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Contrattazione Shari’a compliant e meritevolezza degli interessi. Prime riflessioni su un differente approccio al mercato finanziario.

3 Aprile 2014

Tommaso Vito Russo, Professore straordinario di diritto privato e Incaricato di Islamic Transactional Law nell’Università del Salento

SOMMARIO: 1. Il diritto islamico tra curiosità culturale e ricerca giuridica. – 2. L’Islam tra diritto e fede. Il ruolo della moneta. – 3. La contrattazione finanziaria Shari’a compliant. Valori etici e condivisione dei rischi. Il Profit-Loss Sharing quale approccio auspicabile del mercato finanziario. – 4. Contrattazione Shari’a compliant e controllo di meritevolezza ex art. 1322 c.c. – 5. La finanza islamica in Europa.

 

1. Le riflessioni riportate in queste pagine costituiscono una prima sintesi di una più approfondita ricerca che vedrà la luce, in chiave monografica1, nell’immediato futuro e che costituisce il risultato in chiave giuridica di un diario di viaggio nel medio oriente che ha in via definitiva portato chi scrive a nuove valutazioni, non già degli ordinamenti stranieri, quanto dell’ordinamento italiano, nella crescente valorizzazione della sua laicità, frutto di un processo di integrazione, tuttavia ancora soggetto a pre-giudizi quasi sempre frutto di ignoranza o mistificazione.

La scelta di occuparsi di un tema apparentemente lontano dai consueti interessi di uno studioso del diritto civile molto spesso è frutto del caso, di una riflessione banale generata da dettagli minimi della vita comune, che perdono quel senso di banalità non appena si rivelano in tutta la loro grandezza.

La curiosità culturale rimane il punto di partenza di ogni ricerca, a conferma della stretta relazione tra fenomenologia sociale e regole giuridiche.

Vivere in un Paese nel quale il sistema giuridico è fortemente segnato da valori comuni a quelli religiosi, certamente in grado di incidere sui processi interpretativi, comporta di necessità l’esigenza di rispondere ad alcuni interrogativi connessi a fenomeni di integrazione culturale frutto di processi migratori, ma anche dovuti alla c.d. globalizzazione del mercato finanziario e degli investimenti.

In tale percorso il momento più difficile rimane la liberazione dai pregiudizi, sempre più condizionati da una cultura di riflesso, basata su informazioni ‘di seconda mano’, di per sé inidonee a far comprendere i fenomeni sociali nella loro concretezza2.

Mai fin troppo apprezzati giuristi hanno sollecitato gli studiosi al ricorso al metodo casistico-comparativo al fine di comprendere appieno la reale dimensione giuridica del sistema3. Quell’insegnamento continua a costituire una bussola per un interprete che intenda adeguare costantemente l’ermeneutica alla realtà sociale nella sua costante evoluzione.

2. La religione musulmana, ben più di quella cattolica, come è noto, influisce in maniera determinante sui comportamenti e sugli interessi anche giuridicamene rilevanti di chi la professa, e ciò a prescindere da profili strettamente territoriali. L’Islam non è soltanto un concetto di rilevanza religiosa ma indica lo stile di vita prescritto da Dio (Allah) per i suoi seguaci sì da coprire qualunque aspetto dell’esistenza umana, dal matrimonio ai contratti di affari, dal culto alle punizioni, dalla dieta all’abbigliamento4. Secondo la prospettiva islamica, pertanto, la vita di un musulmano, sia individuale che di relazione, è governata da differenti piani di regole che incidono sia su interessi esistenziali sia su interessi più marcatamente patrimoniali5.

Questa visione crea indubbiamente problemi nell’approccio al caso concreto da parte di un interprete, giurista o corte secolare che sia, abituato a un sistema di fonti del diritto caratterizzato da procedimenti rigidi in grado di incidere sul piano della legittimità. Sia sufficiente il riferimento, per mera esemplificazione, alla proibizione della pratica degli interessi che segna una drastica differenziazione tra il sistema italiano delle obbligazioni e quello dei paesi islamici.

Orbene, identificare il diritto dei contratti finanziari del mondo islamico con un sistema che proibisce gli interessi, oltre che essere poco corretto in termini concreti, genera confusione6.

La proibizione del Riba, solo se analizzata in un contesto di regole e principi più vasto, può essere compresa nella sua esatta portata, tenendone sempre presenti le concrete attuazioni in uno con l’elasticità degli operatori e delle istituzioni di vigilanza sempre più attente a legittimare fenomeni di ‘purificazione’, nella prospettiva di un avvicinamento ai comportamenti negoziali, ma anche alle prassi, della finanza c.d. convenzionale7.

Nelle transazioni finanziarie, il termine Riba viene riferito al ‘corrispettivo’ che il soggetto finanziato deve corrispondere al finanziatore, oltre al rimborso della somma concessa in prestito, quale condizione per lo stesso finanziamento ovvero per l’estensione della sua durata8.

Si tratta, all’evidenza, di una regola che segna la più significativa tra le differenze tra il sistema della finanza c.d. convenzionale (occidentale), caratterizzata da un approccio interest based (e, pertanto, riba based), e la finanza islamica, caratterizzata invece da un approccio asset based.

Di là dalla radice religiosa9, la radice ‘ideologico-economica’ dei differenti approcci alla finanza sta tutta nel diverso valore dato alla moneta nei due sistemi: in quello occidentale-convenzionale la moneta non è considerata solo come mezzo di scambio o di misura del valore di un bene oggetto di una transazione, ma soprattutto come un “bene” in re ipsa, un vero e proprio asset in grado di generare esso stesso ricchezza attraverso, appunto, gli interessi10.

Nel sistema giuridico-finanziario islamico la moneta è solo un mezzo di scambio e non può costituire un asset di per se11.

Il commercio è certamente incoraggiato nel mondo islamico e ne costituisce un fondamento economico ai fini del miglioramento del benessere; tuttavia, a differenza del sistema economico-finanziario convenzionale tale obiettivo non deve essere perseguito attraverso il mercato dei prestiti, ma attraverso quello dello scambio commerciale12. In tale ottica la previsione di interessi in relazione alle obbligazioni contrattuali è considerata Riba e, pertanto, proibita, a prescindere da quanto sia oneroso il tasso. La Sura coranica che esprime con maggior chiarezza il senso della proibizione è quella nella quale si legge “Vendi oro per oro, argento per argento, grano per grano, farina per farina, dattero per dattero, sale per sale, nella medesima quantità sul posto; quando le merci sono differenti, vendi come è meglio per te, ma sul posto13.

La previsione degli interessi è considerata iniqua nonché fondata sullo sfruttamento di una situazione di bisogno. Senza voler banalizzare eccessivamente il concetto, si ritiene che il guadagno derivante dalla corresponsione di interessi da parte del soggetto finanziato comporti che il denaro di quest’ultimo venga acquistato senza nulla in cambio e pertanto non sia in grado di realizzare quella mutua cooperazione che invece deve muovere le intenzioni di finanziatore e finanziato14. Da ciò deriva che i rapporti tra tali due soggetti debbano essere ispirati dalla condivisione del rischio e, pertanto, da un coinvolgimento di entrambe le parti del rapporto nei profitti e nelle perdite (Profit Loss Sharing). L’ingiustizia è insita nella circostanza che il finanziatore riceve un guadagno senza aver sopportato alcun rischio15; nella prospettiva del diritto islamico, il sistema finanziario interest based tende all’aumento del gap di benessere tra ricchi e poveri.

Si è ritenuto che la previsione ex ante dell’interesse, quale profitto per il trasferimento del denaro, vada considerata una modalità non in grado di realizzare reale circolazione e condivisione della ricchezza nell’ipotesi in cui l’operazione finanziata si riveli fallimentare; al contrario, la previsione ex post del tasso di rendimento del capitale concesso consente la creazione di ricchezza addizionale, in grado di soddisfare quei principi di solidarietà, uguaglianza e giustizia sociale indicati dal Corano16.

3. Nei sistemi finanziari convenzionali, fortemente segnati dalle operazioni sul debito, i rischi e i profitti sono ripartiti in maniera asimmetrica, lasciando i primi quasi interamente ‘sulle spalle’ del debitore. Si tratta, all’evidenza, di un sistema che tende a promuovere fenomeni di moral hazard e informazioni asimmetriche17.

Un sistema, quale quello finanziario, caratterizzato dal rapporto banca-impresa, rischia di incrociare facilmente momenti di crisi laddove il forte sbilanciamento tra la natura a breve termine dei depositi e quella a lungo termine degli investimenti non sia mitigato da fenomeni di condivisione del rischio e da completezza del bagaglio informativo relativo ai soggetti e all’attività finanziata18.

La forte caratterizzazione religiosa del mondo islamico vede un forte e indissolubile legame tra il Creatore, l’uomo e la società in grado di guidare le scelte rilevanti non solo sul piano sociale e politico, ma anche su quello giuridico ed economico-finanziario.

E’ una questione di approccio culturale alle vicende giuridiche che, in un certo senso, tende a coniugare, non diversamente da quanto accade anche per molte regole del diritto civile italiano, profili di sacralità religiosa con la profanità del caso concreto.

Non si può comprendere sino in fondo l’incidenza della cultura islamica e della religione sul diritto se non si comprende la portata di questa visione unitaria.

Le distinzioni tra Bibbia e Corano19 non sono così marcate come si vuole far credere, così come molte delle regole giuridiche delle codificazioni, sempre più diffuse nei paesi islamici, sono quasi interamente di derivazione napoleonica20 e, pertanto, non così differenti dalle regole del codice civile italiano.

Il punto nodale è che forti differenze non sono rinvenibili neppure sul piano dei principi.

L’analisi del concetto di giustizia che emerge dal testo coranico, non distante dal concetto di giustizia che emerge dagli altri testi sacri, non solo quello cattolico, segna la strada dell’interpretazione delle norme giuridiche e dei comportamenti negoziali.

La ‘giustizia’ ha molteplici sfaccettature che vanno dal significato di ‘correttezza’, ‘eguaglianza’, ‘meritevolezza’, ‘equità’, ‘moderazione’, ‘ragionevolezza’: tutti significati, a ben riflettere, in grado di caratterizzare ogni sistema giuridico e, certamente, quello italo-europeo.

La recente crisi finanziaria ha acceso un faro sulle differenti metodologie della finanza islamica e della finanza convenzionale creando interesse sul diverso impatto.

Il differente approccio della banca islamica all’attività finanziata più che al soggetto finanziato, in una prospettiva di condivisione del rischio, in uno con la proibizione delle operazioni di pura speculazione o di investimento in assets ‘tossici’, ha dimostrato una maggiore resilienza di quel sistema nei confronti della crisi dei mercati di quanto fatto dalle banche convenzionali.

