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Dossier

I principi della Cassazione sulle novità del diritto “emergenziale” anti-Covid 19 in ambito contrattuale e concorsuale

23 Settembre 2020

Alberto Mager, Sara Addamo, Federica De Gottardo, Carolina Gentile, Benedetta Bonfanti

Di cosa si parla in questo articolo

Con Relazione n. 56 dell’8 luglio 2020, la Corte di Cassazione ha analizzato le novità normative sostanziali del diritto “emergenziale” anti-Covid 19 in ambito contrattuale e concorsuale. Il presente lavoro sintetizza in modo ragionato i principi espressi dalla suprema Corte.

Paragrafo 2 – Le norme sull’impossibilità sopravvenuta – a cura di Alberto Mager

Nel contesto dell’emergenza pandemica, il rimedio dell’impossibilità sopravvenuta totale (1463 c.c.) può invocarsi solo laddove la prestazione dovuta diventi materialmente o giuridicamente ineseguibile. In particolare, tale rimedio non può essere invocato con riguardo alle obbligazioni pecuniarie, le quali non sono per natura esposte al rischio di divenire in tal senso impossibili.

L’impossibilità sopravvenuta si ha non solo nel caso in cui sia divenuta impossibile l’esecuzione della prestazione da parte del debitore, ma anche nel caso in cui sia divenuta impossibile l’utilizzazione della prestazione da parte del creditore, quando tale impossibilità sia comunque non imputabile al creditore e il suo interesse a riceverla sia venuto meno.

Anche nei casi di impossibilità sopravvenuta temporanea (1256 c.c.) determinate dall’emergenza pandemica, il debitore non è responsabile del ritardo dell’inadempimento, ma l’obbligazione si estingue solo laddove l’impossibilità perduri fino a quando, in relazione al titolo dell’obbligazione o alla natura dell’oggetto, il debitore non possa più ritenersi obbligato a eseguire la prestazione ovvero il creditore non abbia più interesse a conseguirla.

Laddove la prestazione negoziale, a causa dell’emergenza sanitaria, diventi solo parzialmente impossibile, la parte contrattuale creditrice di tale prestazione, ai sensi dell’art. 1464 c.c., ha diritto ad una corrispondente riduzione della controprestazione e può recedere dal contratto allorché non abbia interesse all’adempimento parziale; in ogni caso, può sospendere l’esecuzione della controprestazione. L’utilizzabilità di tale rimedio nel contesto dei contratti di locazione commerciale e con speciale riferimento all’obbligazione di pagamento del canone deve essere vagliata con speciale cautela da parte dell’interprete.

Paragrafo 3 – Le norme sull’eccessiva onerosità sopravvenuta – a cura di Alberto Mager

La pandemia deve considerarsi in linea di principio un evento straordinario e imprevedibile tale da legittimare il ricorso al rimedio dell’eccessiva onerosità sopravvenuta con riferimento ai contratti ad esecuzione continuata o periodica ovvero ad esecuzione differita (1467 c.c.).

In particolare, nel caso in cui la pandemia ovvero le misure di contenimento della stessa abbiano sbilanciato, in via definitiva ed oltre il limite dell’alea normale del negozio, l’economia del contratto, tanto in ragione dell’inusuale aumento di una o più voci di costo della prestazione da eseguire (c.d. eccessiva onerosità diretta), quanto a causa della speciale diminuzione di valore reale della prestazione da ricevere (c.d. eccessiva onerosità indiretta), il contratto è suscettibile d’essere risolto invocando tale rimedio. Va tuttavia considerato che l’effetto risolutorio mal risponde alle esigenze di conservazione e rimodulazione dei rapporti determinate dalla pandemia, specie con riferimento alle relazioni contrattuali tra imprese.

Paragrafo 4 – Inadempimento della prestazione e impotenza finanziaria – a cura di Alberto Mager

La crisi di liquidità del debitore (c.d. impotenza finanziaria), per quanto determinata dalle difficoltà dovute all’emergenza sanitaria, non consente in linea di principio di invocare gli effetti liberatori dell’impossibilità sopravvenuta ad adempiere.

