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Approfondimenti

ESG e fiscalità: il fattore di sostenibilità della governance, letto attraverso il Tax Control Framework

20 Dicembre 2021

Marco Lio, Tax Partner, PwC TLS

Di cosa si parla in questo articolo

Sommario: 1. L’acquario della tax transparency nel contesto dell’ESG – 2. La comunicazione di sostenibilità a riguardo delle imposte – 3. Il Tax Control Framework – 4. L’osmosi tra TCF e ESG.

 

1. L’acquario della tax transparency nel contesto dell’ESG

Le imposte giocano un ruolo significativo nella dinamica della sostenibilità, oggi riassunta nel trifoglio ESG – Environmental, Social e Governance – nato sotto l’egida dell’ONU ed entrato nel lessico quotidiano[1]: oltre al diretto collegamento di taluni tributi con il fattore “ambientale” ed all’incasellamento della raccolta delle imposte nel fattore “sociale”, la gestione della fiscalità ben si accasa nel petalo della “governance”.

D’altro canto, tra i Sustainable Development Goals tracciati in ambito Nazioni Unite, nel documento programmatico adottato nel 2015 e noto come Agenda 2030[2], la fiscalità si incastona per certo negli obiettivi Peace, Justice and Strong Institutions (SDG 16) e Partnerships for the Goals (SDG 17)[3].

Non deve quindi stupire che la migliore pratica internazionale sulla reportistica di sostenibilità abbia, da qualche tempo, messo a fuoco anche gli aspetti legati al prelievo tributario ed alla relativa gestione: in termini di strategia fiscale, di controllo dei rischi, di rapporto con le Autorità fiscali e di rendicontazione del prelievo in sé, Paese per Paese[4].

La variabile fiscale e l’approccio nella gestione dei rischi sottesi alla corretta determinazione delle imposte sono così entrati a far parte del catalogo degli indicatori che investitori e mercato – oltre che amministrazioni finanziarie, organizzazioni non governative e consumatori – mettono sotto osservazione, nella valutazione di un’impresa, delle sue performance pregresse e prospettiche e del suo grado di responsabilità sociale.

La metafora dei pesci nell’acquario, con gli osservatori che di qua dal vetro ne misurano i comportamenti, suggerisce come le imprese oggi – e in via incrementale domani, anche in logica monitoraggio dei sussidi Covid-19 – saranno scandagliate e valutate sulla base degli approdi evolutivi della tax transparency che vanno a corroborare sempre più l’effetto vetrina. Seguendo la metafora, occorre fornire alle imprese gli strumenti necessari per distinguersi, nel banco, come i pesci dalla livrea più brillante, così da rendersi più attrattivi sul mercato e agli occhi degli stakeholders: nel seguito si proverà ad argomentare come lo strumentario del Tax Control Framework, nel garantire un puntuale controllo del rischio fiscale, consente di accattivarsi le attenzioni degli investitori.

2. La comunicazione di sostenibilità a riguardo delle imposte

A partire dagli esercizi finanziari aventi inizio dal 1° gennaio 2017, con la Direttiva sul non-financial reporting – cui si farà riferimento, di seguito, con l’acronimo NFRD, utilizzato in ambito unionale – il legislatore europeo ha prescritto, a banche, compagnie di assicurazione e riassicurazione e società quotate di grandi dimensioni, la comunicazione di informazioni di carattere non finanziario[5].

La normativa, che si applica agli enti di interesse pubblico che soddisfano parametri di rilevanza espressi in termini di forza lavoro e di valori economici e patrimoniali[6], prevede l’obbligo di fornire informazioni sulla sostenibilità, avendo riguardo quanto meno ai temi ambientali, a quelli sociali ed attinenti al personale, al rispetto dei diritti umani e alla lotta contro la corruzione attiva e passiva.

Per la redazione dell’informativa non finanziaria, nell’attuale impianto legislativo europeo, non è stato stabilito un framework di riferimento obbligatorio, definito in via autonoma a livello unionale: è tuttavia previsto che le imprese possano adottare gli standard di rendicontazione emanati da autorevoli organismi sovranazionali, internazionali o nazionali, di natura pubblica o privata, specificando lo standard seguito, salvo poter sviluppare una metodologia autonoma di rendicontazione[7].

Lo standard che si è ampiamente affermato come il riferimento di mercato è quello elaborato dal Global Sustainability Standard Board e compendiato nel framework del Global Reporting Initiative o GRI Standards[8]. Per gli esercizi finanziari in corso al 31 dicembre 2020, con l’adozione del GRI 207, pubblicato il 5 dicembre 2019, il reporting non finanziario, secondo i GRI Standards, si è arricchito delle informazioni relative alla materia fiscale, laddove le imposte siano valutate come un tema materiale per l’impresa[9][10]. In dettaglio: oltre alla rendicontazione delle informazioni fiscalmente rilevanti, Paese per Paese, per ogni giurisdizione dove l’impresa opera (GRI 207-4)[11], lo standard GRI 207 ha prescritto la rappresentazione dell’approccio adottato nella gestione della fiscalità (GRI 207-1) e la descrizione della governance e del modello di controllo dei rischi fiscali (GRI 207-2), oltre che della modalità di relazione con gli stakeholders aziendali, tra i quali l’autorità fiscale (GRI 207-3).

Una prima fonte pubblica di informazioni sulla modalità di gestione della variabile fiscale – nella logica dell’acquario – è stata così alimentata dalla reportistica non finanziaria. Le imprese che hanno adottato il framework GRI, in particolare, si sono dovute confrontare con la rappresentazione, dall’esercizio 2020:

  1. della strategia fiscale adottata (o della mancata adozione della stessa), con particolare riguardo al tax risk appetite: ad esempio, se sono state declinate misure ragionevoli per rispettare la lettera e lo spirito delle normative fiscali delle giurisdizioni in cui l’impresa opera – GRI 207-1;
  2. del sistema di controllo e gestione del rischio fiscale (o della mancanza dello stesso) e, in dettaglio, con quali processi e procedure si garantisce la compliance alla normativa tributaria (rischio di adempimento) o si gestisce l’incertezza nell’interpretazione della stessa (rischio interpretativo) – GRI 207-2;
  3. della relazione con l’autorità fiscale, in specie se si partecipa a regimi di co-operative compliance, fondati sull’interlocuzione preventiva sui rischi fiscali, al fine di assicurare certezza al contribuente – GRI 207-3.

