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Approfondimenti

Ai confini della liceità: le nuove frontiere dell’abuso del diritto

12 Novembre 2015

Avv. Giancarlo Marzo, Partner, Dott.ssa Olga Palma, Collaboratrice, Loconte & Partners

1. Premessa

Prima della recente riforma (Legge delega n. 23 del 2014), la mancata positivizzazione di una puntuale definizione di abuso del diritto rendeva i contorni di tale pratica spesso sfumati ed incerti. Da diversi anni, sono state evidenziate le dimensioni critiche di questo fenomeno, rilevando come esso derivasse dalle lacune dell’ordinamento tributario che davano spazio ad una vera e propria evasione legalizzata.

Le più antiche formulazioni della locuzione “abuso del diritto” si rinvengono nella giurisprudenza francese ottocentesca, sebbene alcuni autori ne facciano derivare l’esistenza dal diritto romano. Numerosi Paesi europei  – come ad esempio, la Germania, la Spagna, la Grecia, il Portogallo e l’Olanda – hanno da molto tempo formulato una definizione di abuso del diritto, introducendola prontamente all’interno dei propri codici civili. Mentre la prima norma antielusiva italiana risale a poco più di vent’anni fa (Legge n. 408 del 1990), è stata ispirata dalla direttiva CEE n. 434 del 1990 ed ha introdotto nel nostro ordinamento il concetto di “valide ragioni economiche”.

2. Nuova disciplina alla luce della recente riforma

La Legge 11 marzo 2014, n. 23 (d’ora in poi “legge delega”) ha delegato il Governo ad attuare una revisione delle precedenti norme antielusive, alla luce dei princìpi contenuti nella raccomandazione della Commissione Europea n. 772 del 6 dicembre 2012 sulla pianificazione fiscale aggressiva (2012/772/UE), con la quale gli Stati membri sono stati incoraggiati ad adottare una sorta di Generalklausel alla tedesca, ossia ad inserire nella legislazione interna una norma generale che rendesse inopponibili all’Amministrazione finanziaria le fattispecie abusive.

In attuazione delle linee programmatiche contenute nell’art. 5 della legge delega, lo scorso 5 agosto 2015, è stato emanato il d.lgs. n. 128, rubricato “Disposizioni sulla certezza del diritto nei rapporti tra fisco e contribuente, in attuazione degli articoli 5, 6 e 8, comma 2, della legge 11 marzo 2014, n. 23” che, all’art. 1 ha positivizzato il concetto di abuso del diritto dell’ordinamento tributario.

In particolare, l’art. 1 del richiamato decreto legislativo, recante “Modificazioni allo Statuto dei diritti del contribuente”, ha espressamente abrogato l’art. 37-bis d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (breviter, “d.P.R. n. 600 del 1973”) e inserito nella legge 27 luglio 2000, n. 212 (cd. Statuto dei diritti del contribuente) il nuovo art. 10-bis[1] con il quale,in ottemperanza alla normativa comunitaria è stata approntata una disciplina unitaria degli istituti dell’abuso del diritto e dell’elusione fiscale che, nonostante l’entrata in vigore del decreto a far data dal 1° ottobre 2015, è stata dotata dal legislatore di efficacia retroattiva.

L’inserimento della disposizione nello Statuto dei diritti del contribuente si spiega con la volontà del legislatore di imprimere a tale norma la forza di principio generale, sovraordinato rispetto alle regole stabilite per i singoli tributi. Ai sensi del nuovo primo comma dell’art. 10-bis, l’abuso del diritto si configura quando vengono poste in essere “una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti”.

Mentre per operazioni prive di sostanza economica si intendono “i fatti, gli atti e i contratti, anche tra loro collegati,  inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali”, per vantaggi fiscali indebiti si intende far riferimento a quelli perseguiti non rispettando la ratio delle norme fiscali o i principi dell’ordinamento tributario (v. art. 10-bis, comma secondo)[2].

