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Approfondimenti

DDL Concorrenza e novità in tema di fondi pensione

9 Marzo 2015

Federico Strada, Senior Counsel, dipartimento Employment, Carlotta Benigni, Associate, dipartimento Tax, DLA Piper

Di cosa si parla in questo articolo

Il cosiddetto Disegno Di Legge Concorrenza licenziato dal governo lo scorso 21 febbraio prevede, all’articolo 15 (rubricato “Portabilità dei fondi pensione”), una serie di modifiche che, se approvate, incederanno profondamente sul sistema previdenziale complementare.

L’obiettivo dichiarato della riforma è quello di consentire la piena portabilità dei contributi pensionistici dei lavoratori, eliminando il regime di vincoli e preclusioni disposti dai contratti collettivi nazionali di lavoro e prevedendo altresì la portabilità della quota di contribuzione di spettanza del datore di lavoro.

Infine, sembra essere stato rimosso anche l’attuale preclusione per il fondo chiuso di reperire aderenti solo all’interno della propria categoria professionale di riferimento. Così facendo, il legislatore intende disegnare un mercato concorrenziale tra fondi, nel quale il lavoratore possa liberamente scegliere, e soprattutto mantenere nel corso della propria carriera, il fondo che preferisce, a prescindere dunque dal mutamento del datore di lavoro. Ma andiamo con ordine.

Le modifiche previste dal disegno di legge sono quattro e riguardano tutte il decreto legislativo 5 dicembre 2005, n. 252, per i seguenti articoli:

a) all’articolo 3, dopo il comma 3, verrà aggiunto il seguente: «3-bis. Le fonti istitutive delle forme pensionistiche complementari collettive di cui al comma 1 del presente articolo e quelle di cui all’articolo 20 del presente decreto legislativo, aventi soggettività giuridica e operanti secondo il principio della contribuzione definita, possono prevedere l’adesione collettiva o individuale anche di soggetti aderenti ad una o più categorie di cui all’articolo 2, comma 1 del presente decreto legislativo.»;

b) all’articolo 11, il comma 4 verrà sostituito dal seguente: «4. Le forme pensionistiche complementari prevedono che, in caso di cessazione dell’attività lavorativa che comporti l’inoccupazione per un periodo di tempo superiore a 24 mesi, le prestazioni pensionistiche siano, su richiesta dell’aderente, consentite con un anticipo massimo di dieci anni rispetto ai requisiti per l’accesso alle prestazioni nel regime obbligatorio di appartenenza.».

c) all’articolo 14, il comma 5 verrà sostituito dal seguente: «5. In caso di cessazione dei requisiti di partecipazione per cause diverse da quelle di cui ai commi 2 e 3, è previsto il riscatto della posizione sia nelle forme collettive che in quelle individuali e su tali somme, si applica una ritenuta a titolo di imposta del 23 per cento sul medesimo imponibile di cui all’articolo 11, comma 6.».

d) all’art. 14, comma 6, l’ultimo periodo sarà sostituito dal seguente: «In caso di esercizio della predetta facoltà di trasferimento della posizione individuale, il lavoratore ha diritto al versamento alla forma pensionistica da lui prescelta del TFR maturando e dell’eventuale contributo a carico del datore di lavoro.».

Per valutare compiutamente la portata della riforma occorre sintetizzare preliminarmente l’attuale regime giuridico delle differenti forme di previdenza complementare, così come disciplinato dal d.lgs. 252/2005.

Come noto, le forme di previdenza complementare si distinguono in collettive o individuali. Quanto a quelle collettive, esse possono consistere in fondi negoziali (c.d. fondi chiusi) o fondi aperti, in ragione della tipologia di soggetti destinatari degli stessi.

I fondi negoziali sono di regola istituiti da contratti o accordi collettivi, regolamenti unilaterali dei datori di lavoro, disposizioni regolamentari regionali o atti degli enti previdenziali professionali. Essi stabiliscono, tipicamente, regole rigide per l’accesso che prevedono quale presupposto necessario per l’adesione, l’appartenenza da parte del lavoratore ad una specifica categoria o settore industriale o commerciale (tipicamente quello dal quale il fondo è originato).

