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Attualità

Enti religiosi e terzo settore: la separazione patrimoniale è legge

2 Settembre 2021

Angelo Chianale, Professore Ordinario di Diritto Civile all’Università di Torino, Notaio in Torino

Di cosa si parla in questo articolo

1. Il problema

L’esercizio dell’impresa sociale oppure delle attività del Terzo settore da parte degli enti religiosi è stato sinora avvolto da una rilevante incertezza giuridica che si riflette negativamente sull’accesso al credito bancario (ad esempio quello etico). La cornice giuridica risente soprattutto del problema di fissare con certezza quale sia il perimetro dei beni aggredibili dai creditori[1].

I decreti legislativi delegati del 3 luglio 2017, n. 112 (Revisione della disciplina in materia di impresa sociale), art. 1, e n. 117 (Codice del Terzo Settore – CTS), art. 4, applicano agli enti religiosi civilmente riconosciuti le rispettive discipline limitatamente alle attività di impresa sociale o del Terzo settore da essi svolte[2], ulteriori rispetto all’attività di culto e di religione. A tali enti gli articoli citati impongono di adottare di un regolamento in relazione a quelle attività, di costituire un patrimonio destinato per esse e di tenere scritture contabili separate.

Nel silenzio della legge però restava discusso se dalla previsione di un patrimonio destinato seguisse la nascita di un’effettiva separazione patrimoniale.

2. La soluzione della separazione patrimoniale

Una prima tesi riconduce la creazione del patrimonio destinato alla figura dei patrimoni separati delle società per azioni destinati a specifici affari disciplinati in maniera esauriente dagli artt. 2447 bis ss. c.c.[3]. Ma questa soluzione non convince: il patrimonio destinato degli enti religiosi non può essere assimilato all’istituto societario perché gli enti religiosi non sono tenuti all’iscrizione nella sezione ordinaria del registro delle imprese né al deposito del bilancio secondo le regole societarie, che costituiscono comunque il presupposto della disciplina dei patrimoni destinati azionari, e perché sarebbe irrazionalmente restrittivo limitare al dieci per cento del patrimonio netto dell’ente l’ammontare delle risorse economiche adoperabili per le attività di interesse generale in esame[4].

Un’altra tesi richiama l’art. 2645 ter c.c., che permette la trascrizione di taluni vincoli di destinazione[5]. Anche questa soluzione non convince: la creazione di un patrimonio destinato da parte degli enti religiosi appare strutturalmente diversa dalla costituzione di un vincolo di destinazione secondo l’indicato articolo del codice civile. Questo vincolo ha scadenza temporale di massimi novanta anni, viene stipulato a favore di un beneficiario e ha per oggetto soltanto beni immobili o mobili registrati: si tratta di elementi incoerenti, se non addirittura incompatibili, con la previsione di un patrimonio destinato degli enti religiosi per le attività predette.

A mio avviso le norme di legge sulla costituzione dei patrimoni destinati all’impresa sociale o al Terzo settore introducono nel sistema una nuova specifica ipotesi di separazione patrimoniale[6]. E’ noto che in forza dell’art. 2740, comma 2, c.c. le limitazioni alla responsabilità patrimoniale del debitore devono essere previste dalla legge[7]. Ebbene, gli articoli citati che prevedono la costituzione di un patrimonio destinato da parte dell’ente religioso operano sul piano del diritto sostanziale e racchiudono tale deroga. Questa soluzione è imposta anche da considerazioni più generali: lo svolgimento dell’attività principale dell’ente (di religione o di culto) viene permesso dallo Stato italiano senza ingerenze (art. 20 Cost.) e il patrimonio separato consente la salvaguardia da parte dell’ordinamento civile dello scopo religioso o di culto degli enti cosicché un creditore del ramo di attività di impresa sociale o di Terzo settore non può aggredire i beni destinati al perseguimento dello scopo religioso o di culto[8].