Dando attuazione a quanto  previsto dall’art. 5, comma 1, lettera b), n. 2) della legge delega, è stato espressamente specificato al terzo comma dell’art. 10-bis, che non si considerano abusive quelle operazioni aventi “valide ragioni extrafiscali, non marginali, anche di ordine organizzativo o gestionale, che rispondono a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa ovvero dell’attività professionale del contribuente”. Con tale previsione, dunque, è stato positivizzato nei fatti il principio, già affermato dalla giurisprudenza tributaria di legittimità, secondo il quale il carattere abusivo di una condotta deve essere escluso anche se le ragioni extrafiscali non si ravvisano in una redditività immediata (Cass., sent.  21 gennaio 2011, n. 1372). L’onere di provare il disegno abusivo, come espressamente specificato, incombe sull’Amministrazione finanziaria, che deve dimostrare in che modo il soggetto abbia manipolato ed alterato gli strumenti giuridici a sua disposizione, utilizzandoli in maniera non conforme alla normale logica del mercato. Al contribuente, di contro, spetterà l’onere di giustificare le operazioni esercitate, dimostrando l’esistenza di valide ragioni extrafiscali (art. 10-bis, nono comma). Inoltre, superando l’opinabile concetto espresso dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione nelle sentenze n. 30055, 30056 e 30057 del 23 dicembre 2008, è stato espressamente precisato che la condotta abusiva  non è rilevabile d’ufficio.

Per evitare possibili fraintendimenti e per una corretta individuazione del concetto di “legittimo risparmio d’imposta”, il legislatore tributario si è premurato di specificare  che ogni contribuente è libero di optare tra i diversi regimi offerti dalla legge e “tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale”, ribadendo, in maniera forse ridondante e tutto sommato pleonastica, la liceità di eventuali condotte non elusive (art. 10-bis, quarto comma). Ferma restando, in ogni caso, la possibilità, riconosciuta dal primo comma 1, lett. c), dell’art. 11 dello Statuto dei diritti del contribuente,di adire l’Amministrazione Finanziaria per conoscere se una determinata operazione presenti profili abusivi.Al riguardo, è necessario che la richiesta avvenga prima che siano scaduti i termini previsti per la dichiarazione oppure “per l’assolvimento di altri obblighi tributari connessi alla fattispecie cui si riferisce l’istanza medesima” (art. 10-bis, quinto comma).

Recependo una serie di principi di diritto già consolidatisi in giurisprudenza, è stato espressamente previsto che le contestazioni di abuso del diritto devono essere accertate dall’Amministrazione finanziaria con apposito atto che, a pena di nullità, deve essere preceduto dalla notifica al contribuente di una richiesta di chiarimenti da fornire entro il termine di sessanta giorni (art. 10-bis, sesto comma)[3]. La richiesta di chiarimenti deve essere notificata, ai sensi dell’art. 60 del d.P.R. n. 600 del 1973, entro il termine di decadenza previsto per la notificazione dell’atto impositivo. Nel caso in cui i chiarimenti del contribuente pervengano all’Ufficio a meno di sessanta giorni dal termine di decadenza dall’esercizio del proprio potere accertativo, tale termine viene prorogato fino alla concorrenza dei sessanta giorni (v. art. 10-bis, settimo comma).

Il comma 8 dell’art. 10-bis detta il contenuto formale a cui l’Amministrazione finanziaria deve attenersi nell’emettere l’atto impositivo, prevedendo che lo stesso debba essere motivato, a pena di nullità, in relazione alla condotta abusiva che si assume esser stata posta in essere ed alla luce degli eventuali chiarimenti inviati in risposta dal contribuente.

In caso di ricorso da parte del contribuente, i tributi o i maggiori tributi accertati in applicazione della disciplina dell’abuso del diritto, unitamente ai relativi interessi, sono iscritti a ruolo secondo i criteri espressamente previsti dall’art. 68 del d.lgs 31 dicembre 1992, n. 546 e dall’art. 19, comma 1, del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 (art. 10-bis, decimo comma).

Il successivo comma undicesimo, riproponendo princìpi e regole dettati dall’abrogato art. 37-bis del d.P.R. n. 600 del 1973, disciplina i diritti dei soggetti diversi da quelli coinvolti dall’applicazione delle disposizioni antiabuso, consentendo loro di chiedere la restituzione delle spese sostenute relativamente al compimento delle operazioni abusive. A tal fine, è necessario che essi presentino apposita istanza all’Agenzia delle Entrate entro un anno dal momento in cui l’accertamento è divenuto definitivo, oppure, dal giorno in cui è stato definito mediante adesione o conciliazione giudiziale.