Con la proposta di Direttiva del 21 aprile 2021 in tema di corporate sustainability reporting – che citeremo di seguito come Proposta di CSRD – la Commissione europea ha previsto una manutenzione del quadro normativo di riferimento sul non-financial reporting[12].

Muovendosi nel contesto del Green deal europeo[13] e con l’intento di disegnare un quadro europeo per la comunicazione societaria sulla sostenibilità, la Proposta di CSRD, inter alia e per quanto qui di interesse: i) amplia la platea dei soggetti obbligati alla rendicontazione non finanziaria  ricomprendendovi, già dal 2023, tutte le imprese di grandi dimensioni, anche non quotate, e, a decorrere dal 1° gennaio 2026, le imprese di medie e piccole dimensioni, solo se quotate[14]; e ii) prevede la definizione di principi unionali obbligatori per l’informativa sulla sostenibilità, da adottare con atti delegati alla Commissione europea, al fine di “garantire la comparabilità delle informazioni e la divulgazione di tutte le informazioni pertinenti[15].

Con particolare riguardo all’obiettivo di creare gli standard europei di sustainability reporting, la Commissione europea si propone di coordinare questo sforzo con le analisi dei migliori standard setter che già oggi operano sul mercato, primo tra i quali, come si è detto, è il GRI Standards: i principi europei dovrebbero in tal modo contribuire al processo di convergenza dei principi di informativa sulla sostenibilità a livello globale[16]. Come detto, il quadro internazionale sul reporting non finanziario già oggi valorizza, nel GRI 207, l’informativa sulla gestione della fiscalità, tanto per il fattore di sostenibilità dato dalla governance, per le informazioni richieste dal GRI 207-1/3, quanto con riferimento al fattore sociale, in relazione ai requisiti informativi prescritti dalla reportistica Paese per Paese di cui al GRI 207-4.

Ma vi è di più: tra i criteri tracciati per la definizione dei principi di informativa di sostenibilità, devoluta alla Commissione europea, la proposta di CSRD include espressamente le informazioni relative ai fattori di governance e tra esse: i) la disclosure relativa all’etica aziendale ed alla cultura di impresa; nonché ii) gli elementi informativi sui sistemi interni di controllo e gestione del rischio dell’impresa[17].

I lavori per l’adozione dei principi unionali sull’informativa di sostenibilità sono già in corso, per arrivare a rilasciarli per la prima applicazione prevista per gli esercizi che iniziano dal 1° gennaio 2023[18]. Il coordinamento con i principi GRI – che già oggi hanno incorporato le tematiche fiscali all’interno della comunicazione non finanziaria – combinato con il criterio direttivo della mappatura di standard etici e sistemi di controllo del rischio, rendono chiara la strada tracciata dalla Proposta di CSRD: i principi europei di informativa sulla sostenibilità non potranno che richiedere, con riguardo al fattore governance, la rendicontazione degli aspetti di gestione della fiscalità che già oggi sono confluiti nel quadro di riferimento dei GRI Standards, dopo l’endorsment del GRI 207 di cui si è detto. Aggiungiamo che questa stessa azione combinata renderà necessario dare conto, sotto il fattore sociale delle questioni di sostenibilità, del contributo delle imprese alle esigenze finanziarie delle diverse giurisdizioni in cui operano, attraverso la fiscalità[19].

3. Il Tax Control Framework

3.1 Il sistema di controllo interno del rischio fiscale nel contesto della sostenibilità

I lavori in corso a livello europeo, oltre ad aumentare il numero di pesci sotto osservazione nell’acquario metaforicamente richiamato nelle prime righe di questo contributo, consolideranno le linee guida unionali per la reportistica di sostenibilità, che contribuiranno a fornire all’osservatore ulteriori spunti di analisi sulla corporate tax governance delle imprese che nuotano nell’acquario.

L’adozione di un sistema di controllo interno del rischio fiscale – Tax Control Framework, secondo la tassonomia internazionale – è la necessaria e compiuta risposta all’esigenza delle imprese di far bella mostra di sé a riguardo dei fattori di sostenibilità correlati alla variabile fiscale.

Per argomentare opportunamente questa tesi, prendiamo le mosse dal framework condiviso a livello internazionale, per il compiuto disegno e l’effettiva gestione di un sistema di controllo interno del rischio fiscale, che peraltro ha trovato pieno riconoscimento e legittimazione anche nel nostro ordinamento.

Lo standard di riferimento, nel disegno di un sistema di controllo dedicato al rischio fiscale, è stato tessuto dai lavori multilaterali svolti in seno all’OCSE: dal 2008 al 2013, i documenti elaborati sulla scorta delle esperienze dei Paesi più avanzati hanno definito i pilastri intorno ai quali edificare un Tax Control Framework (TCF), per garantire all’impresa di essere “in controllo” dei rischi fiscali[20]. I riferimenti adottati dall’OCSE, nel disegnare i sei building blocks del TCF si ispirano, a loro volta, ai 5 componenti e 17 principi elaborati dal COSO Framework, a riguardo dei sistemi di controllo interno, e da quest’ultimo quadro di soft law traggono il proprio retroterra culturale ed esperienziale[21].

Nel contesto italiano, l’armamentario di derivazione OCSE è stato fatto proprio dal legislatore domestico per regolare l’ammissione al regime di co-operative compliance, denominato adempimento collaborativo, introdotto nel nostro ordinamento, per i contribuenti di maggiori dimensioni, nel preliminare presupposto che si siano dotati di un Tax Control Framework[22]. L’esperienza domestica ha aggiunto alcuni dettagli operativi agli standard internazionali, andando a completare il quadro di riferimento cui ispirarsi per la messa a terra di un sistema di controllo interno che mitighi efficacemente il rischio fiscale[23].

L’alberatura del TCF secondo le indicazioni dell’OCSE, ulteriormente arricchite dalle prescrizioni del regolatore italiano, risponde in pieno ai requisiti necessari per soddisfare le esigenze sostanziali ed informative richieste – e in corso di riscrittura – nel contesto della comunicazione di sostenibilità di cui si è detto sin qui. Si proverà nel seguito a ripercorrere i pilastri del TCF, per evidenziare i punti di contatto tra il sistema di controllo interno del rischio fiscale e le prescrizioni desumibili dal quadro ESG. Lo faremo scandendo le tre aree di funzionamento del TCF, cui ricondurremo i building blocks declinati in sede OCSE ed i requisiti che, per derivata dai lavori internazionali, l’Agenzia delle entrate riscontra in sede di ammissione al regime di adempimento collaborativo: i) l’ambiente di controllo; ii) la mappatura dei rischi fiscali; iii) la governance del TCF.

