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Dossier

Concorso del professionista in sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte tramite costituzione di un trust

17 Marzo 2016

Guglielmo Giordanengo

La sentenza recente della Cassazione Pen., sez. 3, n. 6798 del 16 dicembre 2015, emessa in sede cautelare reale, ripropone alcune tematiche di notevole rilievo in merito alla fattispecie di cui all’art. 11 d. lgs. 74/2000 (“Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte”), nonché alla possibilità di concorso ex art. 110 c.p. del professionista nella realizzazione della medesima.

Oggetto della contestazione è una complessa operazione che trova il suo acme nella cessione di un immobile e costituzione di un trust, operazione che sarebbe finalizzata, in ipotesi di accusa, a depauperare il patrimonio di una società al fine di impedire la riscossione coattiva avviata da Equitalia per un credito fiscale da evasione di imposte dirette. L’attività concorsuale contestata al professionista consisterebbe proprio nell’avere dolosamente ideato tale operazione, con la specifica finalità di favorire il depauperamento patrimoniale preordinato alla diminuzione della garanzia patrimoniale generica di detto credito erariale.

In buona sostanza, e più in generale, il concorso del professionista nel fatto di reato posto in essere dal proprio cliente si basa su due insuperabili capisaldi: la partecipazione attiva del professionista stesso nell’ideazione (più spesso) ovvero esecuzione dell’operazione ipotizzata come criminosa e la consapevolezza di tale specifica finalizzazione, alla quale, anzi, il professionista presta le proprie conoscenze tecniche onde agevolarla.

La prova del concorso sarebbe da ricercare, nel caso di specie, in alcuni files estratti dal personal computer dell’indagato in sede di verifica fiscale dalla Guardia di Finanza, nonché in un’intercettazione telefonica, attinente il ruolo specifico dell’indagato stesso nella strategia inerente lo scopo delittuoso in questione.

Quanto all’oggettività della fattispecie, la Corte afferma due importanti principi: in prima battuta, si tratta di reato di pericolo, eventualmente permanente, come tale integrato anche quando, come nel caso di specie, il trust non abbia ricevuto conferimenti. “La stessa costituzione del trust è atto che di per sé mette in pericolo la garanzia patrimoniale del credito fiscale, potendo in qualsiasi momento essere ceduto ad esso e quindi segregato un valore economico rientrante nel patrimonio della … ed essendo d’altro canto proprio questa la finalità per la quale, espressamente, il trust è stato costituito”. Tale intenzione, che costituisce peraltro il dolo concorrenziale ascritto al professionista, risulterebbe, come già accennato, i) dalle premesse dell’atto costitutivo del trust, ii) dai files reperiti sul personal computer dell’indagato, nonché iii) da una conversazione telefonica intercettata.

In seconda battuta, “nella struttura ontologica del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, l’idoneità delle condotte è riferita all’inefficacia della esecuzione esattoriale sia in tutto, sia in parte. Il che appunto sta a significare che anche una non totale diminuzione della garanzia patrimoniale generica offerta dal patrimonio del debitore fiscale deve pacificamente considerarsi condotta penalmente rilevante nell’ambito di questo titolo di reato”. Tale principio viene statuito dalla Corte al fine di neutralizzare l’argomentazione difensiva circa la capienza, dimostrata mediante una consulenza tecnica, del patrimonio residuo della società rispetto alle pretese del riscossore.

Interessante anche la questione circa l’utilizzabilità in sede penale dei files estratti dal personal computer del professionista nel corso della verifica ispettiva della Guardia di Finanza, possibilità che la Suprema Corte concede, rigettando uno dei motivi di ricorso della difesa.

La sentenza si occupa, poi, di altre due questioni di assoluto rilievo.

La prima concerne l’esatta quantificazione del profitto sequestrabile in relazione alla fattispecie in analisi. Contrariamente a quanto affermato dal Tribunale del Riesame, che quantificava tale profitto nell’ammontare dell’imposta evasa, la Corte, aderendo ad un recente orientamento (Cass. Pen., sez. 3, n. 10214 del 22.1.2015), statuisce che esso va individuato “nel valore dei beni sottratti all’esecuzione fiscale, essendo questo più propriamente l’oggetto della condotta incriminata, la cui ratio è pacificamente la tutela della garanzia generica del credito tributario e non il credito in quanto tale”.

La seconda concerne la delicata tematica dei presupposti necessari ai fini dell’esperibilità del sequestro c.d. “per equivalente”. La Suprema Corte aderisce ad un orientamento, che trova la sua massima espressione in SS. UU., n. 10561 del 30 gennaio 2014 (ric. Gubert), secondo il quale “il sequestro finalizzato alla confisca per equivalente è legittimo solo quando il reperimento dei beni costituenti il profitto del reato sia impossibile, sia pure transitoriamente, ovvero quando gli stessi non siano aggredibili per qualunque ragione”. Tale principio, se correttamente applicato al caso che stiamo analizzando, avrebbe dovuto portare i Giudici di merito a verificare attentamente la possibilità di una confisca diretta del profitto del reato tributario presso la società debitrice fiscale ovvero presso chiunque tale profitto detenesse, anche per effetto della trasformazione del denaro in beni materiali ovvero immateriali. 


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