La globalizzazione dei mercati e il c.d. pluralismo finanziario, rianalizzati, sia pur con colposo ritardo, solo nel pieno di quella catastrofe economico/sociale che sta caratterizzando l’inizio del nuovo millennio, hanno sempre di più accresciuto l’interesse verso quel fenomeno denominato impropriamente ‘finanza etica’.

La sensazione, tuttavia, è quella di un uso meramente propagandistico e mistificatorio del concetto, a fronte, invece, di quella che, a ben vedere, dovrebbe essere la prospettiva funzionale di un mercato che, in realtà, non soffre di de-regolamentazione ma, al più, di mancata applicazione di principi e valori già da sempre presenti nelle codificazioni e, non a caso, da millenni, nei testi sacri di ogni religione.

Basti pensare alla concreta portata del limite interno all’iniziativa economica privata che la Costituzione italiana individua nella ‘utilità sociale’ e nella ‘dignità umana’ e a quanto sarebbe stata differente la situazione economica attuale ove fosse stata valutata con quel dovuto rigore che deve contraddistingure l’attività degli interpreti, ma anche dei soggetti che devono operare responsabilmente nella società e nei mercati.

Attribuire la colpa della crisi all’assenza di regole manifesta un approccio ipocrita e miope al fenomeno e costituisce un pessimo servizio da parte dell’interprete e dello stesso legislatore. Il rispetto dei valori che caratterizzano gli ordinamenti costituisce di per sé una norma fondamentale a governo dell’autonomia privata che non necessita di un ulteriore complicato, o mal scritto, testo unico e tantomeno di una nuova Autority ‘burocratica’ incapace di svolgere quel controllo di meritevolezza che si impone al momento stesso dell’iniziativa economica privata e che meriterebbe una maggiore attenzione nelle aule giudiziarie.

Occorre riflettere maggiormente sulla funzione sociale del sistema bancario nella prospettiva della protezione dei valori costituzionali della sicurezza, libertà e dignità umana. Il concetto del too big to fail ha costituito, e costituisce, non solo uno scudo, ma anche un incentivo per una governance a persistere nel ‘gioco d’azzardo’ offerto dal mercato, nello spirito di quella sensazione di immunità che caratterizza non tanto quei sistemi nei quali non ci sono regole, quanto quei sistemi ‘evoluti’ nei quali queste ultime non vengono correttamente interpretate.

Il progressivo aumento di fenomeni di moral hazard, di asimmetrie informative nella contrattazione finanziaria, troppo spesso aventi quale fine ultimo il trasferimento dei rischi, anziché la loro condivisione, costituisce forse il segnale maggiormente significativo di un abuso proprio di quella libertà di iniziativa economica tutelata dalla Costituzione quale principio inviolabile della persona.

In tale prospettiva, lo studio analitico dei mercati finanziari islamici, fortemente condizionati dal rispetto dei valori religiosi – gli stessi che possiamo leggere negli altri testi sacri, ma anche nelle costituzioni occidentali – deve spingere ad una riflessione circa l’opportunità di aprire le porte ad esperienze della prassi contrattuale e finanziaria di un mondo non così distante culturamente e sempre più integrato, sia pure gradualmente, valutandone in concreto la meritevolezza.

L’interpretazione dell’emergenza – intesa non come metodo, ma come ‘sveglia’ – ben più di una scongiurabile legislazione dell’emergenza, può aprire nuovi scenari di riflessione, ma anche riaprirne di vecchi: basti pensare alla necessità di meditare sul valore della moneta, sempre più asset e sempre meno tangibile, oggetto essa stessa di negoziazione, a scapito del suo valore intrinseco quale strumento di pagamento. Occorre riflettere se ciò abbia costituito un esercizio contrario alla sua funzione.

La prassi contrattuale e finanziaria islamica, fortemente condizionata dalla proibizione del Gharar (incertezza) e, in concreto, dal divieto delle speculazioni deve altresì far riflettere l’interprete circa il ricorso, che ha condizionato negativamente la c.d. finanza occidentale (e la sua creatività), a strumenti finanziari per la realizzazione di interessi non in grado, in concreto, di superare positivamente quel giudizio di meritevolezza richiesto dall’ordinamento, quanto meno da quello italiano21. Basti pensare all’uso dei c.d. prodotti finanziari derivati, sempre meno utilizzati quali strumenti di ‘copertura’ del rischio e sempre più strumenti di speculazione pura, sganciata peraltro dalle basilari regole economiche della domanda e dell’offerta22.

Si è lasciato che l’economia finanziaria, sostanzialmente fatta da ‘pezzi di carta’, divorasse l’economia reale, quella basata su beni e servizi, oggetto di scambi reali, assumendone una dimensione 10 volte superiore.

Del pari occorrerebbe riflettere sulla funzione sociale dei mercati azionari che hanno cessato di essere il ‘luogo’ della negoziazione di un capitale di rischio per investitori che vogliano realizzare un interesse all’acquisizione di pacchetti societari, per diventare un mercato di scambi senza provvista finanziaria finalizzati ad acquisizioni di partecipazioni azionarie che durano poche ore, se non pochi istanti. L’investimento azionario non costituisce più il frutto dell’analisi dei c.dd. ‘fondamentali’ di una società quotata, al fine del perseguimento del fine di lucro divisato dall’art. 2243 c.c., ma è diventato un mero passaggio in un betting office come tanti altri, con l’obiettivo della speculazione a brevissimo termine sulla differenza tra prezzo di acquisto e di rivendita23.

L’aspirazione etica degli scambi commerciali e finanziari, in uno con la necessità che questi siano in grado di produrre un mutuo beneficio per tutte le parti del contratto, enfatizza il principio in forza del quale la finanza islamica trova ispirazione nella condivisione del rischio tra le parti del rapporto finanziario.

Si discorre di Profit-Loss sharing a significare che il finanziatore, a differenza di quanto accade nella finanza c.d. convenzionale, non si limita all’attività di concessione del credito ma partecipa al rischio d’impresa del soggetto finanziato nella prospettiva della condivisione degli utili e delle perdite, unica modalità di profitto consentita dal Corano all’attività di finanziamento24.

A ben vedere, in ogni sistema economico, una delle attività principali del management di un’azienda e dei suoi advisors, legali o finanziari che siano, consiste proprio nella gestione dei rischi, attraverso la loro adeguata allocazione e ‘copertura’. L’approccio convenzionale non è poi così distante da quello tipico della finanza islamica. Si tratta di comprendere i profili di incertezza e trasformarli in rischio, ove possibile, sì da gestirne gli effetti attraverso un’adeguata attività di risk management.

Orbene, mentre nella finanza convenzionale l’aleatorietà non costituisce un ostacolo insormontabile, potendo anzi identificare la stessa funzione di alcune operazioni, specie quelle assicurative, l’incertezza assoluta costituisce, per la finanza islamica, una proibizione, ‘purificabile’ solo a talune condizioni25. I musulmani, credendo che la vita e la libertà siano doni del Creatore (come, del resto, i cattolici), considerano le incertezze della vita e i rischi quali strumenti offerti per mettere alla prova le proprie capacità nella direzione della crescita e dello sviluppo; nel Corano possono trovare quegli insegnamenti in grado di aiutarli in queste scelte26: il rispetto delle regole di condotta e la classificazione delle azioni e delle reazioni da queste derivanti costituisce un’utile guida per ridurre i margini di incertezza anche sul piano economico e finanziario27.

La condivisione del rischio costituisce il risultato ideale attraverso il quale le forme di cooperazione devono aspirare. Si è ritenuto che tale approccio ‘democratico’ della finanza sia l’unico in grado di realizzare il precetto coranico di non far gravare i rischi della società su di una sola classe sociale28. Qualsiasi contratto di durata, finanziario o commerciale che sia, comporta delle incertezze che, a loro volta, comportano dei rischi. Anche a voler rimanere nelle ipotesi consentite di incertezza, il differimento nel tempo della produzione di alcuni degli effetti del contratto (pagamento del prezzo, valore e qualità dei beni trasferiti al momento della consegna, etc.) è indice di per sé di un rischio contrattuale che non può essere evitato e deve, pertanto, essere valutato dalle parti e ‘distribuito’ secondo una logica che produca effetti svantaggiosi non solo per una di esse29. L’esistenza del rischio, pertanto, costituisce un carattere fisionomico delle transazioni commerciali e la ricerca di un equilibrio nella condivisione dello stesso deve essere l’obiettivo delle parti al fine di concludere un contratto ‘giusto’30.

Ciò che distingue, sotto questo profilo, la prassi contrattuale islamica da quella c.d. convenzionale è senza dubbio una maggiore attenzione alla rilevanza di tale equilibrio nella condivisione dei rischi ai fini della stessa validità del contratto. La stessa proibizione degli interessi (Riba) realizza tale esigenza, facendo gravare i rischi e i costi dell’operazione esclusivamente su una delle parti del rapporto31. Peraltro, nelle stesse argomentazioni Keynesiane si evidenzia che, ove non vi fosse la pattuizione degli interessi il finanziatore sarebbe costretto a condividere i rischi dell’imprenditore finanziato non solo nella fase di vendita dei prodotti o servizi, ma anche in quella di produzione e di marketing32.

La finanza islamica, almeno teoricamente, sembra rifuggire dai fenomeni di trasferimento totale del rischio o di impermeabilità al rischio che caratterizzano la finanza convenzionale.

Il sistema occidentale del trasferimento dei rischi, in uno con l’utilizzo di strumenti finanziari altamente speculativi, privi di un asset sottostante reale, si presta ad essere considerato strutturalmente instabile e quindi, se da un lato aperto a fenomeni di incremento significativo, dall’altro facilmente esposto a fenomeni di default di natura devastante. Un sistema economico eccessivamente basato su transazioni aventi ad oggetto strumenti di debito altamente speculativi, nonché sull’uso della stessa ‘moneta’ quale bene avente valore di mercato, ha dimostrato tutta la sua fragilità di fronte ad eventi di default che, a causa di trasferimenti a catena del rischio, generano un effetto-domino difficile se non impossibile da arrestare. Secondo questa chiave di lettura, sia pure superficiale, l’approccio della finanza islamica ha dimostrato di essere meno rischioso in chiave macroeconomica e maggiormente protettivo sul piano sociale.

4. Lo studio del diritto contrattuale Shari’a compliant non deve essere finalizzato alla sola comparazione, certamente utile, atteso che il mercato finanziario islamico non ha, come ricordato, una sua connotazione territoriale ma è legato alla professione di una religione che vanta circa 1,5 miliardi di fedeli sparsi in ogni angolo del mondo con una costante e sensibile crescita anche nel territorio italiano.