3.2 Le aree di funzionamento del TCF

3.2.1 L’ambiente di controllo

È agli atti della Commissione del Senato degli Stati Uniti d’America, guidata dal senatore Carl Levin, nel 2014, un caso che ha coinvolto una multinazionale nordamericana, che sin dal 2004 aveva realizzato un sistema di controllo, volto a identificare e misurare le operazioni del gruppo, sotto le lenti del rischio fiscale. Il Tax Risk Guards Rail System, come era stato denominato, prevedeva un meccanismo di risk scoring delle scelte interpretative incerte e aveva intercettato l’operatività del gruppo in Svizzera come una posizione ad alto rischio fiscale, in relazione alle royalties con cui la filiale elvetica drenava profitti.

Le risultanze emerse condussero tuttavia il top management a chiudere il sistema di controllo interno, che le aveva fatte venire a galla, invece di mettere in ordine la gestione della fiscalità con riguardo alla filiale svizzera: l’epilogo della vicenda ha visto in seguito il gruppo oggetto di una contestazione da parte dell’Amministrazione finanziaria statunitense (IRS) proprio sulla fiscalità legata alle operazioni della controllata elvetica, ma l’insegnamento che ne traiamo è piuttosto legato al primo componente di un robusto Tax Control Framework: il pieno coinvolgimento degli organi apicali – e in specie del Consiglio di amministrazione – nell’adozione di un TCF, pena la mancanza di effettività dello stesso.

È così richiesto dalla best practice che il TCF affondi le proprie radici in un ambiente eticamente orientato al controllo del rischio fiscale ed alla relativa gestione proattiva, piuttosto che alla sindrome dello struzzo, come nel caso esaminato dalla Commissione Levin: per queste ragioni, i lavori OCSE prevedono che il tessuto connettivo di un sistema di controllo del rischio fiscale sia dato dalla condivisione valoriale, in capo al top management ed al Board, della volontà di essere in controllo del rischio fiscale[24].

Il tone at the top a riguardo della gestione del rischio fiscale, prescritto dai documenti OCSE e ripreso dalle indicazioni sul regime interno dell’adempimento collaborativo, si traduce nell’adozione di una strategia fiscale, che definisca il tax risk appetite e che delinei “il grado di coinvolgimento dei vertici aziendali nelle decisioni di pianificazione fiscale e gli obiettivi che l’impresa si pone in relazione ai processi di gestione del rischio fiscale[25].

Sono inoltre richiesti soft controls che contribuiscono, unitamente alla strategia fiscale, a corroborare un control environment necessario per evitare che il disegno di un TCF resti sulla carta come è successo al Tax Risk Guards Rail System: ad esempio le azioni di diffusione della cultura fiscale, al di fuori della sola funzione tax, piuttosto che l’assenza di obiettivi assegnati ai manager volti alla minimizzazione, purché sia e senza razionali sottostanti, del carico fiscale.

3.2.2 La mappatura dei rischi fiscali

Il sistema di controllo deve prevedere:

  1. la rilevazione del rischio fiscale, mediante la mappatura dei rischi fiscali e la relativa associazione ai processi aziendali in cui si manifestano;
  2. la misurazione del rischio fiscale, in termini quantitativi e qualitativi;
  3. la gestione e il controllo del rischio fiscale, identificando i presidi a mitigazione dei rischi ed i relativi gap da sanare[26].

L’impianto del sistema di controllo, per il rischio di corretto adempimento della normativa tributaria, si traduce nella tessitura di matrici rischi/controlli, che associano ai processi aziendali le fattispecie rilevanti, perché foriere di rischi, e le attività di presidio su questi ultimi. Si tratta di mettere in sicurezza il rischio di compliance, da intendersi come rischio di correttamente adempiere al precetto normativo tributario, attraverso la puntuale determinazione, liquidazione e dichiarazione delle imposte dovute.

Le indicazioni dell’OCSE prescrivono una mappatura granulare dei rischi di corretto adempimento della normativa tributaria, così che il TCF possa abbracciare, nella quotidianità, ogni attività aziendale in cui possa annidarsi il rischio fiscale[27]. Vale la metafora per cui il TCF è come un ombrello che ci mette al riparo dall’acquazzone: se lo apriamo – ovvero se mappiamo puntualmente rischi e controlli – restiamo all’asciutto, mentre se lo teniamo chiuso – con una mappatura superficiale, non opportunamente attagliata alla concreta realtà aziendale – ci bagniamo come se l’avessimo lasciato a casa[28].

La puntuale declinazione della mappatura sulla fiscalità pertinente il business dell’impresa è richiesta non solo in sede di primo disegno del TCF, bensì anche nell’aggiornamento periodico cui devono essere sottoposti rischi e controlli riportati nelle matrici, alla luce delle novità fiscali e delle modifiche di processo: uno dei requisiti di adeguatezza del TCF è infatti l’adattabilità rispetto al mutare del contesto tanto normativo (dunque esterno), quanto di business (ovvero interno)[29].

Sempre per garantire granularità e attualità delle mappe di rischio, a seguito dell’introduzione dei reati tributari nel perimetro della responsabilità amministrativa degli enti, ex art. 25-quinquiesdecies del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, occorre assicurare un ulteriore irrobustimento del Tax Control Framework, al fine di mappare il rischio fiscale comprendendo le fattispecie rilevanti ai fini della responsabilità penale, così da ottenere benefici di mitigazione anche della correlata responsabilità degli enti[30]. Il TCF potrà, in tal modo, essere di supporto del modello di gestione e controllo, quale esimente della responsabilità degli enti, nella denegata ipotesi in cui occorra affrontare il giudizio di idoneità postuma di quest’ultimo rispetto ad un’eventuale violazione in cui si sia incorsi[31][32].

3.2.3 La governance del TCF

La chiara definizione di una corporate tax governance costituisce l’ulteriore requisito del TCF e opera su due livelli: la gestione del rischio fiscale ed il monitoraggio del sistema di controllo.

