose, non solo la prescrizione formale.

E ancor più si deve tenere presente, al riguardo, come la questione della portata applicativa dei commi 6 e 7 dell’art. 30 TUF sia stata molto dibattuta in questi ultimi anni. Vero è che la Consob propendeva verso una linea interpretativa di restringimento della portata della norma (cfr. sopra, nota 7). Vero è pure, però, che la sentenza delle Sezioni Unite non è di certo venuta a sorprendere gli operatori del settore; non è caduta come un fulmine a ciel sereno, insomma. Considerata la misura del rischio di non conformità a legge che – in questi ultimi anni (perlomeno) – la soluzione opposta alla trasparenza comportava, un efficiente svolgimento della funzione di compliance ben avrebbe dovuto comunque prospettare, se non proprio «pretendere», l’applicazione della soluzione più favorevole al cliente: così come imponeva il criterio – caratteristico di tale funzione – della «prudenza tecnico-giuridica»17. Anche qui (come già sopra: n. 5), in definitiva, il discorso – più che fermarsi sul cliente – tende a virare verso il polo dell’elevata professionalità dell’intermediario finanziario18.

6.4.- Pure per i contratti tuttora in essere vale, com’è evidente, quanto appena sopra si è rilevato. In più, è da interrogarsi sull’eventualità di un loro adeguamento de futuro: di introduzione nel testo contrattuale dell’espressa indicazione del diritto di pentimento (ex nunc, dunque).

Per sé, il cliente che rifiuta di accettare la modifica contrattuale propostagli dall’impresa pone in essere un comportamento pretestuoso e che, perciò, si manifesta senz’altro contro la buona fede oggettiva. La notazione non vale, tuttavia, ad esaurire la tematica. Nel senso che non diversamente contrario alla buona fede appare essere il comportamento dell’intermediario che – a fronte del rifiuto di modifica opposto dal cliente – ritenga la questione in tal modo superata e continui senz’altro a svolgere come prima il rapporto. Che anche questo modo di fare sembra, per la verità, non meno del primo rispettoso della posizione (e degli interessi) del proprio partner contrattuale.

In realtà, verificatasi nel concreto una simile situazione, non sembrerebbe esservi altramaniera di corretto agire per la banca se non quella di abbandonare, in relazione a quel peculiare rapporto, la modalità operativa consistente nel «fuori sede».

 

1 Questa la massima, che ci è parso corretto trarre dalla motivazione: «il diritto di recesso del cliente dall’operazione ex art. 30, comma 6, TUF e la nullità dei contratti il cui testo non contempli espressamente tale potere (comma 7) trovano applicazione in tutti i casi di contratto concluso fuori sede. In effetti, i servizi diversi da quello di “collocamento” manifestano – al pari di questo – una stessa speciale esigenza di tutela del cliente, ove siano conclusi fuori sede e dunque in luoghi in cui il cliente assai facilmente si trova “impreparato”».

2 Sotto il profilo dommatico si può discutere se questo ius del cliente rappresenti un diritto di recesso dal contratto o per contro una modalità di formazione progressiva della fattispecie negoziale (l’incipit del comma 6 sembra inclinare verso questa seconda ricostruzione). Sul piano sostanziale delle cose, resta comunque che l’istituto dà vita – nell’intimo della sua conformazione – a un fenomeno di «precarietà del consenso» del cliente. E rimane altresì sicura la sussistenza dell’impegno fermo dell’intermediario (se si segue la via della fattispecie progressiva, si avverte una proposta irrevocabile); d’altra parte, è necessario – perché di spazio di riflessione si possa venire a discorrere – che al cliente vengano comunicate (tutte) le condizioni essenziali dell’operazione.

3 Per delle prime indicazioni in un senso e nell’altro v. Accettella, Ancora sui contratti di collocamento di strumenti finanziari conclusi fuori sede ex art. 30 comma 6 TUF, in BBTC, 2013, II, p. 157 ss.

4 In apicibus impreparato, ben si può dire, rispetto all’evento. Prima ancora che alla sollecitazione, cioè, il riferimento va diretto all’operazione finanziaria tout court. In altri termini, il contesto indica, ovvero fa presumere, che – di per sé – il cliente sta pensando proprio a tutt’altro: il «fuori sede» come «fuori contesto» (ci sia perdonato questo brutto gioco di parole).

5 Dolmetta, Trasparenza dei prodotti bancari. Regole, Bologna 2013, p. 98 nota 41.

6 Anche molto al di là, dunque, dei servizi home banking e POS.

7 È noto che la Consob si è posta, a suo tempo, sulla linea di un’opinione di tendenza senz’altro restrittiva; per la Comunicazione n. DIN/12030993 del 19 aprile 2012, così, la norma non si applica «con riguardo alla conclusione dei contratti di esecuzione di ordini dei clienti nonché di ricezione e trasmissione», come pure «per le disposizioni impartite dagli investitori». Non sembra fuori luogo rilevare, in proposito, come – nella parte che l’Autorità svolge per argomentare la propria soluzione – manchi ogni riferimento al fatto del «fuori sede».

