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Attualità

Il Caso Camfin e la rettifica del prezzo dell’OPA nelle conclusioni dell’Avvocato Generale della Corte di Giustizia

23 Maggio 2017

Domenico Siracusa

Di cosa si parla in questo articolo
OPA

Il caso Camfin ha sollevato un discreto scalpore negli ultimi anni, oltre che per l’impatto mediatico delle società coinvolte (tra le quali Pirelli S.p.A. e Allianz S.p.A.), anche per la decisione adottata dalla Consob con Deliberazione n. 18662 del 25 settembre 2013, con la quale l’Autorità ha rettificato il prezzo di una offerta pubblica di acquisto (“OPA”) sulla base di una asserita collusione tra le parti coinvolte. La particolarità di tale complessiva (e complessa) operazione di cambio di controllo sta nel fatto che di tale accordo collusivo non erano consapevoli alcune delle parti coinvolte. Mancava, in altri termini, il loro intento collusivo.

Per dovere di sintesi, è opportuno sorvolare sulla narrativa dettagliata dei fatti, bastando in questa sede rilevare come, sulla base del suddetto accordo e di molteplici transazioni, la Consob ha accertato in effetti che l’offerente avesse corrisposto ad un azionista un corrispettivo maggiore rispetto a quello al quale l’offerta era stata lanciata. Mentre il giudice di primo grado [1] confermava il provvedimento della Consob, il Consiglio di Stato interpellato, con provvedimento n. 1380 del 6 aprile 2016 riteneva opportuno sollevare alla Corte di Giustizia un quesito di interpretazione del diritto comunitario.

Ciò premesso, è ora necessario soffermarsi sulle disposizioni rilevanti, al fine di comprendere il quadro normativo di riferimento.

Come noto, la disciplina italiana sull’OPA trova il suo fondamento, a livello europeo, nella Direttiva 2004/25/CE (la “Direttiva”), che prevede espressamente all’art. 3, tra i suoi principi generali, che “i possessori di titoli di una società emittente della stessa categoria devono beneficiare di un trattamento equivalente” (c.d. “Principio di parità di trattamento degli azionisti”). Specificazione di tale principio è la regola per cui, nel caso di cambio di controllo in una società con azioni quotate, l’offerente sia tenuto a promuovere l’OPA ad un prezzo c.d. “equo” [2]. Tuttavia, già il considerando 6 della Direttiva prevede che “per essere efficaci, le norme sulle offerte pubbliche di acquisto[ivi inclusa la regola del lancio dell’offerta al prezzo equo] dovrebbero essere flessibili e adattabili ad eventuali nuove circostanze e, di conseguenza, dovrebbero contemplare la possibilità di eccezioni e deroghe”.

Conseguentemente, all’art. 5, paragrafo 4, comma 2 della Direttiva, è prevista una deroga alla regola generale del prezzo equo, ovverosia la possibilità per gli Stati Membri di accordare all’autorità di vigilanza nazionale il potere di innalzare il prezzo dell’OPA in “circostanze e secondo criteri chiaramente determinati”.

La trasposizione in ambito nazionale di tale deroga si ravvede nell’art. 106 del Decreto Legislativo 24 febbraio 1998 n. 58 (“TUF”). Tale articolo prevede che, con regolamento della Consob, si disciplini – tra le altre – l’ipotesi in cui un’OPA sia promossa ad un prezzo superiore a quello dichiarato al ricorrere di una “collusione” tra l’offerente (o le persone che agiscono di concerto con il medesimo) e uno o più venditori.

A livello secondario, il Regolamento adottato dalla Consob con Delibera n. 11971 del 14 maggio 1999 (“Reg. Emittenti”) stabilisce – all’art. 47-octies – che nei casi in cui sia accertata la sopra menzionata collusione, ed emerga quindi che sia stato riconosciuto ad uno o più azionisti un corrispettivo più elevato rispetto a quello al quale l’OPA è stata lanciata, il prezzo di tale offerta possa essere rettificato in aumento dalla Consob, fino a quello pari a quello accertato.

Ed è proprio qui che si snoda il punto centrale della questione in esame: la compatibilità della nozione di collusione, così come individuata dal TUF e dal Reg. Emittenti, con i principi e le disposizioni della Direttiva.

In Italia, difatti, sono stati sollevati dubbi su cosa si debba intendere per collusione nell’ambito della disciplina OPA.

