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Giurisprudenza

Conto corrente: nullità delle clausole contrattuali e azione di accertamento negativo promossa prima della chiusura del conto

15 Luglio 2015

Livia Franco

Tribunale di Torino, 2 luglio 2015, n. 4789

Di cosa si parla in questo articolo

Con la sentenza n. 4789 del 2 luglio 2015, il Tribunale di Torino ha riconosciuto il diritto del correntista allo storno delle annotazioni indebite (con il conseguente ricalcolo dei rapporti di dare-avere) anche prima della chiusura del rapporto di conto corrente.

Nel caso di specie, una s.r.l. unipersonale ha convenuto in giudizio l’istituto di credito presso il quale è titolare di un conto corrente (passato a sofferenza) al fine di fare accertare la nullità e l’inefficacia delle «condizioni generali di contratto relative alla determinazione degli interessi debitori (interessi “uso piazza” e ultralegali non pattuiti per iscritto)», della «capitalizzazione trimestrale degli interessi debitori», delle «c.m.s. applicate», degli «interessi usurari applicati». Per l’effetto, detta società ha chiesto la «ridetermina[zione] del saldo contabile del c/c e l’esatto dare-avere tra le parti, con eliminazione di interessi uso piazza, ultralegali, anatocistici e usurari, c.s.m. e differenze di valuta e la condanna della banca a corrispondere la differenza a credito», nonché la condanna della banca medesima al risarcimento del danno da illegittima segnalazione in Centrale rischi.

Prima di ogni altra cosa, il Tribunale ha affermato l’ammissibilità della domanda di ripetizione dell’indebito nel caso di conto corrente ancora aperto; rilevando che anche in questo caso il «cliente ha comunque titolo e interesse a proporre apposita di accertamento negativo». Si tratta di azione che è «intesa a ottenere», in via segnata, la dichiarazione di nullità di determinate clausole contrattuali, nonché l’accertamento delle somme addebitate dalla banca in base a clausole nulle (o comunque in difetto di una conforme previsione contrattuale) e, dunque, lo storno dell’annotazione indebita, con il conseguente ricalcolo dei rapporti di dare-avere.

In proposito, il Tribunale ha poi precisato come, sebbene tale azione di accertamento negativo converga – negli esiti pratici e negli elementi costitutivi – con l’azione ex art. 2033 c.c., soltanto quest’ultima esiga la prova dell’indebito, non meno che del relativo spostamento patrimoniale (: della c.d. rimessa solutoria). «Per contro, l’accertamento negativo non è subordinato all’esistenza, individuazione e prova di un pagamento ed è pertanto certamente proponibile ancorché il c/c sia ancora aperto». Ciò posto, ne deriva che «l’azione di accertamento negativo debba intendersi proposta e sia quindi decidibile nel merito, nonostante la mancata allegazione e prova di pagamenti, ogni qual volta il cliente, pur dichiarando di agire in ripetizione di indebito, abbia chiesto espressamente … l’accertamento della nullità delle clausole e delle somme indebitamente annotate e il relativo storno, con ricalcolo del dare-avere».

Nel caso di specie, il Tribunale ha dichiarato inammissibile l’eccezione di prescrizione «di tutte le rimesse annotate sul c/c anteriormente al decennio» svolta dall’istituto di credito, in ragione del fatto che – nonostante la mancata produzione del documento contrattuale dell’apertura di credito – il conto corrente in questione, «nel tratto coperto dagli estratti di conto versati in atti (…) e oggetto di ricostruzione da parte del C.T.U. (…) è sempre stato affidato». In effetti, ha rilevato il Tribunale, «se è vero che non si dà apertura di credito se non sussiste un obbligo dell’istituto di credito di mantenere una disponibilità di cassa a favore del cliente, ossia di eseguire operazioni (pagamento assegni, bonifici ecc.) su conto a debito, nondimeno tale obbligo può essere dimostrato non soltanto tramite un documento costitutivo, ma anche per il tramite di prove indirette (quali e/c, riassunti scalarti, report di Centrale Rischi ecc.) che implicano, in modo univoco, il riconoscimento da parte della banca dell’avvenuta concessione del fido».

E ciò, nonostante la prescrizione dell’art. 117, comma 3, T.U.B. (che prevede la forma scritta ad substantiam per la conclusione dei contratti bancari) e il disposto di cui all’art. 2725 c.c.; come è noto, infatti, «la nullità del contratto bancario amorfo – come in generale le nullità previste dalle norme di trasparenza del T.U. – è nullità c.d. unilaterale», che può essere fatta valere solo dal cliente (art. 127, comma 2, TUB). Ne deriva che, «se il cliente preferisce chiedere l’esecuzione del contratto bancario ancorché amorfo o in ogni caso non ne eccepisce la nullità ex art. 117», il giudice – in deroga al disposto di cui all’art. 1421 c.c. – non può rilevarla d’ufficio. Ciò nonostante, qualora il giudice rilevi un caso di nullità c.d. di protezione, prevista dalla normativa sulla trasparenza e operante a vantaggio del cliente, la medesima nullità dovrà, ai sensi dell’art. 127 TUB, rilevarsi d’ufficio.