In primo luogo, l’impresa deve definire un percorso tracciato e ripercorribile a riguardo dell’assunzione del rischio fiscale, nella manifestazione di quest’ultimo in termini di rischio interpretativo. Oltre che dalla – e prima della – dimensione di adempimento, i rischi di violazione della normativa tributaria discendono dalla puntuale interpretazione della stessa: l’attribuzione del corretto significato alle prescrizioni fiscali e la corretta qualificazione dei fatti sottesi alla relativa applicazione generano spesso incertezza, che si porta dietro un più o meno elevato tasso di potenziale sindacabilità delle scelte interpretative.

Ne segue la necessità di gestire, attraverso il TCF, oltre che il rischio di compliance, quello sotteso alle scelte interpretative, assicurando una chiara attribuzione di ruoli e responsabilità, relativamente alla gestione della materia tributaria, a persone con adeguate competenze ed esperienze, secondo criteri di separazione dei compiti[33].

La puntuale identificazione e misurazione delle scelte che generano incertezza fiscale, attraverso un percorso di tracking and tracing delle stesse scelte, risponde ad una delle prescrizioni del framework delineato dall’OCSE[34]. La definizione di un ordinato processo di analisi del rischio interpretativo consente in particolare: i) di creare la necessaria escalation decisionale, per attribuire l’assunzione del rischio alle pertinenti funzioni aziendali, al crescere della magnitudine del rischio stesso; ii) di adottare i necessari presidi a mitigazione dei rischi interpretativi, dal ricorso alla consulenza esterna, al confronto preventivo attraverso l’interlocuzione con l’Agenzia delle entrate, nell’ambito del regime di adempimento collaborativo, in ossequio agli obblighi che ci si assume al riguardo, al superamento delle soglie di significatività del rischio[35].

In secondo luogo, il TCF deve altresì garantire un processo di monitoraggio dei meccanismi di controllo del rischio fiscale disegnati, al fine di dare assurance rispetto alle procedure in cui si articola il sistema di controllo interno del rischio fiscale e di individuare eventuali carenze o errori nel funzionamento dello stesso e la conseguente attivazione delle necessarie azioni correttive[36].

Il TCF si deve pertanto articolare in tre linee di difesa: la prima, attribuita alle funzioni che gestiscono i processi in cui si annidano i rischi fiscali – sia di compliance, sia interpretativi – come tali owner di controlli di primo livello; la seconda, attribuita ad una funzione indipendente di tax risk management, che non svolge le attività di linea fiscalmente rilevanti, in ossequio al principio di segregation of duties, e che verifica periodicamente il disegno (test of design) e l’effettività (test of effectiveness) dei controlli di primo livello disegnati nel TCF; la terza, tipicamente svolta dalle funzioni audit dell’azienda o attribuita ad una funzione di assurance esterna, al fine di garantire, in maniera immanente, la consistenza del sistema nel complesso[37].

Da ultimo, le regole di corporate tax governance devono prevedere la chiusura del sistema, in termini di flusso informativo di ritorno, rispetto agli input forniti dal Consiglio di amministrazione, attraverso l’adozione della strategia fiscale: tanto sui rischi interpretativi, quanto sugli esiti delle attività di monitoraggio, deve essere prevista la relativa rendicontazione in una relazione, almeno annuale, diretta al Consiglio stesso, che è responsabile, in ultima analisi, del disegno, dell’implementazione e dell’effettività del TCF[38].

4. L’osmosi tra TCF e ESG

Il disegno del Tax Control Framework, secondo l’articolazione che si è ripercorsa, consente di dotare l’impresa di una strategia fiscale, di una mappatura dei rischi e di regole di tax risk governance per la relativa assunzione e mitigazione. Si garantisce, con questo strumento, una presa solida dell’impresa sul rischio fiscale.

Ed ancora, andando oltre la mera gestione del rischio di conformità alla lettera della norma, un TCF così strutturato ed articolato può compiutamente indirizzare l’impresa verso comportamenti ispirati al pieno apprezzamento dell’impatto sociale delle imposte come contribuzione chiave per i bisogni collettivi dei Paesi dove le imprese operano: il Tax Control Framework è idoneo a mettere al riparo anche da condotte fiscali che, pur formalmente compliant con la disciplina tributaria, possano ugualmente compromettere il raggiungimento degli obiettivi di sostenibilità dell’attività di business.

La puntuale declinazione operativa del sistema di controllo interno, unitamente al periodico aggiornamento e monitoraggio del TCF, integrano e soddisfano in tal modo pienamente le aspettative di investitori e stakeholders che osservano, sotto la lente della corporate sustainability, i comportamenti fiscali dei pesci nell’acquario della tax transparency da cui siamo partiti.

Il fattore della governance, all’interno del trifoglio ESG, può essere ulteriormente rafforzato attraverso l’adesione, abilitata dal TCF, ai regimi di co-operative compliance, che assicurano una relazione rafforzata con le competenti Amministrazioni finanziarie, garantendo certezza sulle scelte fiscali, in cambio di trasparenza, e consolidando in tal modo la posizione di contribuente al riparo dai rischi fiscali, letta attraverso gli indicatori della comunicazione di sostenibilità[39].

Per altro verso, le dinamiche ESG e l’esigenza di mostrare all’osservatore di là dal vetro dell’acquario le proprie qualità di impresa che ha a cuore la sostenibilità, anche nella gestione delle imposte, suggeriscono l’adozione di un TCF, che dia attestazione dell’effettività del controllo del rischio. Ed eventualmente l’adesione all’adempimento collaborativo e ai regimi multilaterali di co-operative compliance.

In questo senso, un virtuoso flusso osmotico, a beneficio dell’impresa, può mettere il TCF a servizio delle esigenze ESG, così da soddisfare i requisiti di sostenibilità sul lato delle imposte, e dare al contempo stimolo, internamente all’azienda, per adottare il TCF, proprio per risultare in linea con le prescrizioni ESG.

 

[1] Il trinomio ESG vede la luce, nel giugno 2004, quando, d’intesa con il Global Compact delle Nazioni Unite, 20 primarie istituzioni finanziarie, che rappresentavano 6 trilioni di dollari americani di masse gestite, pubblicano il report dal titolo: “Who Cares Wins: Connecting Financial Markets to a Changing World”. Al documento, in cui sono declinate le strategie per integrare Environmental, Social e Governance (ESG appunto) quali key value drivers nelle analisi di mercato e nelle scelte di investimento, farà seguito, nell’agosto 2005, la conferenza tenuta a Zurigo, dal titolo Investing for Long-Term Value – Integrating environmental, social and governance value drivers in asset management and financial research, i cui lavori sono disponibili sul sito ufficiale dell’ONU https://digitallibrary.un.org/record/681686 [accesso 14.12.21].