La prospettiva più interessante diventa invece quella dell’analisi della meritevolezza nell’ordinamento italiano degli interessi perseguiti con contratti rispettosi del Corano.

L’interprete, il civilista, deve misurarsi con l’analisi delle prassi negoziali nelle contrattazioni finanziarie Shari’a compliant nella prospettiva della valutazione delle forme di tutela degli interessi dei contraenti di religione musulmana, italiani e non, alla luce dei principi che caratterizzano la legalità costituzionale.

Si tratta in concreto di valutare se i contratti Shari’a compliant siano rispettosi di principi e regole dell’ordinameno nel quale devono essere eseguiti: una sorta di ulteriore Italian Law compliance.

L’analisi deve necessariamente sfuggire alla ‘trappola’ metodologica della sussunzione in una non meglio precisata categoria contrattuale33, dovendo invece essere condotta nella prospettiva dell’analisi in concreto dei profili funzionali degli interessi dedotti nel contratto34.

Ancora una volta occorre procedere al definitivo superamento dello studio dell’autonomia privata in una prospettiva meramente dogmatica, nell’ottica di una sua diversa rilevanza nella regolamentazione degli interessi meritevoli di tutela, in necessaria simbiosi con fonti, legali e non, di regolamentazione del rapporto35. Proprio l’emersione di interessi ‘nuovi’, dalla forte connotazione religiosa non cattolico-cristiana, mai valutati in concreto dall’ordinamento, rende necessario un approccio maturo allo studio dell’autonomia negoziale e agli atti di iniziativa privata, in relazione proprio agli interessi da tutelare con le manifestazioni di volontà, i cui effetti essenziali sono gli unici idonei a qualificarle36.

Un corretto approccio metodologico alla studio dell’iniziativa economica privata necessita di una analisi del contemperamento degli interessi che si intendono regolare alla luce di un giudizio di meritevolezza del caso concreto, non essendo questa implicita negli atti di autonomia37, non trovando spazio nel nostro ordinamento un nesso imprescindibile di correlazione tra dichiarazione di volontà negoziale ed effetti del negozio, atteso il penetrante intervento di fonti eteronome nella regolamentazione dei rapporti giuridici. L’interprete deve pertanto volgere la sua attenzione alla relazione che vi è tra l’atto di iniziativa del soggetto, che può consistere in una dichiarazione di volontà, e meritevolezza degli effetti prodotti, in costante dialettica con fonti eteronome che possono incidere su tale produzione38.

L’auspicato superamento della dogmatica distinzione tra tipicità e atipicità contrattuale deve guidare l’interprete verso un costante controllo della meritevolezza degli atti di iniziativa negoziale, non potendo limitarsi tale controllo alle sole contrattazioni atipiche39.

Si tratta, come detto, di un controllo da effettuare in concreto e in relazione all’ordinamento italo-comunitario. Sono certamente da condividere, infatti, le critiche all’assunto secondo il quale il giudizio di meritevolezza sia da considerarsi implicito nella «uniformità internazionale del modello contrattuale», in una prospettiva di non isolamento economico40.

Nella medesima prospettiva del superamento della dogmatica distinzione tra contratti tipici e atipici non appare utile sul piano ricostruttivo la creazione della differente categoria del contratto ‘alieno’ dalla portata più ampia della stessa ‘atipicità’ contrattuale, in quanto ‘aliena’ dal diritto italiano che non lo regolerebbe41. Certamente condivisibile è, invece, l’enfatizzazione della necessità, in presenza di contratti da eseguire nell’ordinamento italiano ma le cui clausole concretizzano una prassi negoziale ricorrente in altri ordinamenti giuridici, di procedere ad un recepimento non acritico, ma «scrutinato attentamente per accertarne la coerenza con il nostro sistema e specie la compatibilità con principi di ordine pubblico economico e/o limiti all’autonomia privata che fossero dettati dalla lex contractus»42.

5. Quanto al mondo c.d. occidentale certamente l’esperienza inglese può rappresentare una guida per lo sviluppo della finanza islamica43. Già negli anni ottanta, nel mercato finanziario londinese (in particolare nel London Metal Exchange) si assisteva a transazioni su base Murabahah, aventi il precipuo scopo di dotare di liquidità alcune istituzioni mediorientali. Negli anni novanta alcune banche del middle east e del sud est asiatico hanno iniziato a offrire prodotti finanziari di base (home finance). Nel 2004, ha visto la luce la Islamic Bank of Britain: si è trattato della prima esperienza di banca retail alla quale hanno fatto seguito altre banche di investimento i cui prodotti sono Shari’a compliant44. Infine, nel 2005 vi è stata la prima emissione di Sukuk del mondo occidentale45.

L’approccio inglese è stato caratterizzato da una forte attenzione specialmente ai profili fiscali delle operazioni di finanza islamica che, costringendo spesso plurimi trasferimenti di situazioni soggettive (inutili per il sistema della finanza convenzionale), costituisce un indubbio ostacolo sul piano dell’efficienza economica. Si è così evitato di creare una normativa specifica per le banche islamiche, al fine di scongiurare il rischio che la caratterizzazione religiosa diventasse un criterio di regolamentazione fiscale di favore (no obstacles, but no special favours). Nel 2003 e nel 2005, con la legge finanziaria, si è prevista l’esenzione dalla doppia imposizione per le transazioni riconducibili alla struttura propria del contratto Murabahah46, non limitandone l’esenzione al solo contratto islamico, e sono stati altresì introdotti i criteri dell’alternative finance return e del profit share return ai quali sono stati attribuiti quei vantaggi fiscali in termini di deducibilità già previsti per gli interessi passivi47. Nel 2013, il governo inglese ha istituito una Islamic Finance Task Force con l’obiettivo primario di fare in modo che Londra costituisca il più importante hub per la finanza islamica del mondo occidentale e il principale punto di riferimento per gli investimenti Shari’a compliant48.

Non appare revocabile in dubbio che l’approccio inglese al problema, ispirato a criteri di integrazione e di armonizzazione, e non già di separazione, sia da considerare auspicabile anche per le altre nazioni, specialmente per quelle europee, per le quali assume carattere di urgenza la necessità di attrarre investimenti di capitali da parte del mondo mediorientale49.

La prospettiva ideale sembra essere quella del perseguimento dell’obiettivo di un dual banking system, sia nelle regioni musulmane che nel resto del mondo, ciò al fine di godere di un’offerta di prodotti finanziari maggiormente competitiva e in grado di soddisfare anche istanze di matrice etico-religiosa. La realizzazione di tale obiettivo non può tuttavia prescindere da un adeguato approccio culturale oltre che economico da parte di tutti gli operatori del settore, autorità di vigilanza incluse.

 

ABSTRACT

Il contributo è il frutto di alcune riflessioni sui caratteri fisionomici della finanza e del diritto dei contratti tradizionalmente utilizzati dai fedeli alla religione musulmana, caratterizzati dalla loro osservanza ai precetti della Shari’a. Lo spunto è dato dal differente impatto che la recente crisi finanziaria ha avuto nei mercati finanziari occidentali, fortemente ispirati da una logica speculativa e da un massiccio ricorso agli strumenti di debito, rispetto a quello avuto nei mercati finanziari del mondo islamico che hanno saputo resistere con maggiore vigore, forti dell’applicazione di principi correlati al rispetto di valori portati dal Corano.

L’indagine muove dalla mera osservazione del diverso ruolo svolto dalla moneta nel sistema Shari’a compliant, laddove assume non già la veste di un asset di per sé produttivo di ricchezza, attraverso la produzione di interessi (proibiti, sia chiaro, in tutti i libri sacri), per mantenere la sua funzione originaria di mezzo di scambio. La chiave di lettura delle transazioni commerciali e finanziarie del mondo islamico, fortemente condizionata, come detto, dal rispetto dei precetti religiosi, diventa pertanto la condivisione dei rischi dell’impresa finanziata, sia nei profitti che delle perdite (Profit-Loss Sharing).

L’assenza di connotazione territoriale dei principi e delle regole del Corano deve spingere l’interprete a misurarsi con l’analisi di quelle prassi negoziali nella prospettiva della valutazione delle forme di tutela degli interessi dei contraenti di religione musulmana, italiani e non, alla luce dei principi che caratterizzano la legalità costituzionale.

 

1 T.V. Russo, Contributo allo studio dei contratti Shari’a compliant. Valori religiosi e meritevolezza degli interessi, Napoli, 2014, in corso di pubblicazione. Per la tradizione islamica la Shari’a indica ‘il sentiero che l’Uomo deve percorrere per giungere alla salvezza’. Il termine Shari’a (originariamente Shinra’ayn) letteralmente, riconduce al significato “La strada che porta al corso d’acqua che non si prosciuga”, con riferimento a quel passo coranico nel quale si indica il percorso dei cammelli per abbeverarsi. Nel Corano è dato leggere “Egli ha stabilito per voi, nella religione, la stessa via che aveva raccomandato a Noè, quella che riveliamo a te e che imponemmo ad Abramo, a Mosè e a Gesù: “Assolvete il culto e non fatene motivo di divisione” [42,13]. Per un approfondimento, v. F. Castro, Il modello islamico, a cura di G.M. Piccinelli, Torino, 2007; M.H. Khamali, Shari’ah law: An introduction, Oxford, 2008. Sia consentito altresì il rinvio a T.V. Russo, Finanza islamica, in Digesto disc. Priv., Sez. comm., Aggiornamento 6, Torino, 2012, p. 389 ss.

2 Basti pensare ai fraintendimenti correlati alla portata del concetto di Jihād, che significa “esercitare il massimo sforzo”, non necessariamente bellico, ma anche quale lotta interiore spirituale per la comprensione dei misteri divini, finalizzato alla diffusione universale del messaggio portato da Maometto su incarico di Allah. Nel gergo comune si tende ad identificare il concetto di jihad con la c.d. guerra santa. Tale identificazione è fortemente contestata dagli studiosi della religione musulmana. Il Corano richiama l’espressione 33 volte, sempre con accezioni diverse. Guardando dall’esterno la problematica, la sensazione è più quella della enfatizzazione degli equivoci tra mondo occidentale e mondo medio-orientale: si pensi alla tralatizia comparazione tra il Jihad e le Crociate. Dubbio non v’è, tuttavia, che in alcuni contesti sociali del medio oriente si abusi, con la sponda dell’ignoranza di parte della popolazione, del concetto di autodifesa dagli aggressori. Per un approfondimento, v. D. Cook, Storia del Jihad. Da Maometto ai giorni nostri, Torino, 2007.

3 G. Gorla, Il contratto. Problemi fondamentali trattati con il metodo casistico e comparativo, I, Lineamenti generali, Milano, 1955; v. più di recente, P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costutuzionale secondo il sistema italo-comunitario delle fonti, Napoli, 2006, p. 97 ss. e 130 ss.