Diversamente, i fondi c.d. aperti sono di regola istituiti da soggetti economici abilitati alla gestione di fondi pensioni, quali gli istituti bancari ed assicurativi o le società di intermediazione mobiliare o di gestione del risparmio. I fondi aperti sono, appunto, caratterizzati da una libera adesione da parte dei soggetti destinatari della previdenza complementare.

Infine, quanto alle forme di previdenza complementare individuali (vale a dire quelle che non sono disciplinate da pattuizioni derivanti da contrattazione collettiva), esse si realizzano tramite l’adesione individuale a fondi pensione aperti o ad assicurazioni sulla vita con finalità esclusivamente previdenziale.

Uno degli elementi caratterizzanti del sistema è che in caso di caso di adesione a forme di previdenza individuale, il datore di lavoro non ha alcun obbligo di versare contributi aggiunti rispetto a quanto destinato dal lavoratore aderente. Di contro i fondi chiusi prevedono un contributo aggiuntivo rispetto a quanto viene volontariamente versato dal lavoratore.

Il finanziamento delle forme di previdenza complementare avviene mediante contribuzione diretta dei soggetti beneficiari e ciò può avvenire sia attraverso il versamento di contributi volontari a carico del lavoratore o del datore di lavoro, sia con il conferimento del TFR maturando. Dal punto di vista sistematico, la scelta relativa alla previdenza complementare comporta evidentemente una trasformazione del regime di destinazione del TFR.

In termini pratici, la scelta di destinazione del TFR deve essere effettuata dal lavoratore entro sei mesi dall’assunzione e, a tal fine, il datore di lavoro deve fornire al lavoratore tutte le necessarie informazioni sulle diverse opzioni esistenti (presenza di fondi chiusi etc.), oltre agli appositi modelli o formulari tramite i quali operare la scelta.

Alla luce di quanto precede – e spesso in considerazione delle scelte già effettuate in passato dal lavoratore – costui potrà:

1. decidere di aderire alla previdenza complementare, indicando specificamente il fondo pensione cui intende conferire il TFR;

2. decidere di non aderire, esprimendo il proprio rifiuto esplicito, optando quindi per il mantenimento del TFR maturando quale forma di retribuzione differita, in occasione della cessazione del rapporto di lavoro.;

3. decidere di non decidere (dando avvio al meccanismo del c.d. silenzio-assenso).

In tale ultima ipotesi trascorsi sei mesi dall’assunzione, il lavoratore sarà iscritti automaticamente al fondo pensione della categoria di appartenenza, cui sarà devoluto integralmente il TFR maturando.

È infatti obbligo del datore di lavoro, in mancanza di una scelta esplicita nelle forme regolamentate, trasferire il TFR maturando del dipendente al fondo pensione individuato secondo i criteri definiti dall’art. 8, c. 7, lett. b, del D.Lgs. 252/2005.

Si tratterà, in questo caso, di una delle seguenti forme pensionistiche: quella collettiva stabilita dal CCNL (fondo chiuso), il fondo previsto da un accordo aziendale (fondo chiuso), il fondo cui hanno aderito in maggioranza i lavoratori dell’azienda o il fondo pensione costituito presso l’INPS.

Quanto all’area interessata dalla riforma, si noti che, ad oggi, il lavoratore aderente ad un fondo pensione chiuso di categoria che dovesse essere assunto da altro datore di lavoro appartenente ad un’altra categoria (ad esempio passare dal comparto metalmeccanico ai chimici) costui non avrebbe diritto di mantenere l’adesione al fondo precedente, poiché, come abbiamo visto, il fondo chiuso prevede necessariamente, tra le proprie condizioni di adesione, l’appartenenza alla categoria di riferimento.