Paragrafo 5 – Le norme sostanziali “anti-Covid” – a cura di Alberto Mager

Ai sensi dell’art. 91 d.l. 17 marzo 2020, n. 18, lo sforzo materiale ed economico di adattamento alle prescrizioni relative all’emergenza sanitaria non assurge ad esimente automatica dell’inadempimento, ma va ineludibilmente apprezzato alla stregua di un dato di estremo rilievo cui parametrare la valutazione sulla responsabilità del debitore. Il debitore, per liberarsi dalla responsabilità, non può quindi limitarsi ad allegare assiomaticamente che l’inadempimento è ascrivibile alle misure anti-contagio, dovendo, per converso, in linea con la previsione dell’art. 1218 c.c., offrire la prova circostanziata del collegamento eziologico fra inadempimento e causa impossibilitante rappresentata dal rispetto delle prescrizioni di contenimento dell’epidemia. Dal canto suo, il creditore, a fronte di tale peculiare situazione di “quiescenza”, del contratto può avvalersi dell’exceptio inadimpleti contractus (art. 1460 c.c.), per sospendere l’esecuzione della propria prestazione (quand’anche la stessa sia possibile e non impedita dalle misure di contenimento).

Nel contesto delle obbligazioni di dare è ben possibile che l’adeguamento alle prescrizioni sanitarie non impedisca l’esecuzione di tutta la prestazione, ma solo di un segmento di essa. Il debitore potrebbe offrire solo quel che è possibile eseguire, salva la facoltà del creditore di rifiutare l’adempimento parziale ex art. 1181 c.c. Qualora il creditore opti per ricevere la prestazione parziale, potrà sospendere parzialmente il proprio inadempimento, in simmetria col valore dell’altrui adempimento parziale (c.d. eccezione parziale d’inadempimento), in linea con il principio di proporzionalità sotteso all’art. 1460, comma 2, c.c.

Il principio di buona fede postula il controllo del modo con cui il creditore, autoriducendo la propria prestazione, ha concretizzato ovvero disatteso il principio di proporzionalità, potendosi così configurare la situazione in cui il debitore che ha offerto l’adempimento parziale della propria prestazione contesti l’autoriduzione operata dal creditore, ravvisandovi, a propria volta, un inaccettabile adempimento parziale.

Paragrafo 6 – Le norme “emergenziali” per le imprese in crisi – a cura di Sara Addamo e Federica De Gottardo

In risposta alle sollecitazioni provenienti dagli operatori economici, dalle associazioni professionali e dalle agenzie di rating, anche di livello europeo, con il d.l. n. 23 del 2020 il legislatore italiano ha introdotto una serie di misure emergenziali in materia societaria e concorsuale, aventi l’obiettivo di sostenere le imprese nella crisi di liquidità conseguente allo scoppio della pandemia da Covid-19.

In materia concorsuale, le previsioni introdotte con il citato decreto sono contenute agli articoli 5, 9 e 10. In particolare, l’articolo 5 dispone la posticipazione dell’entrata in vigore del Codice della Crisi e dell’Insolvenza al 1° settembre 2021. Il differimento è motivato anzitutto dall’incompatibilità tra gli obiettivi della riforma concorsuale – chiaramente volti all’emersione anticipata della crisi – e l’attuale dilaniato contesto economico che non consente agli indicatori della crisi di selezionare adeguatemene le imprese che richiedono un intervento. Il rinvio di un anno favorisce altresì il coordinamento della nuova normativa con gli obblighi derivanti dal recepimento della Direttiva UE 1023/2019 sulla ristrutturazione preventiva delle imprese, nonché gli operatori che possono continuare ad utilizzare un apparato normativo noto e già collaudato nell’immediatezza della crisi.

L’articolo 9 contiene una serie di agevolazioni sul piano temporale per gli imprenditori in concordato o che abbiano optato per la via dell’accordo di ristrutturazione. Nella specie: (i) prima dell’omologa, è riconosciuta una proroga sino a 90 giorni per riformulare il piano o la proposta ovvero ottenere un differimento del termine ex art. 161, comma 6, l. fall., anche in pendenza di istanze di fallimento; (ii) dopo l’omologa, è concesso agli imprenditori di posticipare sino a sei mesi i termini dei pagamenti programmati. L’obiettivo della disposizione, chiarisce la Corte, risiede nella volontà di evitare il naufragio di procedure avviate o definite in condizioni di mercato non deformate dalla pandemia.