4 Il termine Islam (infinito del sostantivo arabo ‘asalama) è riconducibile, letteralmente, al concetto di “sottomissione ad Allah”. I musulmani, i seguaci dell’Islam, credono che Dio (Allah) abbia rivelato il suo ultimo messaggio all’umanità al Profeta Maometto (Muhammad) attraverso l’Arcangelo Gabriele, a partire da una notte del mese di ramadàn nel 610 d.C. Da quel momento Maometto intraprese la strada di un apostolato pubblico, avente quale scopo primario la purificazione e la salvezza della comunità. Prima delle predicazioni di Maometto la società pre-islamica era politeista e la Mecca (Makka) era sede di un santuario nel quale si praticava il culto di tre dee. Nel sito della Mecca si trovava la Ka’ba (la Pietra Nera) che, secondo la tradizione araba era caduta dal cielo bianco, per poi diventare nera a causa dei peccati degli uomini. Il notevole flusso di pellegrini fece della Mecca un ricco centro commerciale, oltre che un luogo di culto. Per un approfondimento sulle origini dell’Islam, cfr. G. Caputo, Introduzione al diritto islamico, Torino, 1990, p. 13 ss.; G. Paciullo e F. Ceppi, Il diritto altrove. La sponda sud del Mediterraneo, Roma, 2004, pp. 24 ss., ivi, ulteriore bibliografia, i quali sottolineano come la ‘nuova’ religione monoteista, professata da Maometto, predicando l’abbandono degli idoli e dei culti sino a quel momento praticati, venne vista, in un primo momento, come pericolosa da parte dell’oligarchia dominante, anche per il timore di veder cessare l’afflusso di pellegrini alla Mecca. Tale ostracismo si trasformò in persecuzione, che spinse Maometto, il 24 settembre del 622 d.C., ad abbandonare la Mecca e a trovare rifugio, insieme ai suoi seguaci, a Yathrib, che prese il nome di Madinatan-Nabi (città del Profeta), nota poi come Medina. L’Egira (hijra) indica proprio la migrazione dei seguaci di Maomento (Musulmani) dalla Mecca a Medina. Si giunse alla costituzione di un nuovo Stato, identificato con la comunità dei fedeli (Umma) e caratterizzato dalla identità tra la sfera temporare e quella spirituale, a capo del quale si poneva Maometto, quale vicario in terra di Dio (Allah) e depositario della sua legge. In ogni caso, l’appartenenza alla Comunità non impedì, quanto meno in un primo momento, la libertà di professare altre religioni (ebrea e cristiana). Tuttavia, coloro che non facevano parte della Comunità Medinese venivano identificati come ‘infedeli’. Le mire espansionistiche della Comunità non tardarono ed ebbero quale principale obiettivo proprio la Mecca, conquistata poi nel 630 d.C. Per un approfondimento documentato ed equilibrato, in chiave non giuridica, della nascita dell’Islam e della sua evoluzione, v. R. Aslan, No god but God.The origin, evolution, and future of Islam, New York, 2011.

5 Un primo è riconducibile al concetto di ‘Fede’ (Aquidah) e concerne il piano delle relazioni tra gli essere umani e Allah. Il secondo, invece, riconducibile al concetto di ‘Diritto’ (Shari’a), concerne la secolarizzazione della fede nel campo dei comportamenti terreni e delle azioni quotidiane. Generalmente si richiama un terzo piano normativo, che in parte sintetizza i primi due, definito Akhlaq, che indica i comportamenti ai quali un musulmano deve attenersi nella vita quotidiana. Si concretizza nella pratica delle virtù e della moralità, in quanto in grado di condurre alla perfezione e alla felicità, al contrario di quanto accade per i comportamenti immorali e la corruzione.

6 Per un approfondimento in chiave storica, cfr., R. Hamaui e M. Mauri, Economia e finanza islamica. Quando i mercati incontrano il mondo del profeta, Bologna, 2009, p. 29 ss., spec., p. 51; v., pure, R. Millar, Religious Foundations of Islamic Finance, in Aa.Vv., Islamic Finance. A Guide for International Business and Investment, Philadelphia, 2008, p. 3 ss.

7 La proibizione del Riba costituisce certamente uno dei pilastri intorno al quale è costruito l’intero sistema finanziario Shari’a compliant. La traduzione letterale del sostantivo arabo, che deriva da raba-wa, richiama concetti quali ‘aumento’, ‘accrescimento’, ‘surplus’, ma viene solitamente associato al concetto di ‘interesse’ o di ‘usura’. La proibizione del riba è presente in molte sure del Corano: “Quel che voi prestate ad usura perché aumenti sui beni degli altri, non aumenterà presso Dio. Ma quel che date in elemosina, bramosi del volto di Dio, quello vi sarà raddoppiato” (30: 39); “Coloro che praticano l’usura, il dì della Resurrezione sorgeran dai sepolcri come chi è reso epilettico dal contatto di Satana. Questo perché essi hanno detto: la compravendita è come l’usura. Ma Dio ha permesso la compravendita e ha proibito l’usura.” (2: 275). Non è appropriato non solo identificare il Riba con l’usura, ma anche con il concetto di interesse, atteso che la valutazione non avviene esclusivamente in termini di valuta rilevando invece la qualità delle merci utilizzate per lo scambio; cfr. M.A. El-Gamal, Islamic Finance. Law, Economics and Practice, New York, 2009, p. 51 s.; T.V. Russo, Finanza islamica, cit., p. 394 ss.

8 Z. Iqbal e A. Mirakhor, An Introduction to Islamic Finance. Theory and Practice, Singapore, 2^ ed., 2011, p. 97.

9 Può forse affermarsi che la religione musulmana sia rimasta maggiormente fedele agli insegnamenti di Mosè. La proibizione degli ‘interessi’ nelle transazioni finanziarie, infatti, è prevista, non solo dal Corano, ma anche dalla Torah, il libro sacro per la religione ebraica, dalla Bibbia, dai testi induisti e buddhisti (che vedevano la pratica con disprezzo). Nel libro dell’Esodo (che è il secondo libro sia della Torah ebraica che della Bibbia cristiana) si legge: “se tu presti denaro a qualcuno del mio popolo, all’indigente che sta con te, non ti comporterai con lui da usuraio: voi non dovete imporgli alcun interesse” (Esodo, XXII, 24-26). In realtà, nella Torah, la proibizione degli interessi concerne esclusivamente le transazioni tra ebrei, mentre gli ebrei sono autorizzati ad intraprendere rapporti interest based con gli appartenenti a religioni differenti. Nel Deuteronomio (quinto libro della Torah – 23,20-21) si legge: “Non presterai ad usura denaro, grano o qualsiasi cosa al tuo fratello, Allo straniero potrai prestare ad interesse, ma non a tuo fratello”. Nella Bibbia (Ezechiele, 18) si legge che “Se uno è giusto e osserva il diritto e la giustizia […], restituisce il pegno al debitore […] non presta a usura e non esige interesse […] egli è giusto ed egli vivrà, parola del Signore Dio […] Ma se presta ad usura ed esige gli interessi, egli non vivrà; poiché ha commesso queste azioni abominevoli, costui morirà e dovrà a se stesso la prorpia morte”. Nel Nuovo Testamento (Luca, 6, 34-35) si legge: “E se prestate a coloro dai quali sperate di ricevere, quale merito ne avete? Anche i peccatori prestano ai peccatori per ricevere altrettanto. Al contrario, continuate ad amare i vostri nemici e a fare il bene e a prestare, senza sperare nulla in cambio”. La proibizione della pratica degli interessi, nella storia antica, era condivisa dalla religione e della filosofia. Può invero risalirsi al pensiero di Aristotele, pertanto al IV secolo a.C., per leggere considerazioni di condanna alla pratica degli interessi, valutati quali ‘guadagni innaturali’ atteso che il finanziatore ricava un utile, un guadagno senza aver svolto alcun lavoro, ma per il fatto stesso di aver prestato del denaro. Noto il pensiero aristotelico nell’Etica Nicomachea: Nummus nummum parere non potest. Aristotele, infatti, riteneva che ci fossero solo tre modi per ricavare un profitto dalle transazioni commerciali: a) attraverso il ‘commercio in natura’, ossia il semplice scambio di beni essenziali (scambio di vestiti con cibo); b) attraverso lo scambio di beni essenziali con il denaro; c) attraverso il ‘commercio innaturale’ nel quale il denaro stesso viene considerato come ‘bene’ oggetto di commercio. Nel diritto romano, la c.d. Lex Genucia (340 a.C.) vietava espressamente l’usura e il prestito con interessi. Per una ricostruzione critica in chiave storica, v. U. Santarelli, Le premesse lontane: dal povero al mercante, in La banca islamica e la disciplina bancaria europea a cura di Gimigliano e Rotondo, Milano, 2006, p. 1 ss. Alcuni studiosi hanno ritento che il superamento di tali principi comuni di tutte le religioni, condivisi dal pensiero filosofico, sia da ascrivere a varie ragioni, tra le quali: lo spirito materialista che ha dominato nel pensiero dei primi commercianti cristiani, che hanno ritenuto di separare il piano religioso da quello economico-finanziario, sì che ciò che è proibito dalla religione non necessariamente deve essere proibito nel commercio; dall’influenza di importanti studiosi dell’economia, quale Adam Smith, il quale riteneva che la previsione di un ‘basso’ tasso di interesse nelle operazioni di finanziamento fosse utile all’economia in quanto in grado di incoraggiare i soggetti che possedevano denaro a prestare i loro risparmi a coloro che ne avessero bisogno; infine, sempre secondo tale lettura, un ruolo determinante sarebbe stato svolto dai commercianti ebrei, che hanno svolto un ruolo dominante nella storia economica, autorizzati a praticare gli interessi con i non ebrei; in tal senso, D. Vicary Abdullah e K. Chee, Islamic Finance. Why it makes sense, Singapore, 2010, p. 47 s. In realtà, nel mondo cristiano, nei Concili di Lione (1274) e di Vienna (1331) vennero accolti gli insegnamenti di Tommaso d’Aquino, uno dei Padri del pensiero filosofico cristiano, e si affermò che, essendo il ‘tempo’ un bene comune, bisognasse condannare la riscossione degli interessi a fronte della concessione di un mutuo.