8 Non è forse inutile ricordare che, nell’ intelaiatura del vigente nostro codice civile, l’ordinamento protegge il contraente «impreparato» dall’«effetto sorpresa» sia a mezzo della clausola generale di buona fede (che protegge il cliente che viene sorpreso, non quello che sorprende; v. pure infra), sia con la previsione di cui all’art. 1440, sia anche con la norma dell’art. 1195 (scritta in punto di imputazione di pagamenti; su questa norma v. ora Dolmetta, op. cit., spec. pp. 180, nota 6 e 308 s., nota 44). Oltre a tanto, stanno poi naturalmente le prescrizione del codice del consumo e delle specifiche normative di trasparenza.

9 Poste queste constatazioni, non appare per nulla stravagante, d’altra parte, che – nell’ipotesi di esercizio del recesso – le oscillazioni di periodo rimangano a carico dell’intermediario (com’è ovviamente interno al sistema del ius poenitendi).

10 Su questa linea di lettura dell’arresto in questione si è già posto – e in termini correttamente critici del merito – Maffeis, Investimenti fuori sede e difetto di indicazione della facoltà di recesso, in Riv. dir. banc., dirittobancario.it, 15, 2013, p. 3, il quale paventa specialmente il rischio che l’apertura portata delle Sezioni Unite finisca per risultare, alla conta dei fatti, inferiore rispetto agli intendimenti (: desinere in piscem).

11 Da notare, in ogni caso, che la Cassazione, se discorre di «neutralizzazione del rischio» di comportamenti opportunistici, non parla di paralisi del diritto di ripensamento. E’ noto, del resto, che l’arco dei rimedi per la violazione della buona fede risulta aperto e articolato, anche a seconda delle evenienze concrete: tanto più che, nella specie, si tratterebbe in thesi di una eccezione di dolo generale in senso tecnico (sulla varietà delle forme di rilevanza, ovvero delle strutture rimediali, dell’exceptio v. Dolmetta in BBTC, 1998, I, p. 193).

12 Su questo tema v. ampiamente, adesso, Dolmetta, Trasparenza cit., p. 213 ss.

13 In definitiva, di fronte al deprimersi dell’investimento nell’arco dei sette giorni (che non dipenda dal fortuito), sembra rispondere a distorsione ottica porsi il problema della possibilità di eventuali comportamenti opportunistici del cliente, anziché quello del difetto di professionalità manifestato dal promotore nel proporre la relativa operazione: e questo proprio sul piano del confronto degli interessi e dei comportamenti tenuti dai protagonisti della vicenda. Come si vede agevolmente, si prescinde qui da considerazioni strutturali della tipologia operativa in concreto posta in essere.

14 L’espressione contratto esaurito viene qui inteso nel senso generico di contratto per il quale non viene a presentarsi più l’eventualità di ordini successivi.

15 Così, in tempi recenti, Parrella, Sub art. 30, in Il testo unico della finanza, a cura di Fratini e Gasparri, Torino, 2012, p. 496.

16 Com’è intuitivo, tuttavia, la presenza nell’ordine dell’indicazione in questione potrebbe agevolare la prova della contrarietà a buona fede dell’eccezione sollevata dal cliente contro la mancanza della medesima nel contratto quadro.

17 Per la rilevazione che la funzione di compliance deve atteggiarsi rispetto al rischio di non conformità alle norme di legge, in termini di comportamento ispirato alla prudenza, v. Dolmetta, Funzione di compliance e vigilanza bancaria, in BBTC, 2012, I, p. 125.

18 Con riferimento all’immediato futuro dell’operatività degli intermediari, è da chiedersi se possa essere utile alla stessa la promozione e sollecitazione di campagne di «validazione» della prassi pregressa e di «rinuncia» del cliente ad avvalersi della nullità (che è di protezione) per i fatti pregressi.

Ora, è noto che sull’ammissibilità della convalida delle nullità protettive le opinioni della dottrina sono le più varie [in senso favorevole, v.Pagliantini, Autonomia privata e divieto di convalida del contratto nullo, Torino, 2007, p. 163 ss.; Girolami, Le nullità di protezione nel sistema delle invalidità negoziali, Padova, 2008, p. 454 ss.; D’Amico, Nullità virtuale – Nullità di protezione (Variazioni sulla nullità), in Le forme della nullità, a cura di Pagliantini, Torino, 2009, p. 21; Monticelli, La recuperabilità del contratto nullo, in Notariato, 2009, p. 174; in senso contrario, v. Gentili, Le invalidità, in Tratt. Gabrielli. I contratti in generale, Torino, 2004, p. 1373; Dolmetta, Trasparenza cit., p. 304; Bilò, Rilevabilità d’ufficio e convalida nelle nullità di protezione del consumatore, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2011, p. 497 ss.; Passagnoli, Le nullità speciali, Milano, 1995, p. 198 ss.; per una posizione più articolata, che distingue in ragione della causa di nullità, poi v. Polidori, Nullità relativa e potere di convalida, in Rass. dir. civ., 2009, p. 946 e G. Perlingieri, La convalida delle nullità di protezione e la sanatoria dei negozi giuridici, Camerino, 2011, p. 58 ss.]. In merito al tema specifico che qui viene in esame, peraltro, v’è da dire però che – a prescindere dalla soluzione che si voglia dare a tale problema – sembra comunque difficile ipotizzare la qualificazione come atti di convalida e rinuncia di «consensi» frutto non già di atti spontanei (e, per così dire, quasi accidentali) del cliente, bensì di richieste formate in via seriale e in modo massivo promosse dall’intermediario.

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