[2] Il riferimento è alla risoluzione adottata dall’Assemblea Generale dell’ONU, il 25 settembre 2015, che disegna la 2030 Agenda for Sustainable Development Goals. Il documento è reperibile sul sito: https://www.un.org/ga/search/view_doc.asp?symbol=A/RES/70/1&Lang=E [accesso 14.12.21].

[3] In questo senso si veda I. Burgstaller, ESG Transformation and Transfer Pricing Implications, in International Transfer Pricing Journal, 2022 (Volume 29), No. 1, par. 2.3. Sulla rilevanza delle politiche di gestione della corporate tax sulle tematiche di sostenibilità, si veda il chiaro contributo di A. Valsecchi, What corporate tax policy has to do with sustainability (and how companies should deal with it), 2021, SSRN: https://ssrn.com/abstract=3854974 [accesso 14.12.21]: “my thesis is that corporate tax policies are going to play a key role in measuring the company’s social impact: since paying taxes constitutes an indirect but utterly concrete way through which the company contributes to the prosperity of the society, unfair tax policies – although formally compliant with the law – will be held by the stakeholders as undermining the universal challenge of sustainability”.

[4] Lo standard di reportistica non finanziaria internazionale denominato GRI 207, di cui si dirà diffusamente infra, richiama l’assonanza delle imposte con gli obiettivi dell’Agenda 2030, per affermare che “le Nazioni Unite riconoscono che esse [le imposte appunto] svolgono un ruolo fondamentale per il raggiungimento degli Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile” (i.e. gli SDG dell’Agenda 2030).

[5] Direttiva n. 2014/95/UE, del 22 ottobre 2014 (Non-Financial Reporting Directive, in acronimo appunto “NFRD”), che ha modificato la Direttiva 2013/34/EU, del 26 giugno 2013, che disciplina i bilanci di esercizio, i bilanci consolidati e le relative relazioni. La NFRD è stata attuata nel diritto interno dal decreto legislativo 30 dicembre 2016, n. 254.

[6] La normativa in commento si applica agli enti di interesse pubblico che registrano un numero di dipendenti occupati in media durante l’esercizio pari a 500 e che, alla data di chiusura dell’esercizio, soddisfino almeno uno dei due seguenti indicatori: attivo patrimoniale superiore a 20 milioni di euro; ricavi superiori a 40 milioni di euro (art. 2, co. 1, del decreto legislativo n. 254 del 2016). È inoltre previsto un obbligo di reporting a livello consolidato, in caso di ente di interesse pubblico, società madre di un gruppo di grandi dimensioni, che come tale integri i requisiti occupazionali e, in alternativa tra loro, economici o patrimoniali di cui sopra (art. 2, co. 2, e art. 4 del decreto legislativo n. 254 del 2016).

Per la definizione di ente di interesse pubblico, la norma di recepimento in Italia della Direttiva 2014/95/UE rinvia all’elenco che rileva ai sensi delle disposizioni sulla revisione contabile, contenuto nell’articolo 16, co. 1, del decreto legislativo 29 gennaio 2010, n. 39, e che comprende le società italiane emittenti valori mobiliari ammessi alla negoziazione in mercati regolamentati dell’Italia o dell’Unione europea, le banche e le imprese di assicurazione e riassicurazione.

Sulla base di quanto riportato dalla Commissione europea, nello Staff Working Document – Impact Assessment della proposta di Direttiva sulla comunicazione societaria sulla sostenibilità, di cui si dirà infra, il numero di società coinvolte dall’obbligo di reporting previsto dalla NFRD è stimato in circa 11.700. Si veda: SWD(2021) 150 final, del 21 aprile 2021, pag. 3.

[7] Il riferimento agli standard è contenuto nel Considerando 9 della NFRD ed è ripreso dall’art. 1, co. 1, lett. f), del decreto legislativo n. 254 del 2016. Alla lett. g) del medesimo art. 1, co. 1, viene altresì definita come metodologia autonoma di rendicontazione l’insieme composito, costituito da uno o più standard di rendicontazione e dagli ulteriori principi, criteri ed indicatori di prestazione, autonomamente individuati ed integrativi rispetto a quelli previsti dagli standard, che risulti funzionale ad adempiere agli obblighi di informativa non finanziaria.

Nel contesto del quadro normativo definito dalla NFRD (art. 2), la Commissione europea ha peraltro pubblicato, nel 2017, gli orientamenti non vincolanti sulla metodologia di comunicazione delle informazioni in materia ambientale e sociale (C/2017/4234) e, nel 2019, in tema di cambiamento climatico (C/2019/4490). Dato il carattere non vincolante degli orientamenti richiamati, le imprese possono scegliere liberamente se applicarli o meno.

[8] Secondo una survey curata per la Commissione europea, si stima che i GRI Standards sono adottati dal 64 per cento delle imprese che sono soggette alla NFRD (SWD(2021) 150 final, annex 13, pag. 178). Secondo uno studio curato da Accountancy Europe, di febbraio 2020, in Italia “(omissis) the reporting standard most commonly used to prepare non-financial disclosure is GRI” (https://www.accountancyeurope.eu/wp-content/uploads/Accountancy-Europe-Towards-reliable-non-financial-information-in-EU_1.pdf [accesso 14.12.21]).

[9] Sull’introduzione del GRI 207, si vedano tra i vari contributi ad oggi pubblicati: Assonime, Il caso 1/2021, Gli obblighi di trasparenza in materia di tassazione nelle dichiarazioni non finanziarie secondo lo standard GRI 207; A. Schnitger, F.H. Holle, M. Kockrow, Tax and Transparency: reporting in accordance with the Global Reporting Initiative, in Intertax, volume 49, issue 8/9, 2021, pp. 702 – 712; A. Valsecchi, What corporate tax policy has to do with sustainability (and how companies should deal with it), cit..

[10] A riguardo della materialità, si osserva che, nel framework GRI, un tema è definito come materiale ove abbia un impatto economico, ambientale e sociale significativo dell’impresa o influenzi in modo profondo le valutazioni e le decisioni degli stakeholder (GRI 101). Potendo l’impatto essere misurato anche in termini di effetti reputazionali o di capacità di raggiungimento degli obiettivi dell’impresa, le tematiche tributarie, oggetto del GRI 207, ben difficilmente possono considerarsi non materiali, considerata la latitudine dei possibili profili di responsabilità connessi alla gestione della variabile fiscale, le cui pertinenti violazioni sono fonte di una reazione dell’ordinamento articolata sul tris in idem: sanzioni amministrativo tributarie a carico dell’ente con personalità giuridica, sanzioni penali per l’autore del reato e quadro sanzionatorio della responsabilità amministrativa dell’ente ex art. 25-quinquiesdecies decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231.