10 Suscitano sempre grande interesse le riflessioni, in materia di interessi, di Adam Smith, il quale, pur non condannandone la pratica, connaturata all’uso del capitale (“un capitale prestato a interesse può essere considerato come un trasferimento dal mutuante al mutuatario di una certa considerevole porzione del prodotto annuale; a condizione che il mutuatario in cambio passi annualmente al mutuante, per tutta la durata del prestito, una porzione più piccola detta interesse; e alla fine del prestito, una porzione altrettanto grande quanto quella inizialmente a lui trasferita, detta rimborso”), sottolineava come nei paesi nei quali vi fosse il divieto degli interessi, l’usura, anziché essere impedita fosse aumentata, “essendo il debitore costretto a pagare non soltanto l’uso del denaro ma anche il rischio che il suo creditore corre accettando un compenso per quell’uso”. L’illustre economista riteneva che l’interesse legale dovesse essere sì limitato, “per evitare l’estorsione dell’usura”, ma comunque dovesse “essere sempre un po’ più elevato del prezzo minimo di mercato, cioè del saggio normalmente corrisposto per l’uso del denaro da coloro che possono offrire la garanzia più indubbia”; cfr. A. Smith, La ricchezza delle nazioni, 1776, trad. it. a cura di A. e T. Biagiotti, Milano, 2006, p. 473 ss. Sono altresì note le critiche al pensiero smithiamo mosse da R. Posner, Economic Analysis of the Law, Boston, 1992, p. 23 ss., il quale ritiene che la limitazione dei tassi di interesse sia paternalistica e riduttiva dell’efficienza economica. Interessante altesì la riflessione di M.U. Chapra, Financial Stability: The Role of Paradigm and Support Institutions, in Islamic Financial Architecture, Risk Management and Financial Stability, Proceedings of the International Conference on Islamic banking: Risk Management, Regulation and Supervision, held in Jakarta, 30 sept.-2 oct. 2003, p. 117: “Secularism has, unfortunately, stripped the conventional financial system of its moral basis and made interest a part of its hard core such that it would not occur to any scholar who does not wish to lose his acaddemic standing to consider a possible link between interest and financial instability”.

11 Per un’attenta ricostruzione del ruolo della moneta nel diritto italiano, v. la recente analisi di M. Semeraro, Pagamento e forme di circolazione della moneta, Napoli, 2008, p. 35 ss. Fondamentali rimangono gli studi di T. Ascarelli, Obbligazioni pecuniarie, in Comm. c.c. Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1959, passim, spec., p. 67 ss.; cfr., pure, G. Stammati, Moneta, in Enc. dir., XXVI, Milano, 1976, p. 470 ss.; B. Inzitari, La moneta, in Tratt. dir. comm. Galgano, VI, Padova, 1986; Id., Le funzoni giuridiche del denaro nella società contemporanea, in Riv. dir. civ., 1982, I, p. 694 ss. La natura della moneta quale mezzo di scambio è presente nelle riflessioni di G. Scaduto, I debiti pecuniari e il deprezzamento monetario, Milano, 1924, p. 16 ss., il quale faceva proprie alcune riflessioni già presenti nella dottrina tedesca, v. M. Wolff, Das Geld, in Ehrenberg. Handbuch des ges. H.R., IV, I, p. 637.

12 Interessante la collocazione degli usurai nella Divina Commedia: l’inferno dantesco li incontra nel terzo girone del settimo cerchio tra i violenti contro Dio e la natura (canto XVII), anche se li ha già descritti in precedenza (canto XI) come coloro che traggono il loro guadagno solo dal denaro e non già dal sudore e dall’ingegno. La pena alla quale devono soggiacere è quella di rimanere seduti sventolando le mani al fine di spegnere le fiammelle appena cadute. Dante li paragona ai cani che si grattano con le zampe per scacciare le punture “o da pulci o da mosche o da tafani”; vengono descritti con una borsa disegnataal collo, con chiaro riferimento alle borse che color che prestavano denaro portavano sempre al collo.

13 Attraverso il ricorso alla qiyas (analogia) si è ritenuto di estendere la previsione anche alle altre merci.

14 V., sul punto B. Kettel, Introduction to Islamic Banking and Finance, Singapore, 2011, p. 82 ss., il quale indica le cinque ragioni che giustificano la proibizione degli interessi: 1) sono ingiusti; 2) producono fenomeni di corruzione della società; 3) comportano una ingiustificata appropriazione della proprietà di altre persone; 4) sono il risultato di uno sviluppo economico negativo; 5) incidono negativamente sulla personalità umana.

15 Cfr. G. Scaduto, I debiti pecuniari, cit., p. 26 s., il quale riteneva che «solo il valore nominale garantisce la realizzazione degli scopi giuridici per i quali la moneta è stata introdotta nella nostra vita sociale».

16 Z. Iqbal e A. Mirakhor, An Introduction to Islamic Finance, cit., p. 33 ss.

17 V., in proposito, G. Miller, Trust, risk and moralhazard in financial markets, Torino, 2011; T.F. Hellmann, K.C. Murdock and J.E. Stiglitz, Liberalization, Moral Hazard in Banking, and Prudential Regulation: Are Capital Requirements Enough?, in American Economic Review, 2000, 90(1), p. 147 ss.; T. Lane and S. Phillips, Does IMF Financing Result in Moral Hazard?, in International Monetary Funds Working, 2000, Paper n. 168; F. Spadafora, Financial crises, moral hazard and the “speciality” of the international interbank market: further evidence from the pricing of syndicated bank loans to emerging markets, in Working Papers, Banca d’Italia, n. 438, marzo 2002.

18 Sono note le critiche di Minsky alle teorie capitalistiche keynesiane e, in particolare, ai difetti strutturali di un’economia basata sui segnati squilibri; v. H. Minsky, Keynes e l’instabilità del capitalismo, Torino, 1975, passim.

19 Il Corano (letteralmente significa recitazione, lettura) che rappresenta per i Musulmani la parola di Dio, contiene le rivelazioni che Maometto ha ricevuto nel corso di oltre venti anni (dal 610 al 632 d.C), in due fasi differenti: la fase meccana (610-622 d.C., dal momento dell’annuncio della missione profetica da parte dell’Arcangelo Gabriele alla data dell’egira) e la fase medinese, maggiormente interessante per i profili giuridico-finanziari (622-632 d.C., dall’egira alla morte). La rivelazione del Corano rimase inizialmente priva di resoconto scritto, in quanto affidata alla sola memoria di Maometto; solo successivamente alcuni dei suoi discepoli annotarono le rivelazioni divine su qualunque superficie avessero a disposizione al momento della dettatura da parte del Profeta. Per la religione islamica, i Profeti sono uomini scelti da Dio (Allah) per essere i suoi messaggeri. A differenza di quella che è l’idea del Profetà Gesù Cristo per il mondo cattolico-cristiano, i profeti, per i credenti musulmani, sono esseri umani e non divinità. Il Corano menziona, altri 24 profeti di Dio, dei quali 17 nell’Antico Testamento, tra i quali Adamo, Noè, Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosè, Salomone, 3 nel Nuovo Testamento, tra i quali Zaccaria, Giovanni Battistà e Gesù, mentre gli altri 4 appartengono alla tradizione orale degli arabi. Tutti i profeti, giungendo da Dio, devono essere creduti dai fedeli; cfr. S.A. Aldeeb Abu-Sahlieh, Il diritto islamico. Fondamenti, fonti, istituzioni, Roma, 2008, p. 199 ss., il quale segnala che, sul piano penale, il musulmano che rinneghi la profezia di uno dei profeti viene considerato apostata ed è passibile della pena di morte. Maometto viene indicato come discendente di Ismaele, figlio di Abramo; mentre, sia Mosè che Gesù sarebbero discendenti di Isacco, l’altro figlio di Abramo. E’ pertanto opportuno precisare che il Dio della religione musulmana è lo stesso della religione cattolica (Allah è la traduzione araba di Dio): un concetto teologico di fondamentale rilevanza è chiamato Tawhid, ossia il credo nell’esistenza di un unico Dio. Il Corano, scritto in lingua araba, è considerato intraducibile, in quanto si ritiene che qualsiasi altra lingua diversa da quella di origine potrebbe portare a un differente significato per la presenza di espressioni che non hanno una esatta corrispondenza in un’altra lingua. Ciò comporta il dovere per i musulmani di imparare la lingua araba.

20 L’impero ottomano è stato il primo a sentire la necessità di una codificazione ‘moderna’. Già nel 1840 venne promulgato un codice penale, che costituiva una combinazione di precetti coranici e regole adottate dai legislatori moderni, e che fu ben presto (1858) sostituito dal codice penale francese del 1810. Nel 1850 venne anche adottato il codice di commercio francese. Nel corso degli anni successivi si optò per il codice penale italiano, il codice di commercio tedesco e il codice civile svizzero. A cavallo del XIX e del XX secolo in Egitto vide la luce un complesso corpo normativo che portò poi alla nascita del primo codice civile del mondo arabo (1949), fortemente ispirato dal codice civile francese, ma con forti tracce di altri codice europei. Il codice civile egiziano ha costituito il corpo normativo che ha ispirato la codificazione nell’intero mondo arabo (Algeria, Giordania, Iraq, Libia, Kuwait, Siria). Negli Emirati Arabi Uniti, il più recente degli stati arabi, dal punto di vista della sua costituzione, nel 1985 è stato adottato un codice civile, fortemente ispirato dal codice civile francese, ma che prevede all’art. 1: “In mancanza di una disposizione in questa legge, il giudice delibererà in base al diritto musulmano, dando preferenza alle soluzioni più idonee della scuola dell’imam Malik e quella dell’imam Ahmad Ibn-Hanbal, e, in caso di mancanza, a quelle della scuola dell’imam Al-Shafi’i e quella dell’imam abu-Hanifah, in base all’interesse in questione”. Nella medesima prospettiva del superamento delle divisione interpretative, un ruolo sempre più rilevante ha assunto la recente Islamic Fiqh Academy con sede a Jeddah, in Arabia Saudita, creata su iniziativa dell’Organization of the Islamic Conference (OIC), che raccoglie autorevoli studiosi del diritto islamico che si incontrano periodicamente per discutere degli argomenti di rilevo attuale ed emettere i loro pareri in proposito

21 Per un maggiore approfondimento sulle problematiche relative alla proibizione del Gharar, v. T.V. Russo, Finanza islamica, cit., p. 397 ss.

22 V., nella medesima prospettiva critica, le recenti osservazioni di R. Di Raimo, Interest rate swap, teoria del contratto e nullità: e se finalmente dicessimo che è immeritevole e che tanto basta, in Rass. dir. civ., 2014, p. 308 ss., il quale, annotando un recente pronunciato della Corte d’Appello di Milano (18 settembre 2013) e dopo aver sottoposto a severa critica i meccanismi della finanza derivata (esordisce l’A., «Puzza d’imbroglio»), conclude per sancirne la immeritevolezza della causa, pur lecita. Cfr. altresì, Id., Fisiologia e patologie della finanza derivata. Qualificazione giuridica e profili di sistema, in F. Cortese e F. Sartori (a cura di), Finanza derivata, mercati e investitori, Pisa, 2010, p. 44 ss.; Id. Dopo la crisi, come prima più di prima (Il derivato finanziario come oggetto e come operazione economica), in D. Maffeis (a cura di), Swap tra banche e clienti. Le condotte e i contratti, Milano, 2014, in corso di pubblicazione (si ringrazia l’A. per averne consentito la lettura in bozza); M. Semeraro, Copertura e speculazione: funzioni e disfunzioni dell’interest rate swap, in questa Rivista, 27, 2013.