La creazione del patrimonio destinato per gli enti religiosi non introduce una disparità di trattamento rispetto a ogni altro ente che svolga anche le attività di impresa sociale o del Terzo settore, con violazione dell’art. 20 Cost.[9]. La differenza di disciplina è giustificata dall’esigenza di attuare pienamente la salvaguardia del patrimonio utilizzato per lo scopo di religione e di culto proprio in attuazione del precetto costituzionale[10]. Infatti soltanto questa soluzione consente di tracciare la delimitazione del perimetro entro il quale sono attuabili le procedure concorsuali nei confronti dell’ente religioso.

In quest’ottica la costituzione del patrimonio destinato non può creare soltanto una limitazione di responsabilità sui beni destinati, che fornirebbero la garanzia generica unicamente per i creditori dell’attività, i quali comunque sarebbero legittimati ad aggredire anche il patrimonio generale dell’ente.

3. L’intervento legislativo

Il d.l. 31 maggio 2021, conv. con l. 29 luglio 2021, n. 108 (Governance PNRR), si fa carico del problema degli enti religiosi e adotta la soluzione della separazione patrimoniale.

Nei citati articoli dei decreti legislativi in tema di impresa sociale e Terzo settore viene inserita la seguente norma: «I beni che compongono il patrimonio destinato sono indicati nel regolamento, anche con atto distinto ad esso allegato. Per le obbligazioni contratte in relazione alle attività [di impresa sociale o Terzo settore] gli enti religiosi civilmente riconosciuti rispondono nei limiti del patrimonio destinato. Gli altri creditori dell’ente religioso civilmente riconosciuto non possono far valere alcun diritto sul patrimonio destinato allo svolgimento delle attività» stesse.

In sostanza la previsione legislativa consente di delimitare in positivo il perimetro dei beni adoperati per l’attività di impresa sociale e di Terzo settore e deroga al principio sancito dall’art. 2740, comma 1, c.c.

La costituzione del patrimonio destinato – altro aspetto incerto – secondo questa disposizione viene fatta mediante indicazione dei beni nel regolamento ovvero in un atto distinto ad esso allegato, secondo quanto previsto nel Regolamento istitutivo del Registro Unico Nazionale del Terzo settore (d.m. Lavoro, 15 settembre 2020, n. 106). Il che lascia perplessi perché i beni possono mutare nel tempo e non ha molto senso che siano indicati nel regolamento dell’ente, che rimane in linea di massima costante; inoltre il legislatore ha perso l’occasione di prevedere la trascrizione nei registri immobiliari quale formalità necessaria per l’opponibilità ai terzi della separazione patrimoniale, che comunque pare desumibile dal sistema vigente[11].

4. Le conseguenze operative

A seguito dell’intervento chiarificatore del legislatore non vi è più dubbio che il patrimonio destinato creato dagli enti religiosi è effettivamente un patrimonio separato.

Ne seguono due corollari, tenendo conto che un ente religioso può essere proprietario dei beni destinati al fine di religione o di culto nonché dei beni secolari amministrati dall’ente quale normale soggetto di diritto privato (ad es. un palazzo dato in locazione) e dei beni destinati alle attività diverse non rientranti nell’impresa sociale o nel Terzo settore (ad es. un ristorante).

Da un lato soltanto il patrimonio destinato risponde dei debiti dell’attività di impresa sociale o di Terzo settore: quindi i creditori di queste attività non possono soddisfarsi sui restanti beni dell’ente. L’attuazione della separazione patrimoniale comporta che sia l’esecuzione forzata sia l’attrazione alle procedure concorsuali si deve limitare ai soli beni e rapporti facenti parte del patrimonio destinato.

D’altro lato i creditori sorti per le altre attività dell’ente, sia quelle di religione o di culto sia quelle relative ad altri beni dell’ente, non possono aggredire il patrimonio destinato all’impresa sociale o al terzo settore.