[11] Per le finalità del presente contributo, sarà tralasciato il tema della rendicontazione Paese per Paese prescritta dal GRI 207-4 e dei suoi punti di contatto e di differenza con obblighi di disclosure previsti verso le Amministrazioni finanziarie (i.e. Country by Country reporting – CbCr, per i gruppi multinazionali che superano la soglia di 750 milioni di euro di ricavi da consolidato, che affonda le proprie radici nell’azione 13 del progetto BEPS dell’OCSE ed è stata rifusa nel diritto unionale dalla Direttiva n. 2016/881/UE, del 25 maggio 2016 – DAC 4), ovvero verso il pubblico (i.e. ad oggi, per le Banche, rendicontazione Paese per Paese prescritta dalla Direttiva n. 2013/36/UE, del 26 giugno 2013 – CRD IV, e – prospetticamente – per tutte le imprese secondo le previsioni della Direttiva n. 2021/2101/UE, del 24 novembre 2021, che stabilisce la comunicazione delle informazioni sull’imposta sul reddito da parte delle imprese che superano, a livello di ricavi consolidati, la soglia di 750 milioni di euro, ovvero il c.d. public CbCr).

[12] Il riferimento è alla proposta di Direttiva corporate sustainability reporting – da cui l’acronimo “CSRD” – presentata dalla Commissione europea con la comunicazione COM(2021) 189 final ed accompagnata dallo Staff Working Document – Impact Assessment, già citato supra, SWD(2021) 150 final. La Proposta di CSRD interviene a novellare il quadro normativo definito dalla Direttiva n. 2013/34/UE, per la parte di essa relativa alla dichiarazione di carattere non finanziario (art. 19-bis e 29-bis), a suo tempo inserita dalla NFRD, oltre ad inserire nuove previsioni normative a riguardo.

[13] Il Green deal europeo è la nuova strategia di crescita, lanciata dalla Commissione europea nel dicembre 2019, volta a far sì che l’Europa diventi il primo continente a impatto climatico zero entro il 2050: si veda al riguardo la Comunicazione COM(2019) 640 final e il Programma di lavoro adattato COM(2020) 440 final, quest’ultimo documento volto a prevedere le necessarie rimodulazioni conseguenti all’esplosione della pandemia Covid-19.

[14] Per effetto delle modifiche all’art. 19-bis apportate dalla Proposta di Direttiva CSRD, sono incluse in perimetro: i) tutte le imprese di grandi dimensioni, secondo la tassonomia della Direttiva n. 2013/34/UE (i.e. che soddisfino almeno due dei requisiti patrimoniali, economici e di forza lavoro: attivi superiori a 20 milioni di euro, ricavi superiori a 40 milioni di euro, numero medio di dipendenti annuo 250 – art. 3, co. 4), indipendentemente dal fatto di essere enti di interesse pubblico; ii) le piccole e medie imprese (sempre secondo la tassonomia della Direttiva n. 2013/34/UE), i cui valori mobiliari sono ammessi alla negoziazione in un mercato regolamentato di uno Stato membro, per le quali si prevede tuttavia che gli obblighi di reporting decorrano dal 1° gennaio 2026. Secondo la stima d’impatto svolta dalla Commissione europea, l’estensione prevista dalla Proposta di CSRD potrà innalzare il numero delle società che rientrano nel perimetro degli obblighi di comunicazione non finanziaria dalle odierne 11.700 entità a 49.000 entità (cfr. SWD(2021) 150 final, Table 8 pag. 49; all’interno di questo incremento, l’estensione alle PMI quotate è misurata in un impatto su circa 1.000 entità, cfr. ibidem, Table 8 e Annex 4 – SME Test).

[15] Proposta di CSRD, Considerando 32.

[16] Proposta di CSRD, Considerando 37, ove si citano, quale esempio tra gli altri, i principi elaborati dalla Global Reporting Initiative. Nella Relazione della Proposta di CSRD, al par. 1, si legge che “La presente proposta intende ispirarsi alle iniziative internazionali in materia di informativa sulla sostenibilità apportandovi il proprio contributo. I principi dell’UE in materia di informativa sulla sostenibilità dovrebbero essere elaborati attraverso una cooperazione costruttiva bilaterale con le principali iniziative internazionali e dovrebbero, per quanto possibile, allinearsi con tali iniziative pur tenendo conto delle specificità europee”.

Le indicazioni di principio sopra richiamate sono tradotte nella previsione dell’art. 19-ter, co. 3, introdotto dalla Proposta di CSRD, stando al quale, nell’adottare i principi di informativa sulla sostenibilità, la Commissione tine conto “(omissis) dell’attività svolta nell’ambito di iniziative di normazione a livello internazionale in materia di informativa sulla sostenibilità, nonché dei principi e dei quadri esistenti relativi alla contabilizzazione del capitale naturale, alla condotta responsabile delle imprese, alla responsabilità sociale delle imprese e allo sviluppo sostenibile”.

In termini operativi, è utile segnalare che il gruppo di lavoro che sta curando, per conto della Commissione europea, la predisposizione della bozza di standard europei di informativa di sostenibilità (i.e. PTF-ESRS di cui infra) ha siglato, a luglio 2021, uno Statement of Cooperation, con il GRI, al fine di contribuire alla convergenza tra i più diffusi standard globali di reportistica non finanziaria ed i lavori per la definizione dei principi europei di informativa sulla sostenibilità (https://www.efrag.org/Assets/Download?assetUrl=%2Fsites%2Fwebpublishing%2FSiteAssets%2FEFRAG%2520GRI%2520COOPERATION%2520PR.pdf [accesso 14.12.21].).

[17] Art. 19-ter, co. 2, lett. c), punti ii) e v), come introdotto dalla Proposta di CSRD.