23 Cfr.. R. Di Raimo, Interest rate swap, cit., p. 310.

24 V. S.A. Siddiqui, Estabilishing the Need and Suggesting a Strategy to Develop “Profit and Loss Sharing Islamic Banking” (PALSIB), in Journal of Islamic Economics, Banking and Finance, vol. 6, n. 4, p. 29 ss. Nell’ordinamento italiano, il fenomeno della condivisione dei rischi, sia pure con significative protezioni, è rinvenibile esclusivamente nelle operazioni di project finance; per un approfondimento sia consentito rinviare a T.V. Russo, Il Project Financing, in Trattato di diritto civile del Consiglio Nazionale del Notariato, diretto da Perlingieri, Napoli, 2007; T.V. Russo e P. Marchetti, Manuale di diritto e tecnica del project financing, Napoli, 2010.

25 In una prospettiva di ravvicinamento delle pratiche commercialisi assiste, in questi anni, al sempre più diffuso (e accettato) fenomeno di “purificazione”, nell’ottica della identificazione di limiti di tolleranza nonché di strumenti per rendere consentite attività astrattamente proibite. Ad esempio, al fine di stabilire se una società o altra istituzione sia coinvolta nell’esercizio di attività proibite (alcool, scommesse, tabacco, interessi, etc.), si è ritenuto di poter fissare un livello di tolleranza pari al 5%, al di sotto del quale l’operazione l’operazione può considerarsi Shari’a compliant. Ai fini della c.d. purificazione, i profitti derivanti da queste attività andranno devoluti con finalità caritatevoli. Con riferimento, invece, ai mercati finanziari, si ritiene che il rapporto tra indebitamento e capitale debba essere non superiore al 33%, la liquidità non superiore al 50% e i profitti derivanti da interessi non superiori al 5%. Per un approfondimento, anche in merito alle metodologie utilizzate per la valutazione di compatibilità, v. I. Asaria, Screening and Purification Criteria: Shari’a Application to Investment, in Aa.Vv., Islamic Finance. A Guide for International Business, cit., p. 125 ss.; B. Kettel, Introduction to Islamic Banking, cit., p. 53.

26 Z. Iqbal e A. Mirakhor, An Introduction to Islamic Finance, cit., p. 156, i quali affermano che l’Islam ha indicato la strada e la maniera per affrontare e mitigare le incertezze della vita.

27 La popolazione musulmana nel mondo ammonta a circa 1,5 miliardi di fedeli, a fronte di oltre 2 miliardi di seguaci del cristianesimo. Occorre evitare l’associazione tra islam e medioriente, atteso, da un lato, che in quella zona del globo sono professate numerose altre religioni, dall’altro, che i musulmani sono presenti in quasi tutte le nazioni del mondo, in alcune delle quali in crescente maggioranza.

28 Z. Iqbal e A. Mirakhor, An Introduction to Islamic Finance, cit., p. 157, i quali condividono l’osservazione secondo la quale la recente crisi finanziaria globale, lontana dal perseguimento di un metodo di condivisione dei rischi, abbia invece portato ad una privatizzazione dei profitti in uno con una socializzazione delle perdite; in tal senso, A. Sheng, From Asian to Global Financial Crisis. An Asian Regulator’s View of Unfettered Finance in the 1990s and 2000s, New York, 2009, p. 375 ss.

29 Si è osservato che anche le contrattazioni ad effetti istantanei comportano dei rischi, connessi al differente valore che la moneta può assumere dopo la conclusione del contratto; v. Z. Iqbal e A. Mirakhor, An Introduction to Islamic Finance, cit., p. 158.

30 V. l’approfondita analisi di M. Obaidullah, Market risks in Islamic Banks and the relevance of Islamic contracts for risk management, in Islamic Financial architecture, cit., passim.

31 Z. Iqbal e A. Mirakhor, An Introduction to Islamic Finance, cit., p. 159, ritengono che la previsione di Riba sia niente altro che il trasferimento del rischio.

32 Cfr., J.M. Keynes, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, 1936, trad. it a cura di Cozzi, Torino, 2006, p. 410 ss.

33 Una dura censura alla «tecnica della sussunzione» è stata mossa da P. Perlingieri, Interpretazione e qualificazione: profili dell’individuazione normativa, in Scuole tendenze e metodi. Problemi del diritto civile, Napoli, 1988, p. 29 ss.; si contesta, in particolare la differenziazione ontologica tra interpretazione e qualificazione presente negli studi della dottrina, quando, più correttamente si tratta di «espressioni ed aspetti di un medesimo processo conoscitivo»; in tal senso v. pure V. Rizzo, Interpretazione dei contratti e relatività delle sue regole, Napoli, 1985, p. 132 ss. La tesi criticata, che distingue logicamente e cronologicamente interpretazione e qualificazione, è riconducibile a E. Betti, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, cit., pp. 11 ss., 144 ss.; v. pure, L. Cariota Ferrara, Il negozio giuridico, cit., p. 686; in giurisprudenza, v., ex multis, Cass., 24 giugno 1983, n. 4333, in Giur. it., 1984, I, 1, c. 1148, con nota di G. Galli, Alcune note in tema di regolamento aziendale; Cass., 26 aprile 1990, n. 3485, ivi, 1991, I, 1, c. 68; Cass., 16 giugno 1997, n. 5387, in Contratti, 1998, p. 337, con nota di G. Piazza, Il rapporto tra interpretazione e qualificazione. Nella stessa ottica, ma con una precedenza cronologica della fase della qualificazione rispetto a quella dell’interpretazione, v. invece, M. Casella, Il contratto e l’interpretazione. Contributo a una ricerca di diritto positivo, Milano, 1961, p. 70 ss.; sul punto v. le osservazioni di G. Scalfi, La qualificazione dei contratti nell’interpretazione, Milano-Varese, 1962, p. 25 ss.

34 Per una critica all’atteggiamento «tipizzatorio» della giurisprudenza, v. R. Sacco, Autonomia contrattuale e tipi, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1966, p. 790, il quale afferma che «la giurisprudenza, posta di fronte ad un concreto contratto, ove appena diventi rilevante statuire sulla natura del contratto stesso, fa di tutto per ricondurre la fattispecie ad un “tipo”»; v., pure, G. De Nova, Il tipo contrattuale, Padova, 1974, p. 3 ss.; Id., Il tipo contrattuale, in Tipicità e atipicità nei contratti, Milano, 1983, p. 29 s. il quale drasticamente afferma che «la giurisprudenza italiana trascura strumenti alternativi alla tipizzazione, che tipizza anche quando non serve, e che quando qualifica un contratto come innominato non lo fa per avere un punto di partenza per la costruzione di una nuova disciplina, bensì soltanto per escludere l’applicazione di una determinata disciplina legislativa». L’A., alla domanda «Perché il giudice italiano tipizza, invece di fare ricorso alle clausole generali?», risponde che «il giudice italiano tipizza, non per salvaguardare la certezza del diritto, ma per un fenomeno culturale di portata più vasta, e cioè perché i consociati si attendono da lui che motivi le proprie decisioni con la puntuale citazione di articoli di legge». Sul punto v. anche M. Giorgianni, Riflessioni sulla «tipizzazione» dei contratti agrari, in Riv. dir. agr., 1969, I, p. 153. Sia consentito rinviare altresì a T.V. Russo, Il contratto di ormeggio tra atipicità contrattuale, tipizzazione social-giurisprudenziale e interpretazione di buona fede, in Vita not., 1996, p. 92 ss.

35 Può considerarsi ormai acquisito, in dottrina e in giurisprudenza, il superamento della concezione che studiava la causa del contratto quale mera ‘funzione economico-sociale’; la tesi è riconducibile al pensiero di E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, in Tratt. di dir. civ. diretto da Vassalli, Torino, 2ª ed., 1952, ora rist. corretta a cura di G. Crifò, Napoli, 1994, p. 169 ss., in part. p. 180 s. ove precisa che la funzione economico-sociale coincide con la «sintesi de’ suoi elementi essenziali»; v. pure Id., Causa del negozio giuridico, in Noviss. dig. it., III, Torino, 1959, p. 33 ss.; è stata poi condivisa da F. Messineo, Dottrina generale del contratto, Milano, 3ª ed., 1952, p. 63 e, più di recente, da F. Galgano, Diritto civile e commerciale, II, t. 1, Padova, 3ª ed., 1999, p. 170 ss.; per la giurisprudenza meno recente, v., tra le tante, Cass., 15 febbraio 1963, n. 331, in Giust. civ., 1963, I, p. 763; Cass., 2 dicembre 1974, n. 3929, in Giur. it., 1976, I, 1, c. 95; Cass., 23 maggio 1987, n. 4681, ivi, 1988, I, 1, c. 65; cfr., sul punto, le analisi di L. Ferrigno, L’uso giurisprudenziale del concetto di causa del contratto, in Contr. e impr., 1985, p. 115 ss., e di G. Alpa, L’uso giurisprudenziale della causa del contratto, in Nuova giur. civ. commentata, 1995, II, p. 1 ss. V. tuttavia, di recente, Cass., 6 agosto 1997, n. 7266, in Corriere giur., 1998, p. 80, con nota di A. Palmieri, Scioglimento della società e patto di non concorrenza: la “causa concreta” approda in Cassazione? Il punctum dolens della tesi della funzione economico-sociale è da sempre rinvenuto nella sua identificazione con il tipo contrattuale, v. E. Betti, Causa del negozio giuridico, cit., p. 35 il quale sostiene che «la causa del negozio è propriamente la funzione economico-sociale che caratterizza il tipo di esso negozio quale fatto di autonomia privata». Da tale critica ha preso le mosse la teoria che ha identificato la causa nella «funzione economico-individuale», riconducibile al pensiero di G.B. Ferri, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, Milano, 1966, p. 355 ss.; Id., Tradizione e novità nella disciplina della causa (dal cod. civ. 1865 al cod. civ.1942), in Riv. dir. comm., 1986, I, p. 127 ss.; Id., La causa nella teoria del contratto, in Studi sull’autonomia dei privati a cura di G.B. Ferri e C. Angelici, Torino, 1997, p. 101; in giurisprudenza, la tesi è stata recepita isolatamente da Pret. Salerno, 23 febbraio 1993, in Dir. e giur., 1995, p. 261, con nota di G. Di Giovine, Controllo giudiziale della causa e congruità delle prestazioni contrattuali. V., altresì, la tesi di M. Giorgianni, Causa (dir. priv.), in Enc. dir., VI, Milano, 1960, p. 564 ss., secondo il quale «nel nostro ordinamento la “funzione” del negozio assume frequentemente il ruolo di “causa”, ovverosia di “giustificazione” dello spostamento patrimoniale attuato col negozio stesso, ma riteniamo altresì che la “causa” vada ricercata talora al di fuori della “funzione” del negozio»; l’A. fa espresso riferimento alle c.dd. «prestazioni isolate»; per una critica sul punto, v., oltre, nel presente paragrafo. V., sul punto, la posizione assunta da L. Cariota Ferrara, Il negozio giuridico nel diritto privato italiano, Napoli, s.d., ma 1948, p. 552 ss., il quale parla di «funzione pratico-sociale del negozio riconosciuta (s’intende, in generale e preventivamente) dal diritto», con la precisazione che non si possa discorrere di funzione economico-sociale, «perché la causa è elemento che va aldilà del negozio di diritto patrimoniale».