Pertanto una banca che finanzia le attività di impresa sociale o di terzo settore è sicura che sui beni del patrimonio destinato non concorrono altri creditori dell’ente. Per converso la banca che finanzia altre attività (ad es. la ristrutturazione del palazzo dato destinato a locazioni) è sicura che sui relativi beni nessun creditore dell’attività di impresa sociale o del terzo settore.

 


[1] Del problema mi sono occupato in CHIANALE, Appunti sui finanziamenti bancari agli enti religiosi operanti come impresa sociale e nel Terzo settore: la separazione patrimoniale, in Riv. dir. banc., 2020, 543 ss.

[2] In generale v. MARASA’, Imprese sociali, altri enti del terzo settore, società benefit, Torino, 2019.

[3] Cfr. PEREGO, Gli enti,Gli enti religiosi civilmente riconosciuti nel Codice del terzo settore. Prime considerazioni su una categoria soggettiva dai confini incerti, in Jus, 2017, 490 nt. 26.

[4] Escludono che il patrimonio destinato degli enti religiosi possa essere ricondotto tout court alla disciplina degli artt. 2447 bis ss. c.c. CONSORTI,L’impatto del nuovo Codice del Terzo settore sulla disciplina degli “enti religiosi”, inStato, Chiese e plur. conf., 4/2018, 11; SIMONELLI, Il patrimonio destinato, in AA.VV., Enti religiosi e riforma del terzo settore, a cura di Gianfreda e Abu Salem, Roma, 2018, 248 ss.; RUOTOLO, La costituzione di patrimoni destinati ad uno specifico affare da parte degli enti del terzo settore, Studio del Consiglio Nazionale del Notariato n. 102-2018/I.

[5] Cfr. FERRANTE, Enti religiosi/ecclesiastici e riforma del terzo settore, 2a ed., Torino, 2019, 130 ss.

[6] In tal senso v. CHIANALE, op. cit., 550 ss.

[7] Per tutti v. l’impostazione classica in BARBIERA, Responsabilità patrimoniale, in Comm. cod. civ., dir. da Schlesinger, Milano, 1991, 59 ss. Però non è agevole affrontare la tematica delle destinazioni e delle deroghe alla responsabilità del debitore in quanto manca la ricostruzione di una categoria unitaria del patrimonio separato: cfr. QUADRI, La destinazione patrimoniale. Profili normativi e autonomia privata, Napoli, 2004, 278 ss.

[8] Ad esempio per CONSORTI, Questioni di diritto patrimoniale canonico. Alcune riflessioni a partire dagli adempimenti conseguenti alla riforma italiana in materia di Terzo settore, in Stato, Chiese plur. conf., 2019, 29, i creditori dell’attività di interesse generale “verosimilmente potranno aggredire nel caso l’intero patrimonio dell’ente”; per gli enti cattolici sarebbe così violato l’art. 7, comma 3, l. n. 121 del 1985, di ratifica dell’accordo di revisione del Concordato lateranense: “Le attività diverse da quelle di religione o di culto, svolte dagli enti ecclesiastici, sono soggette, nel rispetto della struttura e della finalità di tali enti, alle leggi dello Stato concernenti tali attività e al regime tributario previsto per le medesime”.

[9] Per CONSORTI, L’impatto, cit., p. 11, “la richiesta di creare un patrimonio destinato costituisce esattamente una forma di aggravamento dettata dalla specialità confessionale/religiosa dell’ente, ponendolo in una posizione più pesante rispetto agli altri enti che pure esercitano le stesse attività”.

[10] In questa prospettiva pare FLORIS, Enti religiosi e riforma del Terzo settore: verso nuove partizioni nella disciplina degli enti religiosi, in Stato, Chiese plur. conf., 2018, 18 ss., implicitamente accogliendo la separazione patrimoniale, per il quale “la nuova previsione svolge una funzione servente rispetto a regole e vincoli sanciti a livello pattizio”.

[11] Per tali aspetti v. CHIANALE, I patrimoni destinati degli enti religiosi per l’impresa sociale e il Terzo settore, in Rass. dir. civ., 2020, 1183 ss.

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