Da un lato, è ampiamente diffusa in altri campi del diritto italiano una nozione di collusione c.d. ristretta, che fa riferimento ad un accordo clandestino e fraudolento a danno di terzi in elusione di norme imperative [3]; deve essere presente, secondo questa interpretazione, un elemento volitivo e intenzionale in capo a tutti i partecipi dell’accordo.

Dall’altro lato, secondo l’interpretazione fatta propria dal giudice di primo grado nel caso in esame, le peculiarità della disciplina dell’OPA, anche sulla base delle disposizioni della Direttiva, dovrebbero far propendere l’interprete per una nozione ad hoc del concetto di collusione: si dovrebbe in questo ambito privilegiare una lettura estensiva, che non includa necessariamente l’elemento volitivo in capo a tutti i partecipi, ma che richieda soltanto che l’accordo sia obiettivamente idoneo ad eludere la normativa. Facendo riferimento alle parole del giudice di prima istanza, in questo ambito disciplinare la nozione di collusione “va ricostruita esclusivamente alla luce della finalità perseguita di assicurare il rispetto del principio di equità e di tutela degli azionisti di minoranza” e pertanto l’autorità di vigilanza non deve dimostrare che “il comportamento delle parti sia volontariamente diretto ad eludere la normativa in materia di OPA, ma solo che esso sia obiettivamente idoneo a conseguire tale effetto, in virtù del riconoscimento al venditore di un corrispettivo maggiore di quello formalmente dichiarato ai fini dell’OPA”.

Il dubbio, tuttavia, sul quale si sofferma il giudice di rinvio, anche su impulso delle parti appellanti, riguarda il fatto che l’approccio interpretativo seguito dal giudice di primo grado potrebbe porsi in contrasto con la normativa europea su due profili: il possibile attrito con i principi generali europei e il rischio di indeterminatezza della nozione di collusione, in opposizione a quanto previsto dalla Direttiva, la quale richiede che le deroghe alla regola del prezzo equo siano “chiaramente determinate” dal legislatore nazionale. In altre parole, ciò di cui dubita il Collegio è se, sulla base della normativa europea, sia ammissibile interpretare il concetto di “collusione” in senso ampio (così come fatto dal giudice di primo grado).

Su tale quesito, pertanto, si è espresso l’Avvocato Generale (cfr. contenuti correlati).

Innanzitutto, seguendo il percorso logico dell’Avvocato, per valutare se la nozione ampia di “collusione” sia rispettosa della Direttiva, è necessario valutarne la conciliabilità con le disposizioni europee sui due differenti profili già evidenziati dal giudice del rinvio: (i) compatibilità con i principi ispiratori della Direttiva e (ii) compatibilità con il significato e gli effetti dei termini “chiaramente determinati”.

Con specifico riferimento al primo punto, il considerando 6 della Direttiva stabilisce che nell’applicare le disposizioni o le eccezioni o nel concedere eventuali deroghe le autorità di vigilanza dovrebbero rispettare determinati principi generali. Sul punto, già gli appellanti di fronte al Consiglio di Stato avevano sollevato la questione per cui la normativa nazionale italiana “aprirebbe all’Autorità di vigilanza un illimitato spazio di discrezionalità nella valutazione dei comportamenti dell’offerente incompatibile con l’esigenza di certezza nella individuazione ex ante dei comportamenti rilevanti ai fini della rettifica in aumento del prezzo dell’OPA”.

Più nello specifico, secondo gli appellanti, un’interpretazione estensiva del concetto di collusione, basata sulla specificità del settore ordinamentale, porterebbe ad una violazione dei principi generali europei di certezza del diritto, di legittimo affidamento, di non discriminazione e di trasparenza.

Non è di tale avviso l’Avvocato Generale, il quale sottolinea come già a livello europeo il gruppo ad alto livello di esperti di diritto societario [4], facendo riferimento alla nozione di collusione, la descriveva come un accordo con il venditore diretto ad aggirare la regola del prezzo “equo”. Definizione che quindi permette al legislatore nazionale di individuare quale nozione di collusione sia quella restrittiva sia quella estensiva.

Con riferimento, invece, al significato e agli effetti del concetto di “chiaramente determinati”, le conclusioni dell’Avvocato Generale appaiono ancora più incisive per dirimere il caso in esame.