36 Per l’identificazione della funzione negoziale nella «sintesi degli effetti essenziali, v. S. Pugliatti, Precisazioni in tema di causa del negozio giuridico, in Riv. Dir. Comm., I, 1947-1948, p. 13 ss. (ora in Id., Diritto civile. Metodo – Teoria – Pratica. Saggi, Milano, 1951, p. 105 ss., da cui le citazioni che seguono) il quale, in aperta contraddizione con le tesi di Betti (v. nota precedente), affermava la incongruità della «pretesa di attribuire ad elementi del mondo extragiuridico la funzione di determinare la tipica fisionomia degli schemi giuridici» (ivi, p. 114); la tesi è stata ulteriormente sostenuta in S. Pugliatti e A. Falzea, I fatti giuridici, Milano, rist., 1996, p. 111, ove si afferma che «la causa nella sua concreta determinazione risulta insieme costituita dalla funzione tipica descritta nella norma e dall’apporto soggettivo dell’agente, apporto consistente nella effettiva destinazione del negozio ai fini posti nella funzione tipica»; parla di «minima unità effettuale» R. Cicala, L’adempimento indiretto del debito altrui. Disposizione “novativa” del credito ed estinzione dell’obbligazione nella teoria del negozio, Napoli, 1968, p. 43 ss., spec. p. 48. Sembra aderire alla tesi anche G. Giacobbe, Frode alla legge, in Enc. dir., XVIII, Milano, 1969, p. 85 s. La ricostruzione pugliattiana della causa del negozio ha trovato la sua naturale evoluzione nelle tesi di P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale, cit., p. 242 ss.; per la manualistica, cfr. P. Perlingieri e A. Federico, in P. Perlingieri, Manuale di diritto civile, 7^ ed., Napoli, 2014, p. 485 ss.; v. pure G. Biscontini, Onerosità, corrispettività e qualificazione dei contratti. Il problema della donazione mista, Napoli, 1984, p. 42 e passim; A. Federico, Autonomia negoziale e discrezionalità amministrativa. Gli «accordi» tra privati e pubbliche amministrazioni, Napoli, 1999, pp. 118 ss. e 170 s.; cfr., pure, V. Scalisi, Negozio astratto, in Enc. dir., XXVIII, Milano, 1978, p. 87, secondo il quale la causa costituisce il parametro di commisurazione degli effetti negoziali.

37 Per una critica al postulato della meritevolezza in sé dell’autonomia privata, v. P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italo-comunitario delle fonti, Napoli, 2006, p. 334 ss.; v., pure, M. Nuzzo, Utilità sociale e autonomia privata, Milano, 1975, pp. 61 ss. e 92 ss. Cfr., anche, le riflessioni di E. Roppo, Il controllo sugli atti di autonomia privata, in Riv. crit. dir. priv., 1985, p. 485 ss.

38 Per un’attenta ricostruzione del ruolo svolto dal potere d’iniziativa privata nell’ambito della regolamentazione del rapporto e della conseguente necessità di annoverare l’autonomia privata tra le fonti, v. F. Criscuolo, L’autodisciplina. Autonomia privata e sistema delle fonti, Napoli, 2000, p. 47 ss. Per un approfondimento sull’incidenza delle fonti eteronome, v. A. Cataudella, Sul contenuto del contratto, Milano, 1966, p. 147 ss.; S. Rodotà, Le fonti di integrazione del contratto, Milano, 1969, p. 86 ss.; P. Barcellona, Intervento statale e autonomia privata nella disciplina dei rapporti economici, Milano, 1969, p. 260 ss

39 Quanto ai confini del giudizio di meritevolezza ex art. 1322 c.c., non può condividersi la tesi, pure autorevolmente sostenuta in dottrina, della sua applicabilità ai soli contratti atipici: cfr. F. Gazzoni, Atipicità del contratto, giuridicità dei negozi e funzionalizzazione degli interessi, in Riv. dir. civ., 1978, I, p. 53 ss.; M. Costanza, Meritevolezza degli interessi ed equilibrio contrattuale, in Contr. impr., 1987, p. 431; A. Gentili, Le invalidità, in Tratt. dei contratti Rescigno, I contratti in generale a cura di E. Gabrielli, II, Torino, 1999, p. 1337 ss. L’imprescindibilità del controllo di meritevolezza della causa degli atti giuridici, negoziali e non, in quanto anch’esso espressione di valori costituzionali, non consente la prospettazione di fattispecie negoziali per le quali si possa discorrere di ‘irrilevanza della causa’ ai fini della validità dell’atto. In tal senso, v. già E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, in Tratt. di dir. civ. Vassalli, Torino, 3ª ed., 1960, p. 247; più di recente, F. Lucarelli, Solidarietà e autonomia privata, Napoli, 1964, p. 229 ss.; M. Nuzzo, Utilità sociale e autonomia privata, cit., p. 94 ss. C. Donisi, Il problema dei negozi giuridici unilaterali, Napoli, 1972, p. 248 ss.; P. Rescigno, Contratto, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988, p. 18; A. Cataudella, Il richiamo all’ordine pubblico ed il controllo di meritevolezza come strumenti per l’incidenza della programmazione economica sull’autonomia privata, in Id., Scritti sui contratti, Padova, 1998, p. 69 ss.; P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale, cit., p. 334 ss.; T.V. Russo, I trasferimenti patrimoniali tra coniugi nella separazione e nel divorzio., cit., p. 117 ss.; Id., Il Project Financing, in Tratt. di dir. civ. CNN, Napoli, 2007, p. 141 ss.; F. Di Marzio, Il contratto immeritevole nell’epoca del postmoderno, in Aa.Vv., Illiceità, immeritevolezza, nullità. Aspetti problematici dell’invalidità contrattuale, Napoli, 2004, p. 143, il quale, tuttavia, ritiene che sia immeritevole quel contratto che, pur lecito e vincolante tra le parti, si riveli «abusivo rispetto ai terzi», richiamando, quale esempio, il contratto revocabile ex art. 2901 c.c.; v. altresì la posizione di G. Oppo, Diritto privato e interessi pubblici, in Riv. dir. civ., 1994, I, p. 29; contra, per l’identità dei giudizi, v. G. Gorla, Il contratto. Problemi fondamentali trattati con il metodo comparativo e casisistico, I, Lineamenti generali, Milano, 1955, p. 199; R. Sacco e G. De Nova, Il contratto, II, in Tratt. di dir. civ. Sacco, Torino, 1993, p. 447; U. Breccia, Causa, in Tratt. di dir. priv. Bessone, XIII, Il contratto in generale, III, Torino, 1999, p. 97; G.B. Ferri, Meritevolezza dell’interesse e utilità sociale, in Riv. dir. comm., 1971, II, p. 81 ss., ora in Id., Saggi di diritto civile, Rimini, 1996, p. 423; M. Gazzara, Considerazioni in tema di contratto atipico, giudizio di meritevolezza e norme imperative, in Riv. dir. priv., 2003, p. 66; v., pure, A. Guarneri, Meritevolezza dell’interesse e utilità sociale del contratto, in Riv. dir. civ., 1994, I, p. 814; Id., Meritevolezza dell’interesse, in Dig. disc. priv., Sez. civ., XI, Torino, 1994, p. 324, il quale propone una lettura abrogativa della norma sulla meritevolezza; la giurisprudenza meno recente tendeva a collocare il giudizio di meritevolezza in quello di liceità: cfr., ex multis, Cass., 6 giugno 1967, n. 1248, in Foro it., 1968, I, c. 1027; Cass., 9 ottobre 1991, n. 10612, in Giust. civ., 1991, I, p. 2895, con nota di F. Gazzoni, Babbo Natale e l’obbligo di dare; in senso diverso sembrano porsi le pronunce più recenti: v. Cass., 5 gennaio 1994, n. 75, in Rass. dir. civ., 1996, p. 185; Cass., 20 settembre 1995, n. 9975, in Giur. it., 1996, I, 1, c. 164 ss., con nota di G. Cottino, Anche la giurisprudenza canonizza i sindacati di voto?, ove si è dichiarato nullo, per mancata realizzazione di un interesse meritevole di tutela, un patto di sindacato limitativo del diritto di alienare le proprie quote; Cass., 19 febbraio 2000, n. 1898, ivi, con nota di F. Sbordone, Illiceità e immeritevolezza della causa nel recente orientamento della Cassazione; Cass., 2 novembre 2000, n. 14330, in Giust. civ., 2001, I, p. 1897, con nota di E. Contino, Contratti misti, contratti collegati e meritevolezza degli interessi; Cass., Sez. Un., 13 settembre 2005, n. 18128, in Corr. giur., 2005, p. 1534 ss., con nota di A. di Majo, La riduzione dela penale ex officio; v. già la datata pronuncia di App. Napoli, 24 gennaio 1945, in Foro it.Rep., 1943-45, voce Obbligazioni e contratti, n. 97; App. Bari, 15 aprile 1970, in Giur. mer., 1972, I, p. 310 ss., che ha precisato che la funzione di un contratto atipico deve essere, ≪non soltanto conforme ai precetti di legge, all’ordine pubblico, al buon costume, ma anche rispondente alla necessità che il fine intrinseco del contratto sia socialmente apprezzabile e come tale meritevole di tutela≫; App. Milano, 29 dicembre 1970, in Riv. dir. comm., 1971, II, p. 81 ss., con nota critica di G.B. Ferri, Meritevolezza dell’interesse e utilità sociale, cit.