L’articolo 10 dispone infine l’improcedibilità delle domande di fallimento depositate tra il 9 marzo 2020 e il 30 giugno 2020, senza operare alcuna distinzione tra istanze presentate dai creditori e istanze depositate dal debitore stesso. La ratio di tale ultima esclusione risiede, a mente della Relazione illustrativa al decreto, nell’invito al debitore di ponderare la possibilità di ricorrere a strumenti alternativi senza la pressione delle conseguenze civili e penali connesse all’aggravamento dello stato di insolvenza nel contesto della pandemia.

Sul punto, la Suprema Corte sottolinea l’assenza di alcuna previsione per le imprese minori non fallibili ed evidenzia l’impossibilità di applicare in via analogica a tali imprese le misure, di chiaro carattere eccezionale, previste per le imprese fallibili. Di conseguenza, osserva la Corte, le procedure previste per il cd. “sovraindebitamento” non beneficiano di alcuna proroga né deve ritenersi concessa la possibilità per i debitori sovraindebitati di adeguare le proposte già presentate e/o approvate alle mutate condizioni economiche.

Le disposizioni introdotte in materia societaria sono contenute agli articoli 6, 7 e 8 del decreto-legge. L’articolo 6 sospende l’applicazione – dall’entrata in vigore del decreto (9 aprile 2020) fino al 31 dicembre 2020 – delle norme relative agli obblighi di ricostituzione del capitale in caso di perdite (artt. 2446, 2447, 2482-bis, 2482-ter) e di scioglimento delle società di capitali e cooperative (artt. 2484, 2545-duodecies c.c.). La sterilizzazione di tali norme è finalizzata, chiarisce la Corte, ad evitare che gli amministratori di un numero elevatissimo di imprese si trovino nella scomoda ed abnorme alternativa tra l’immediata messa in liquidazione ed il rischio di incorrere in responsabilità per gestione non conservativa ex art. 2486 c.c.

Coerentemente, l’articolo 7 sterilizza altresì – in via transitoria – l’obbligo contemplato dall’art. 2423-bis, comma 1, n. 1, c.c. di verificare la sussistenza della continuità aziendale per la redazione del bilancio relativo all’esercizio in corso, con la conseguente possibilità per le imprese operanti nella prospettiva della continuità di seguire il medesimo criterio di redazione anche per il bilancio 2020: tale sorta di “prorogatio del «going concern» comporta, evidenzia la Corte, un mutamento del concetto di continuità aziendale che, dovendo essere rintracciata all’interno di bilanci già chiusi e redatti in data antecedente al 23 febbraio 2020, viene resa “singolarmente retrospettica”.

Anche in questo caso, specifica la Corte, l’esenzione è generalizzata e prescinde dall’esistenza di una precarietà finanziaria pregressa o indipendente dall’irruzione della pandemia da Coronavirus. Se l’obiettivo di tale disposizione è chiaro – vale a dire: una sospensione del giudizio sulle prospettive di continuità nell’auspicio del pronto recupero del going concern dopo l’emergenza – le modalità si rivelano ad avviso della Corte inadeguate. Al riguardo, la Corte evidenzia infatti che “le prospettive della continuità aziendale non sono destinate ad essere valutate esclusivamente in occasione del bilancio di esercizio, dovendo essere oggetto di verifica continuativa da parte degli amministratori attraverso adeguati assetti organizzativi, com’è previsto dall’art. 2086 c.c.”: norma, quest’ultima, che non è stata “vanificata” dal decreto-legge. In considerazione di ciò, la Suprema Corte insiste sulle difficoltà che si paleseranno alla cessazione dell’emergenza Coronavirus quando, cessati gli effetti dell’art. 7, le società “si troveranno a valutare in termini ordinari la loro consistenza patrimoniale e le loro attuali (a quel tempo) prospettive economiche”. A quella data, conclude la Corte, “sarà indispensabile che l’impresa abbia mantenuto oppure riacquistato un equilibrio economico-finanziario e una consistenza patrimoniale tali da consentirle effettivamente la prosecuzione della propria attività”.