Sul punto, infatti, l’Avvocato ritiene che i termini “chiaramente determinati” mirino ad assicurare che le autorità di vigilanza possano procedere alla rettifica del prezzo pagato dall’offerente solo nei casi, e in accordo con, regole conoscibili dal pubblico ex ante [5]. L’obiettivo non è pertanto quello di imporre una interpretazione del concetto di collusione in senso estensivo o in senso restrittivo.

Tale compito è invece lasciato al diritto nazionale che deve delimitare l’ambito e i limiti della nozione di collusione.

Sul punto, l’Avvocato Generale evidenzia come sia lo stesso giudice italiano ad essere incerto sulla nozione di collusione nel proprio paese nell’ambito della disciplina OPA. Ed è solo in base alla specificità di tale disciplina, così come trasposta in Italia a seguito dell’implementazione della Direttiva, che è stata interpretata la nozione di collusione in maniera estensiva. Letteralmente, l’Avvocato sottolinea come sia “illuminante il fatto che il giudice del rinvio afferma che, se non fosse stato per l’applicazione della direttiva, avrebbe accolto le impugnazioni delle parti appellanti, e quindi avrebbe applicato la nozione restrittiva del concetto di collusione”.

Secondo l’Avvocato Generale, “aderire alla lettura estensiva della nozione di collusione, semplicemente in ragione del collegamento alla direttiva[…] sembra azzardato”. In tal senso si comprende la proposta dell’avvocato alla Corte di Giustizia: occorre precisare che la Direttiva non permette all’autorità nazionale di vigilanza di rettificare in aumento il prezzo dell’OPA in un caso di collusione che è interpretato in maniera estensiva solo in base all’applicazione della Direttiva stessa.

In altri termini, la nozione di collusione in senso estensiva non potrà essere considerata dal giudice italiano come corretta solo in base alle disposizioni della Direttiva. Starà invece al giudice nazionale identificare quale interpretazione del concetto di collusione prevalga nel proprio paese, in base alla normativa nazionale.

Si comprende a questo punto che, se il Consiglio di Stato dovesse conformarsi alla diffusa nozione di collusione ristretta nel nostro Paese, è probabile che l’appello venga accolto con conseguenti effetti sul provvedimento emanato dalla Consob.

La conclusione dell’Avvocato Generale, qualora fosse confermata dalla Corte di Giustizia, oltre ad essere uno dei primi casi in cui si assiste ad una pronuncia relativa all’applicazione della Direttiva, potrebbe anche costituire un rilevante precedente per eventuali future controversie.

 

[1] Avverso la decisione della Consob sono stati proposti differenti ricorsi, a seguito dei quali il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio si è pronunciato con le sentenze n. 3009/2004, 3011/2014 e 3012/2014, tutte disponibili sulla banca dati De Jure.

[2] In base all’art. 5, paragrafo 4 della Direttiva, è considerato prezzo equo “il prezzo massimo pagato per gli stessi titoli dall’offerente, o da persone che agiscono di concerto con lui, in un periodo, che spetta agli Stati membri determinare, di non meno di sei e non più di dodici mesi antecedenti all’offerta […]”.

[3] La pronuncia del Consiglio di Stato fa riferimento ad alcune disposizioni nel contesto delle quali la collusione viene interpretata in maniera ristretta, quali ad esempio: (i) la fattispecie di nullità del processo esecutivo ex art. 2929 c.c., inficiante la vendita o l’assegnazione forzata e opponibile all’acquirente o assegnatario in caso di “collusione con il creditore procedente”; (ii) l’impugnazione per revocazione proponibile dal pubblico ministero ai sensi dell’art. 397 c.p.c., “quando la sentenza è l’effetto della collusione posta in opera dalle parti per frodare la legge”, o (iii) l’impugnazione per opposizione revocatoria proponibile dagli aventi causa e dai creditori di una delle parti processuali ai sensi dell’art. 404, comma 2 c.p.c., “quando è l’effetto di dolo o collusione a loro danno”.

[4] Report of the High Level Group of Company Law Experts on issues related to Takeover Bids, Bruxelles, 10 Gennaio 2002, disponibile all’indirizzo www.ssrn.com.

[5] L’Avvocato Generale sottolinea come, comunque, dall’espressione “chiaramente determinati” non si possa desumere l’obbligo per le disposizioni nazionali di descrivere ex ante, “in termini esaustivi e dettagliati, ogni specifica situazione”.

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