Con riferimento alla prescrizione, dunque, il Tribunale ha concluso precisando che «la prova di fidi continuativi, unita all’assenza di prova di rimesse solutorie», implica – secondo i principi della Suprema Corte (n. 24418/2010) – che «la prescrizione dell’azione dell’indebito inizi a decorrere soltanto dalla chiusura del conto corrente (o dalla cessazione del fido)».

Ciò fermato, il Tribunale è passato a enunciare i principi cui deve attenersi, nel merito, il ricalcolo del (legittimo) dare-avere.

Quanto gli interessi ultra-legali, la pronuncia ha statuito che, in assenza di contratto scritto di accensione del conto corrente, occorre applicare, per il periodo antecedente all’entrata in vigore della normativa sulla legge bancaria, il tasso legale ex art. 1284 c.c. e, per il periodo successivo, il tasso sostitutivo di cui all’art. 117, comma 7, TUB (: tasso minimo BOT). Stante la natura sanzionatoria di tale norma – la cui ratio è, appunto, quella di sanzionare la banca che non indica i tassi o pattuisce interessi «uso piazza» o superiori a quelli pubblicizzati –, occorre qualificare come «operazioni attive» quelle di impiego (ossia a credito della banca e a debito del cliente) e come «operazioni passive» quelle di raccolta: alle prime si applicherà il tasso minimo BOT, alle seconde il tasso massimo.

La pronuncia ha poi dichiarato illegittima l’applicazione della commissione di massimo scoperto: sia perché non pattuita per iscritto, sia per mancata evidenza dei criteri di applicazione della commissione medesima.

In punto di capitalizzazione trimestrale degli interessi, il Tribunale ha anzitutto rilevato, in ragione dell’art. 1283 c.c., la non spettanza della capitalizzazione trimestrale (o annuale) degli interessi a favore della Banca fino al 30 giugno 2000. Quanto al periodo successivo all’entrata in vigore del (vecchio) art. 120 T.U.B., ha poi rilevato come l’introduzione, nel contratto di conto corrente, del meccanismo di capitalizzazione previsto da tale norma – e della conseguente deliberazione CICR del 9 febbraio 2000 – costituisca, rispetto a un rapporto bancario in cui al cliente non possono essere addebitati interessi su interessi, un obiettivo peggioramento delle condizioni contrattuali. Ne deriva, pertanto, la necessità che il cliente approvi specificamente per iscritto – mediante sottoscrizione ex art. 1341 c.c. – la clausola di capitalizzazione. A tal fine, non può ritenersi sufficiente la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della comunicazione della variazione.

Il Tribunale si è poi soffermato sull’eccezione, svolta dall’istituto di credito convenuto, di soluti retentio (ex art. 2034 c.c.). A tale proposito, ha rilevato come la banca non possa «ritenersi autorizzata a trattenere le somme indebitamente percepite». Si tratta di ipotesi, infatti, che difetta di entrambi i requisiti della fattispecie dell’obbligazione naturale, ossia dello spontaneo adempimento in conformità ai doveri morali e sociali. Da un lato, in quanto «non sussiste spontaneità nell’adempimento perché gli interessi (…) sono stati addebitati dalla banca sul c/c del cliente e pagati attingendo alle disponibilità di conto presenti e/o alle successive rimesse»: senza alcun atto dispositivo, volontario e consapevole proveniente dal cliente stesso. Dall’altro, in quanto la legge morale e i costumi sociali vigenti non imprimono il marchio della doverosità al pagamento, in un rapporto commerciale tra banca e cliente, di interessi non dovuti secondo la legge civile.

Il Tribunale si è infine pronunciato sulla domanda – formulata dalla Società attrice – di risarcimento in via equitativa del danno da illegittima segnalazione in Centrale Rischi, che ha ritenuto manifestamente infondata. Anzitutto, perché l’attrice non fornito «alcun elemento fattuale idoneo a comprovare l’esistenza di un eventus damni derivante dalla segnalazione a sofferenza»: il fatto «che l’attrice abbia chiesto la liquidazione secondo equità non vale a esonerarla dall’onere di allegare e fornire prova degli specifici pregiudizi, avendo tale richiesta il limitato effetto di liberare l’avente diritto dall’onere di provare esattamente il quantum di danno risarcibile». Di poi, perché non è «credibile», ove non provato, il pregiudizio derivante dalla segnalazione in Centrale Rischi di un soggetto che, al momento della contestata segnalazione, è già da tempo segnalato a sofferenza da parte di altri istituti di credito e/o risulta in situazione di extrafido con distinti istituti di credito.

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