Da ultimo, l’articolo 8 introduce un “disinserimento transitorio” dei vincoli derivanti dagli artt. 2467 e 2497-quinquies c.c., di fatto consentendo il rimborso senza postergazione dei finanziamenti soci. Anche in questo caso, la finestra temporale di operatività della disposizione è compresa tra la data di entrata in vigore del decreto e la fine dell’esercizio sociale in corso (31 dicembre 2020). Tale previsione, chiarisce la Corte, ha l’obiettivo di consentire all’ente “il rastrellamento di tutte le risorse finanziarie possibili, quand’anche sub specie di prestiti anomali da parte di membri della compagine che in una congiuntura tanto convulsa dell’impresa sarebbero scoraggiati a metterle sul piatto”.

Paragrafo 7 – L’esecuzione delle procedure concorsuali minori – a cura di Carolina Gentile

I termini di adempimento dei concordati preventivi, degli accordi di ristrutturazione, degli accordi di composizione della crisi e dei piani del consumatore omologati, aventi scadenza in data successiva al 23 febbraio 2020, ai sensi del comma primo dell’art. 9, d.l. 23/2020 (convertito, con modificazioni, dalla legge 40/2020), sono ex lege prorogati di sei mesi. Pertanto, nessun accertamento è richiesto circa le cause del ritardo, rispetto agli effetti della crisi Covid: la proroga è onnicomprensiva e indistinta.

La decretazione d’urgenza, però, non ha previsto alcunché in merito alla possibilità per il debitore di modificare il contenuto del piano concordatario. Tuttavia, ben difficilmente il piano iniziale potrà essere portato a compimento per come inizialmente concepito.

Ad avviso dei Giudici di legittimità, pertanto, l’approccio sistematico alla materia non può trascendere questa constatazione empirica.

L’assenza di una disciplina specifica della fase esecutiva del piano, ad esclusione delle previsioni di cui all’art. 186 l.f., implica che la cornice di questa sia a grandi linee la stessa del contratto in generale e dell’adempimento delle obbligazioni.

Da questo angolo visuale, il concordato è assimilabile ad un contratto ad esecuzione continuata, periodica o differita, esso infatti presenta una scissione fra il momento della sua conclusione e quello esecutivo. L’accordo concordatario si caratterizza, infatti, per la presenza di diversi “atti di esecuzione” che attribuiscono significato al rapporto nel suo insieme. Occorre quindi tenere conto dell’interesse oggettivato nel piano in quanto fondamento di tutti gli atti esecutivi, avvinti dal minimo comune denominatore del risultato finale: il superamento – nel tempo preventivato – della crisi, attraverso il soddisfacimento dei creditori.

Due norme appaiono di assoluta pregnanza sulla dorsale della riflessione della Corte di Cassazione: l’art. 1467 c.c. e l’art. 1256 c.c., che introducono nell’ordinamento uno dei principi fondamentali nella regolazione dei rapporti negoziali: la causa di forza maggiore; circostanza esimente rispetto all’inadempimento contrattuale nel momento in cui la sinallagmaticità delle prestazioni venga sovvertita da eventi straordinari ed imprevedibili, tali da squilibrare le forze all’interno del rapporto obbligatorio, impedendone l’esecuzione.

In particolare, la sopravvenuta impossibilità di adempiere la prestazione, per causa non imputabile al debitore, comporta la risoluzione del contratto ove detta causa, seppur temporanea, sia inconsueta, imponderabile e – come nel caso dell’epidemia da Covid-19 – non sia ascrivibile al debitore che la subisce quale evento estraneo rispetto alla propria sfera di azione (cfr. artt. 1256 e 1467 c.c.).

La Suprema Corte ha ribadito, quindi, che l’ordinamento riconosce alla parte “vittima” di eventi pregiudizievoli la possibilità di poter ottenere la rimodulazione della prestazione contrattuale divenuta inesigibile (cfr. art. 1467 comma terzo c.c.). Tale facoltà, ad avviso dei Giudici, non può che valere anche con riferimento al debitore in concordato nel senso che, ove le misure dei decreti legge non dovessero rivelarsi sufficienti a garantire la continuazione dei rapporti concordatari, potrà ricorrere alla condizione assolutoria della forza maggiore, al fine di ottenere la modifica del piano di concordato, a percentuali di proposta invariate e con mero allungamento dei tempi secondo le esigenze economico-finanziarie innescate dal temporaneo lockdown.