40 Nel senso criticato, F. Galgano, La giurisprudenza nella società post-industriale, in Contr. impr., 1989, p. 363; Id., Diritto ed economia alle soglie del nuovo millennio, ivi, 2000, p. 202; in senso conforme, v. M. Bin, La circolazione internazionale dei modelli contrattuali, ivi, 1993, p. 478. In forte dissenso, condiviso da chi scrive, cfr., per tutti, P. Perlingieri, Il dirito civile nella legalità costituzionale, cit., p. 338 s. Parimenti condivisibile la riflessione di M. Costantino, Titolarità giuridica e appartenenza ecomomica: nozioni astratte e destinazioni specifiche per il trustee – I Parte, in Trusts, 2003, p. 22: «Tutto il diritto privato riposa su una formula che ha rilevanza pubblicistica: è l’ordinamento che seleziona gli interessi meritevoli di tutela, non il titolare. La lex mercatoria e l’ansia di lucrosi affari non hanno riconoscimento giuridico se non corrispondono a interessi ed esigenze meritevoli di tutela».

41 La tesi è stata avanzata da G. De Nova, The Law which governs this Agreement is the Law of the Republic of Italy”: il contratto alieno, in Dir. comm. int., 2007, p. 3 ss.; ora in Id., Il contratto. Dal contratto atipico al contratto alieno, Milano, 2011, p. 31 ss., il quale sostiene che «tra i contratti alieni troviamo in contratti atipici ex art. 1322 cod. civ., contratti cioè che non corrispondono ai tipi di contratto per i quali il diritto italiano non detta una disciplina particolare […] il fenomeno dei contratti alieni è più ampio, perchè tra di essi troviamo contratti che possono essere ricondotti a tipi per i quali il diritto italiano detta una disciplina particolare: ad esempio il sale and purchase agreement, che ha ad oggetto la cessione di partecipazioni sociali qualificate, può essere ricondotto alla vendita, il sale of business, può essere ricondoto alla cessione di azienda; il covenant not to compete può essere ricondotto al patto di non concorrenza»; l’alienità sarebbe insita nella circostanza che tali contratti «sono pensati, costruiti, scritti in funzione del diritto statunitense, ed ignorano il diritto italiano, anche quando esso prevede norme potenzialmente applicabili».

42 M. Capodanno, L’interpretazione del contratto, Padova, 2006, p. 343.; cfr. G. De Nova, o.u.c., p. 33, il quale scongiura l’idea di una «adozione cieca dei modelli contrattuali alieni. Al contrario, il giurista italiano deve mettere in agenda la voce “confronti critico, alla luce del diritto italiano, con i modelli contrattuali alieni”: nessuna “no action letter” deve essere consegnata a priori nelle mani del redattore del contratto alieno».

43 Per un approfondimento, v. R. Wilson, Islamic Banking in the United Kingdom, in La banca islamica e la disciplina bancaria europea a cura di Gimigliano e Rotondo, Milano, 2006, cit., p. 215 ss.; v., pure, M. Ainley, A. Mashayekhy, R. Hicks, A. Rahman, A. Ravalia, The Development of Islamic Finance in the UK, in Aa.Vv., Islamic Finance. A Guide for International Business and Investment, cit., p. 9 ss.

44 Tra queste la European Islamic Investment Bank, la Global Securities House, la European Finance House, la Gatehouse Bank, la Bank of London and the Middle East.

45 I Sukuk, in estrema sintesi, rappresentano un’emissione di certificati che incorporano la partecipazione alla titolarità di un asset sottostante in grado di generare profitti da distribuire secondo modalità Sharia’a compliant, sia con riferimento all’investimento che con riferimento alla natura del profitto. I Sukuk, pertanto, più che ai bonds e alle cartolarizzazioni, paiono ricondurre all’esperienza delle separazioni patrimoniali, sia pure con le significative differenziazioni con quelle note alla finanza convenzionale. Più in concreto i sukuk rappresentano i certificati rappresentativi della titolarità di un asset per un periodo definito di tempo, che attribuiscono il diritto proporzionato ad un profitto derivante dai flussi di cassa rivenienti dall’utilizzo di quell’asset e non già ad un interesse correlato all’importo dell’investimento. I sukuk non rappresentano un debito dell’emittente, ma una partecipazione proporzionale alla titolarità di un asset ma anche di un diritto di usufrutto, di progetti o attività di investimento, pur sempre Shari’a compliant. La differenza più rilevante tra sukuk e obbligazioni sta nella circostanza che le seconde rappresentano esclusivamente un debito dell’emittente, mentre i sukuk, non solo importano il rischio derivante dalla solvibilità dell’emittente, ma rappresentano altresì una partecipazione nella titolarità di un asset esistente o ‘well defined’, nonché di un progetto. Tale partecipazione al rischio di impresa (business risk) da parte dei sottoscrittori dei certificati caratterizza in maniera significativa i sukuk e ne segna la differenza più interessante rispetto alle operazioni di securitization proprie della finanza convenzionale. Per un approfondimento v. A.H. Khaleqe C.F. Richardson, New Horizons for Islamic Securities: Merging Trends in Sukuk Offerings, in Chicago Journale of Intrnational laq, 2007, 2, p. 409 ss.; S. Mokhtar, S. Rahman, H. Kamal e A. Thomas, Sukuk and the Capital Markets, in Sukuk a cura di Thomas, Petling Java, 2009, p. 17 ss.; F. Miglietta, I bond islamici alla conquista dei mercati. Opportunità, rischi e sfide dei sukuk, Milano, 2012; T.V. Russo, Finanza islamica, cit., p. 415 ss.

46 Il Murabahah, nato quale basilare contratto di scambio, è diventato lo schema maggiormente diffuso nella prassi contrattuale delle banche islamiche. Il termine fa riferimento, nella prassi, ad un contratto di compravendita o, più correttamente, ad un’operazione di doppia compravendita nella quale un soggetto acquista un bene, nell’interesse di un altro, per poi rivenderglielo maggiorato di un margine di profitto (mark-up). Si tratta, all’evidenza, di una struttura contrattuale facilmente adattabile ad un’operazione di finanziamento (non partecipativo), nella quale il soggetto che funge da agente o fornitore è, in realtà, il finanziatore, mentre l’acquirente finale è il soggetto finanziato laddove, nel sistema bancario convenzionale, si ricorre ad un contratto di mutuo con interessi che, come è noto, è proibito dal divieto di Riba. Il soggetto finanziato individua il bene che gli interessa (Muarabahah to the purchase order), la banca lo acquista ad un prezzo noto e successivamente lo rivende al primo ad un prezzo maggiorato (cost plus sale), giustificato dall’attività di intermediazione: il soggetto finanziato non rimborserà alla banca capitale più interessi, ma capitale più ‘commissioni’ giustificate dall’attività di intermediazione e dai rischi connessi. Per un approfondimento, v. A. Thomas e B. Kraty, The murabaha and simple sales transactions, in Structuring Islamic Finance Transactions a curadi Thomas, Cox e Kraty, London, 2005, p. 60 ss., spec. p. 69 ss.; T.V. Russo, Finanza islamica, cit., p. 408 ss.

47 Per un approfondimento, v. R. Hamaui e M. Mauri, Economia e finanza islamica, cit., p. 106 s., i quali rilevano come, nel sistema normativo inglese, senza mai citare direttamente le strutture contrattuali islamiche, si sia fatto in modo che il canone di un ijarah immobiliare, ovvero di un deminishing mushararakah, sia fiscalmente deducibile così come accade per gli interessi passivi di un mutuo.

48 In occasione del World Islamic Economic Forum, tenutosi a Londra nel mese di ottobre del 2013, il Primo Ministro David Cameron, dopo aver affermato che “I don’t just want London to be a great capital of Islamic finance in the Western world. I want London to stand along side Dubai and Kuala Lumpur as one of the great capitals of Islamic finance anywhere in the world”, ha annunciato l’imminente emissione di Sukuk governativi per un controvalore di 200 milioni di sterline e l’istituzione di un indice, presso il London Stock Exchange, destinato alla quotazione delle società che operano nel rispetto delle leggi coraniche; il testo integrale del discorso del Primo Ministro può leggersi in www.gov.uk/government/speeches/world-islamic-economic-forum-prime-ministers-speech

49 Il riconoscimento di un approccio Shari’a compliant agli investimenti in Europa è molto lento e sostanzialmente embrionale, fatta eccezione per la Gran Bretagna. La Francia, anche in considerazione del significativo numero di musulmani presenti sul territorio, appare essere la nazione continentale maggiormente attenta al fenomeno; di recente, l’Autorité des marchés financiers (AMF) ha iniziato ad occuparsi di fondi di investimento Shari’a compliant e della quotazione di Sukuk; la Bourse de Paris ha creato un segmento dedicato proprio ai Sukuk; dal punto di vista normativo sono stati emanati alcuni regolamenti finalizzati ad assicurare alle negoziazioni su base murabahah, sukuk, Ijarah e istisna’ il medesimo trattamento fiscale riservato alla finanza convenzionale. Nel 2010, il governo francese è intervenuto sulla normativa al fine di agevolare l’emissione di sukuk, eliminando la double stamp duty (doppia imposta di bollo), nonchè la tassa sul capital gain immobiliare. Nel 2011 si è aperta la prima Islamic window di una banca convenzionale e poco dopo è stato emesso il primo prodotto di home finance islamico su base decennale (murabahah contract). La Germania, come si è visto, è stato il primo paese occidentale ad emettere un Sukuk governativo ed è molto attiva, attraverso le sussidiarie inglesi e mediorientali di alcune tra le più rilevanti istituzioni finanziarie, nel mercato finanziario islamico. Nel 2009, l’Autorità di vigilanza bancaria ha accettato la richiesta di un istituto non tedesco di svolgere operazioni bancarie Shari’a compliant all’interno del territorio. Significativo è il recente interesse dell’Irlanda che è intervenuta preliminarmente sul trattamento fiscale delle operazioni correlate agli strumenti finanziari islamici. Il Lussemburgo, ovviamente, costituisce un punto di riferimento della finanza in europa; nel 2002 è stata la prima nazione europea a quotare Sukuk, ora presenti in qualche decina nel listino. In Spagna si è di recente siglato un protocollo di intesa tra il Dubai International Financial Center (DIFC) e il Madrid Centro Financiero (MCF) finalizzata allo sviluppo di iniziative comuni nel settore della finanza islamica e degli investimeni nei territori MEASA (Medio Oriente, Africa, Spagna e Asia). In Svizzera alcune banche offrono prodotti Shari’a compliant. Quanto al mondo extra-europeo, certamente il nordamerica costituisce un territorio nel quale la finanza islamica da tempo trova spazio adeguato. Già nel 1999 è stato istituito il Dow Jones Islamic Market Index destinato agli investitori interessati ad azioni di società operanti esclusivamente in un mercato rispettoso dei principi della Shari’a.

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