[18] Nel contesto della delega alla Commissione europea per la relativa redazione, prevista dall’art. 19-ter introdotto dalla Proposta di CSRD, la Commissione stessa ha richiesto il supporto del Gruppo consultivo europeo sull’informativa finanziaria (EFRAG) per il disegno degli standard europei di sustainability reporting. L’EFRAG è un’associazione senza scopo di lucro, che fornisce consulenza alla Commissione europea riguardo all’omologazione dei principi internazionali d’informativa finanziaria. In seno all’EFRAG è stata costituita la Project Task Force on European sustainability reporting standards (PTF-ESRS), i cui lavori per la redazione della bozza di standard europei in esame sono in corso e possono essere seguiti sul sito: https://www.efrag.org/EuropeanLab/LabGovernance/45/European-Lab-PTF-on-European-Sustainability-Reporting-Standards [accesso 14.12.21].). L’ultimo report dei lavori pubblicamente disponibile è del 15 novembre 2021 ed è anch’esso reperibile sul sito internet dell’EFRAG al seguente indirizzo: https://www.efrag.org/Assets/Download?assetUrl=%2fsites%2fwebpublishing%2fSiteAssets%2f20211015%2520PTF-ESRS%2520status%2520report%2520(final).pdf [accesso 14.12.21].

[19] Come anticipato il tema della rendicontazione delle imposte nell’ambito della comunicazione di sostenibilità, che si inserisce nella dimensione “sociale” dei fattori ESG e della reportistica non finanziaria, richiederebbe uno specifico approfondimento – che per motivi di sintesi non può trovare pieno esaurimento, se non in un ulteriore diverso contributo – con particolare riguardo all’intreccio con gli obblighi di disclosure previsti dalla disciplina del Country by Country reporting prescritto dalla Direttiva n. 2016/881/UE, dalla normativa di settore applicabile alle Banche per effetto della Direttiva n. 2013/36/UE (CRD IV) e – prospetticamente – dalle previsioni della Direttiva n. 2021/2101/UE sul c.d. public CbCr.

[20] Il quadro è delineato nei rapporti pubblicati dall’OCSE nel 2008 (Study into the roles of tax intermediaries), nel 2013 (Co-operative compliance: a framework. From enhanced relationship to co-operative compliance) e nel 2016 (Co-operative Tax Compliance: building better Tax Control Frameworks). Quest’ultimo documento, in particolare, definisce i sei building blocks su cui deve essere costruito un TCF: Tax Strategy Established, Applied Comprehensively, Responsibility Assigned, Governance Documented, Testing Performed, Assurance Provided.

[21] Il documento di riferimento, emesso nel 2013 dal Committee of Sponsoring of the Treadway Commission, è intitolato Internal Control – Integrated Framework, sinteticamente noto come COSO Framework. I 5 componenti del sistema di controllo, su cui si snodano i 17 principi, sono identificati in: Control Environment, Risk Assessment, Control Activities, Information and communication, Monitoring Activities.

[22] Il regime è previsto dal Titolo III (art. 3-7) del decreto legislativo 5 agosto 2015, n. 128, adottato in attuazione dell’art. 6 della legge 11 marzo 2014, n. 23, che delegava il Governo, tra l’altro, ad introdurre forme di comunicazione e cooperazione rafforzata tra i contribuenti e l’Amministrazione finanziaria, secondo l’esperienza maturata in seno OCSE, di cui si è detto supra.

L’art. 4 del decreto legislativo n. 128 del 2015 subordina l’accesso al regime all’implementazione di un efficace sistema di rilevazione, misurazione, gestione e controllo del rischio fiscale, inserito nel contesto del sistema di governo aziendale e di controllo interno: la relazione illustrativa al decreto precisa infatti come la presenza di tale sistema “costituisce il presupposto per attivare forme più evolute di operatività dell’Agenzia delle entrate mirate a valutare la posizione fiscale del contribuente anche attraverso la verifica del sistema di gestione e di controllo dei rischi fiscali”.

[23] Da intendersi, nel contesto del regime di adempimento collaborativo, quali rischi di operare in violazione di norme di natura tributaria ovvero in contrasto con i principi o con le finalità dell’ordinamento tributario, configurando quest’ultima ipotesi la fattispecie dell’abuso del diritto (art. 3, co. 1, del decreto legislativo n. 128 del 2015).

[24] Cfr. OCSE, Co-operative compliance: a framework. From enhanced relationship to co-operative compliance, 2013, pag. 57: “The effectiveness of an Internal Control Framework starts with the moral and ethical values of the management of an organization and the way management ensures the implementation of these values in the day to day operation”. Da qui deriva il primo dei building blocks declinati nel successivo report del 2016 sotto l’indicazione: “tax strategy established” (Co-operative Tax Compliance: building better Tax Control Frameworks, 2016, pag. 16), a sua volta collegato con i principi 1 e 2 (primo componente) e 6 (secondo componente) del COSO Framework.

[25] Par. 3.3.a) del Provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate, 14 aprile 2016, n. 54237, che disciplina i requisiti di ammissione all’adempimento collaborativo.

[26] Par. 3.3.c) del Provvedimento n. 54237 del 2016.

[27] Il Tax Control Framework deve essere “applied comprehensively”, secondo un building block da dottrina OCSE, ispirato ai principi 7, 8 e 9 (secondo componente) e 10 e 11 (terzo componente) del COSO Framework. Al riguardo, nel report del 2016, Co-operative Tax Compliance: building better Tax Control Frameworks, pag. 15, si legge: “All transactions entered into by an enterprise are capable of affecting its tax position in one way or another, which means that the TCF needs to be able to govern the full range of the enterprise’s activities and ideally should be embedded in day to day management of business operations”.

[28] Cristalline sono le indicazioni rese a riguardo dall’Agenzia delle entrate, nel contesto della co-operative compliance italiana: con la risoluzione del 22 luglio 2021, n. 49, in particolare, è stato evidenziato il ruolo della mappa dei rischi che, attraverso una puntuale individuazione dei rischi pertinenti la singola realtà aziendale e degli specifici presidi a relativa mitigazione, diviene lo strumento chiave per conseguire i benefici del regime di adempimento collaborativo in termini di mitigazione delle sanzioni.

[29] Par. 3.3.e) del Provvedimento n. 54237 del 2016, secondo cui “Il sistema deve adattarsi ai principali cambiamenti che riguardano l’impresa, ivi comprese le modifiche della legislazione fiscale”.

[30] Come il TCF possa opportunamente integrarsi con l’aggiornamento del modello ex art. 6 del decreto legislativo n. 231 del 2001, è chiarito dall’Ufficio del Massimario e del ruolo della Corte di Cassazione (Relazione n. 3/2020, cit., par. 10.4) e dalla Guardia di Finanza (Circolare 1° settembre 2020, n. 216816, par. 4.e).