L’equa modificazione delle condizioni di piano è congegno che contempera l’esigenza del debitore (e del sistema) di tenere in piedi l’impresa e quella dei creditori a veder condotta innanzi la soddisfazione concorsuale dei propri crediti. Avverso la domanda di risoluzione ovvero, come appare empiricamente più ragionevole, in prevenzione della stessa, il debitore potrà quindi far valere la sopravvenienza, ai fini della modifica del piano in funzione del recupero dell’impresa, non certo per sottrarsi all’impegno assunto.

I Giudici di legittimità si sono, peraltro, soffermati anche sull’individuazione dei criteri sulla base dei quali stabilire se, a fronte delle variazioni apportate al piano, funzionali alla realizzazione del risultato programmato del superamento della crisi, sia necessario ripetere l’itinerario processuale concordatario.

In proposito, secondo la Suprema Corte, è necessario valutare le modifiche sulla base di due parametri, uno quantitativo ed uno qualitativo. Pertanto, se la variazione è “limitata”, in quanto non incidente sulla misura delle prestazioni della proposta, non si dovrà sottoporre ex novo il concordato al voto dei creditori. Del pari, ma sul piano qualitativo, se la modifica non comporta un mutamento dell’oggetto del contratto, non dovrà essere ripercorso l’iter giudiziale. Di conseguenza, un piano in continuità non potrà assumere una declinazione liquidatoria.

Sul medesimo versante, proseguono i Giudici, sembra assumere rilievo la garanzia patrimoniale dei creditori estranei all’area del concordato omologato, i quali non possono vedere ulteriormente assottigliarsi la garanzia patrimoniale generica ex art. 2740 c.c. senza un rinnovo inclusivo dell’iter concordatario.

La possibilità per le imprese incolpevolmente inadempienti di addivenire – a cornice normativa invariata – alla modifica del piano rappresenta, ad avviso della Suprema Corte, la corsia preferibile pure in una prospettiva teleologica.

Il tessuto normativo, infatti, evidenzia che il legislatore tende a dare più importanza al fine rispetto al mezzo: se il fine della proposta concordataria è attribuire una certa soddisfazione ai creditori, da realizzare attraverso l’esercizio di impresa ed esclude ai sensi dell’art. 185 l. f. ogni ingerenza commissariale al riguardo, vuol dire che a rilevare non è tanto come si arrivi ad attuare la proposta concordataria, quanto il mantenimento in sé dell’impegno di pagare i creditori.

Stante tale considerazione, ad avviso dei Giudici di legittimità è, pertanto, coerente permettere al debitore di modificare il piano in corso di esecuzione, purché conservi nella misura gli impegni assunti.

L’attribuzione al debitore della facoltà di modifica,che, anteriormente all’omologa, avrebbe potuto esercitare non oltre l’inizio delle operazioni di voto (cfr. art. 172 l.f.) si giustifica, ad avviso della Suprema Corte, proprio in considerazione del fatto che ci si trova ormai nella fase esecutiva, nell’ambito della quale il meccanismo contrattuale richiede sic et simpliciter che l’obbligato adempia. Pertanto, poiché l’adempimento consiste, in linea di massima, in una prestazione pecuniaria e fungibile, il mezzo attraverso cui il debitore si procura la provvista viene ad appannarsi rispetto all’impellenza della dazione.

Paragrafo 8 – Il principio di conservazione del contratto – a cura di Benedetta Bonfanti

Nel contesto dell’emergenza pandemica da Covid, sotto il profilo specifico dei rimedi contrattuali esperibili al verificarsi di sopravvenienze sperequative, la risoluzione per eccessiva onerosità ex art. 1476 c.c. risulta uno strumento inadeguato, dal momento che legittima a richiedere la revisione del contratto divenuto iniquo solo alla parte che ha meno interesse al riequilibrio del rapporto, in quanto da questo svantaggiata.

L’art. 1467 c.c., al netto delle soluzioni che contempla, dimostra come l’ordinamento privilegi la conservazione del contratto mediante revisione, rispetto alla caducazione del rapporto negoziale. Tale preferenza, che generalmente può riferirsi anche al rimedio della rinegoziazione del contratto, trova conferma nella disciplina relativa a singoli tipi contrattuali, necessariamente o funzionalmente influenzati dal fattore tempo; in specie negli artt. 1664 c.c. in materia di appalto e 1623 c.c. relativo al contrato di affitto.