Con l’aggiunta dell’art. 3-bis al d.lgs. 252/2005 si rimuove esattamente questo vincolo, ove si precisa che “le fonti istitutive delle forme pensionistiche complementari collettive di cui al comma 1 del presente articolo e quelle di cui all’articolo 20 del presente decreto legislativo, aventi soggettività giuridica e operanti secondo il principio della contribuzione definita, possono prevedere l’adesione collettiva o individuale anche di soggetti aderenti ad una o più categorie di cui all’articolo 2, comma 1 del presente decreto legislativo”. Così facendo, si ritiene, i fondi potranno esser liberi di attrarre aderenti provenienti da categorie diverse. In questo modo, peraltro, verrebbe altresì meno qualsiasi differenza tra i fondi chiusi e quelli aperti, che si ritroverebbero, per l’effetto, in piena concorrenza. Presupposto necessario della riforma, sul punto, è che “le fonti istitutive delle forme pensionistiche complementari collettive” (vale a dire le parti sociali) decidano di sfruttare una simile opportunità e togliere i vincoli sopra descritti.

La seconda area di riforma riguarda la c.d. pensione complementare anticipata. Mentre nell’attuale regime il lavoratore che sia inoccupato da almeno 48 mesi può anticipare al massimo di 5 anni rispetto al raggiungimento dei requisiti per il godimento del trattamento pensionistico, la riforma prevede un anticipo di tale godimento poiché sarà sufficiente che a seguito della cessazione del rapporto di lavoro vi sia uno stato di inoccupazione di 24 mesi al fine di poter ottenere, addirittura 10 anni prima del raggiungimento dei requisiti pensionistici, detto anticipo.

Con riferimento al riscatto per i fondi pensione chiusi, il regime fiscale varia a seconda che si tratti di “cessazione dei requisiti di partecipazione”, quali la disoccupazione di lungo corso, l’invalidità grave, la mobilità e la morte o di altre cause di cessazione. Nei primi casi, sui rendimenti si applica una ritenuta a titolo d’imposta del 15% eventualmente ridotta di una quota pari allo 0,30% per ogni anno eccedente il quindicesimo anno di partecipazione a forme pensionistiche complementari con un limite minimo del 9%.

Quando invece il riscatto avvenga per cessazione dei requisiti di partecipazione per cause diverse, la tassazione viene applicata con ritenuta a titolo d’imposta con aliquota del 23%. Il DDL concorrenza prevede, a tale riguardo, la possibilità di riscattare la posizione non solo nelle forme collettive ma anche in quelle individuali, sempre con applicazione della ritenuta a titolo di imposta del 23%.

L’ultima area interessata dalla modifica è certamente quella di maggiore preoccupazione per i datori di lavoro, oltre che di grande interesse per i lavoratori. Secondo quando previsto dalla attuale formulazione, in caso di esercizio della facoltà di trasferimento della posizione individuale, il lavoratore potrà non soltanto continuare a destinare il proprio TFR alla forma pensionistica prescelta ( garantendone così la continuità e il continuo accrescimento) ma la sua scelta potrà, per così dire, trascinare l’obbligo di versamento dell’eventuale contributo previsto a carico del precedente datore di lavoro, anche in capo al nuovo.

Questa norma farà discutere, e non poco. Sul punto si noti che normalmente l’obbligo del datore di versare un proprio contributo in aggiunta a quanto destinato dal lavoratore aderente viene espressamente previsto dalle fonti istitutive dei fondi chiusi (di norma si tratta del 1% della retribuzione utile per il calcolo del TFR). La ratio di una simile previsione si giustifica sul presupposto che l’appartenenza del datore ad una categoria che, ad esempio, già disciplina il rapporto di lavoro mediante la contrattazione collettiva, ben può negoziare trattamenti di miglior favore per quanto riguarda la previdenza complementare.

Ma che dire dunque del datore di lavoro che si trovi, per effetto della prospettata riforma, a dover versare contributi aggiuntivi negoziati da altre categorie, e in fondi istituiti da categorie diverse da quella cui appartiene, per il solo fatto di aver assunto un lavoratore che trascina con sé quest’obbligo? Questo è certamente il nodo più intricato da sciogliere, sul quale con tutta probabilità il dibattito potrà farsi acceso.

Una prima lettura della riforma, almeno in questa sua formulazione iniziale, lascia comunque intravedere uno spirito volto a favorire soprattutto i lavoratori, senza pensare all’appesantimento, burocratico ed amministrativo, che essa genera in capo ai datori di lavoro.

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