[31] In particolare, laddove il TCF che comprenda la mappatura dei rischi in commento sia stato analizzato e validato dall’Agenzia delle entrate, in sede di ammissione all’adempimento collaborativo, è stato autorevolmente affermato che il giudizio positivo così espresso “(omissis) possa costituire un utile elemento di valutazione dell’efficacia esimente del modello previsto dal decreto legislativo n. 231/2001, da rimettere alle autonome determinazioni della competente Autorità Giudiziaria” (Guardia di Finanza, Circolare n. 216816 del 2020, par. 4.e).

[32] Sul punto, sia consentito rinviare a M. Lio, Il ravvedimento operoso delle violazioni penalmente rilevanti: il dilemma tra la non punibilità penale della persona fisica e la persistente responsabilità dell’ente, in Riv. Dir. Trib., n. 6 del 2021, pag. 195 e segg.

[33] Par. 3.3.b) del Provvedimento n. 54237 del 2016.

[34] Secondo il report del 2016 (Co-operative Tax Compliance: building better Tax Control Frameworks, pag. 15), il tassello “governance documented” è un building block del TCF e richiede che sia realizzato “a system of rules and reporting that ensures transactions and events are compared with the expected norms and potential risks of non-compliance identified and managed”. I riferimenti al COSO Framework incrociano sia il primo componente (principi 3, 5 e 5), sia il secondo (principi 6 e 7).

La scansione delle incertezze fiscali, con particolare riferimento alla corporate tax, risponde peraltro alle prescrizioni sancite a riguardo dal framework contabile, sia in ambiente IAS/IFRS (con l’IFRIC 23), sia – e come paradigma di quest’ultimo – dagli US GAAP (con il Fin48 sulle Uncertain Tax Positions, che ha ispirato lo standard setter International Accounting Standards Boards).

[35] Il riferimento è agli obblighi di trasparenza, previsti dall’art. 5, co. 2, lett. b), del decreto legislativo n. 128 del 2015, che si traducono nell’attivazione delle interlocuzioni costanti e preventive, sui rischi fiscali significativi, regolate dal Provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate del 26 maggio 2017, n. 101573. Secondo il par. 3.2.a) del citato Provvedimento, in particolare, “Il contribuente ammesso al regime si impegna a comunicare, in modo tempestivo ed esauriente, le situazioni suscettibili di generare rischi fiscali significativi e le operazioni che possono rientrare nella pianificazione fiscale aggressiva”. A termini del par. 1.1.j) del medesimo Provvedimento “Per ‘rischi fiscali significativi’ si intendono i rischi fiscali che insistono su fattispecie per le quali, sulla base di una comune valutazione delle soglie di materialità quantitativa e qualitativa, si ritengono operanti i doveri di trasparenza e collaborazione previsti dal decreto”.

Sulla meccanica delle interlocuzioni previste dal regime di adempimento collaborativo, sia consentito rinviare a F. Molteni – M. Lio, Il Tax Control Framework e l’istituto dell’adempimento collaborativo nel settore bancario, in F. Acerbis – A. Catona, La tassazione delle banche, Milano, 2021, pag. 743 e segg.

[36] Il requisito è prescritto dall’OCSE, attraverso i building blocks testing performed” e, conseguentemente, “assurance provided” (Co-operative Tax Compliance: building better Tax Control Frameworks, 2016, 15), ispirati al quarto componente (principi 13, 14 e 15) e al quinto componente (principio 16) del COSO Framework. Analoga previsione è contenuta nel par. 3.3.d) del Provvedimento n. 54237 del 2016.

[37] Sul disegno delle tre linee di difesa, si veda quanto prescritto dall’Agenzia delle entrate, in logica adempimento collaborativo, nella Circolare 16 aprile 2016, n. 38, par. 2.3.a), pag. 18.

[38] L’OCSE prevede, sotto il building block denominato “responsibility assigned”, che è legato ai primi tre componenti del COSO Framework, che “The board of an enterprise is accountable for the design, implementation and effectiveness of the tax control framework of that enterprise”. La responsabilità del Consiglio rispetto al sistema di controllo interno del rischio fiscale – peraltro in linea con gli approdi del diritto vivente italiano, a riguardo delle scelte di organizzazione e governo societario, per i quali è attribuito al Board il compito di contribuire ad assicurare un governo efficace dei rischi di tutte le aree dell’azienda (ex multis, si veda Cass. Civ., Sez. II, 16 luglio 2018, n. 18846) – si traduce nella rendicontazione allo stesso Consiglio degli esiti del monitoraggio sul TCF e dei rischi fiscali scansionati nel periodo di imposta, come prescritta, in sede di adempimento collaborativo, dal decreto legislativo n. 128 del 2015 (art. 4, co. 2) e declinata nel Provvedimento n. 54237 del 2016 (par. 3.3.f).

[39] Il pensiero va, a riguardo, non solo al regime domestico di adempimento collaborativo, cui si è fatto riferimento supra, ma, in specie per i gruppi multinazionali, anche agli strumenti multilaterali di tax risk prevention, approntati dall’OCSE e dall’Unione europea: ci riferiamo al progetto International Compliance Assurance Programme (ICAP), nato nel 2018 nel contesto del Forum on Tax Administration curato dall’OCSE, quale strumento di risk assessment multilaterale volontario e preventivo, e del neonato esperimento unionale, chiaramente di ispirazione e matrice ICAP, dell’European Trust and Cooperation Approach (ETACA), il cui progetto pilota è in rampa di lancio proprio in queste settimane. Per i necessari approfondimenti sull’ICAP, si rinvia al documento più recentemente disponibile pubblicato dall’OCSE (International Compliance Assurance Programme – Handbook for tax administrations and MNE groups, Paris, 2021), nonché al sito specificamente dedicato all’iniziativa (https://www.oecd.org/tax/forum-on-tax-administration/international-compliance-assurance-programme.htm [accesso 14.12.21]). Per l’ETACA, si rinvia alle linee guida pubblicate dalla Commissione europea (Guidelines European Trust and Cooperation Approach (ETACA), 2021) e al sito internet dedicato all’iniziativa (https://ec.europa.eu/taxation_customs/eu-cooperative-compliance-programme/etaca-pilot-project-large-multinational-enterprises_en [accesso 14.12.21]). L’Italia partecipa ad entrambi i progetti, sin dall’avvio delle relative fasi pilota.

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