Paragrafo 9 – La rinegoziazione del contratto squilibrato – a cura di Benedetta Bonfanti

Ogni qualvolta una sopravvenienza rovesci il terreno fattuale e l’assetto giuridico-economico su cui si è eretta la pattuizione negoziale, la parte danneggiata in executivis ha la possibilità di rinegoziare il contenuto del regolamento contrattuale.

La sussistenza di un vero e proprio obbligo di rinegoziazione trova fondamento negli obblighi di correttezza e buona fede oggettiva ex artt. 1175 e 1375 c.c., espressivi del dovere inderogabile di solidarietà costituzionale (art. 2 Cost.). Nel contesto delineato dall’emergenza pandemica, le clausole generali di correttezza e buona fede oggettiva, postulando la rinegoziazione come via necessitata, permettono l’equo adattamento del contratto alle circostanze ed esigenze sopravvenute e la salvaguardia del rapporto economico nel rispetto della pianificazione convenzionale. Anche l’interpretazione del contratto secondo buona fede ai sensi dell’art. 1366 c.c. gioca un ruolo rilevante nell’enucleazione di un obbligo di rinegoziazione. Sulla base della norma è infatti possibile ipotizzare la comune intenzione delle parti di rivedere, adeguare o modificare l’assetto contrattuale al variare della situazione di fatto, ove le condizioni pattuite non rispondano più alla logica economica sottesa alla stipulazione del contratto.

Il rimedio della rinegoziazione del contratto, trovando la base normativa negli obblighi di correttezza e buona fede oggettiva, è destinato a prevalere su quello accordato dall’art. 1467 c.c. Quest’ultima disposizione, infatti, astrattamente idonea a governare le sopravvenienze sperequative, ha carattere dispositivo, come tale derogabile da quelle norme imperative di legge nel cui novero si inseriscono gli artt. 1175 e 1375 c.c.

L’obbligo di rinegoziazione impone di intraprendere nuove trattative e di condurle correttamente, non anche di concludere il contratto modificativo. Pertanto, la parte tenuta alla rinegoziazione è adempiente se, in presenza dei presupposti che richiedono la revisione del contratto, promuove una trattativa o raccoglie positivamente l’invito e se propone soluzioni riequilibrative che possono ritenersi eque e accettabili alla luce dell’economia del contratto; al contrario, si avrà inadempimento nell’ipotesi di rifiuto di intraprendere il confronto oppure nel condurre trattative maliziose (senza, cioè, alcuna seria intenzione di addivenire alla modifica del contratto).

Paragrafo 10 – Rilievi conclusivi (integrazione del regolamento contrattuale ad opera del giudice ed esecuzione specifica ex art. 2932 c.c. dell’obbligo a rinegoziare) – a cura di Benedetta Bonfanti

Qualora il sinallagma contrattuale sia stravolto dalla pandemia e la parte avvantaggiata disattenda l’obbligo di rinegoziazione, è ammissibile, a precise condizioni, un intervento sostitutivo del giudice; segnatamente, quando dal regolamento negoziale emergano i termini in cui le parti hanno inteso ripartire il rischio derivante dal contratto e, dunque, risultino i criteri atti a ristabilire l’equilibrio contrattuale.

Qualora si ravvisi in capo alle parti l’obbligo di rinegoziare il rapporto squilibrato e una parte si renda inadempiente, è ipotizzabile che questo sia coercibile in forma specifica ex art. 2932 c.c. In una simile ipotesi la decisione del giudice, che tiene luogo della volontà delle parti, non può avvenire sulla scorta di un metro casuale, soggettivo o arbitrario, dovendosi calibrare su elementi rigorosamente espressi dal medesimo regolamento contrattuale. In specie, plurimi sono i criteri che il giudice può adottare per condurre l’adeguamento del rapporto. Esemplificativamente, se le variate circostanze attengono ai costi indispensabili ad eseguire la prestazione, l’adattamento del contratto può attuarsi attraverso una rimodulazione delle modalità di esecuzione della prestazione o mediante una revisione al rialzo dei costi con incremento del prezzo finale.

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