La contestazione di una fattispecie in termini di abuso del diritto è possibile solo in via residuale, allorchè la stessa non integri la violazione di  specifiche norme tributarie che porterebbero al disconoscimento dei relativi vantaggi fiscali (art. 10-bis, dodicesimo comma). L’abuso, infatti, “postula l'assenza di tratti riconducibili ai paradigmi, penalmente rilevanti, della simulazione, della falsità o, più in generale, della fraudolenza” (Cass., sent. 1 ottobre 2015, n. 40272).  

L’ultimo comma dell’art. 10-bis, proprio in tale ottica, esclude l’applicabilità alle operazioni abusive delle leggi penali tributarie. Tali operazioni, infatti, possono dar luogo, esclusivamente, alla mera applicazione di “sanzioni amministrative tributarie”[4].

Il terzo comma dell’art. 1 del d.lgs. n. 128 del 2015, infine, prevede che il contribuente possa presentare interpello disapplicativo, spiegando per quale motivo ritiene che le disposizioni normative non siano applicabili al proprio caso particolare (Regolamento del Ministro delle finanze 19 giugno 1998, n. 259).

3. Disciplina vigente in materia doganale

Come espressamente specificato dall’art. 1, comma 4, d.lgs. 5 agosto, n. 128, i commi da 5 a 11 dell’art. 10-bis della legge n. 212 del 2000, non si applicano agli accertamenti e ai controlli aventi ad oggetto i diritti doganali, come individuati dall’art. 34, d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, che continuano ad essere disciplinati dagli artt. 8 e 11 del d.lgs. 8 novembre 1990, n. 374[5], e successive modificazioni, sia dalla normativa ad hoc prevista in ambito Ue[6].

Come noto, con l’attuazione del mercato unico europeo e la caduta delle barriere doganali si era già assistito a un’armonizzazione delle normative interne a ciascuno Stato membro, culminata nell’elaborazione del cd. Codice doganale comunitario, approvato con Reg. Cee n.2913/92, a cui si affianca il relativo Regolamento di attuazione (Reg. Cee n.2454/93).

Con tali Regolamenti, infatti,era già previsto, in ambito doganale, il diritto di interpello, ossia la facoltà per l’interessato di richiedere all’autorità doganale decisioni ed informazioni in ordine agli istituti disciplinati dalla normativa dell’Unione Europea. Inoltre, in base a quanto disposto anche in passato dall’art. 11, comma 4-bis, d.lgs. n. 374 del 1990, l’Autorità doganale, prima di emanare l’atto accertativo, deve assegnare all’operatore un termine di 30 giorni affinchè possa comunicare all’ufficio osservazioni e richieste.[7].

4. Conclusioni

L’intervento operato dal legislatore tributario con il d.lgs. n. 128 del 2015, a parere degli scriventi, ha migliorato lo  status quo ante. La positivizzazione di una definizione generale di abuso del diritto, l’esclusione della sua rilevanza penale, l’introduzione di un obbligo di contraddittorio preventivo prodromico alla contestazione di un’ipotesi abusiva, l’esclusione della sua rilevabilità d’ufficio e la previsione di specifici oneri probatori in capo all’Amministrazione finanziaria, hanno impresso un carattere di certezza all’ordinamento tributario.

D’altro canto, considerato che il divieto di abuso del diritto costituisce un principio immanente all’ordinamento tributario, appare opinabile la previsione contenuta nell’art. 5 del d.lgs. n. 128 del 2015, con la quale è stata esclusa l’applicabilità della novella normativa agli avvisi di accertamento notificati alla data di entrata  in vigore del decreto stesso.



[1] Per ragioni di coordinamento, inoltre, è stato previsto  che ogni richiamo all’art. 37-bis si debba intendere riferito al nuovo art. 10-bis ( art. 2, d.lgs. 2 settembre 2015, n. 128).

[2] L’essenzialità di questo fine, del resto era già stata proclamata nella sentenza Halifax (causa C-255/02, depositata il 21 febbraio 2006), con la quale la Corte di Giustizia Ue aveva sancito che “perché possa parlarsi di un comportamento abusivo, le operazioni controverse devono, nonostante l’applicazione formale delle pertinenti disposizioni della sesta direttiva e della legislazione nazionale, procurare un vantaggio fiscale la cui concessione sarebbe contraria all’obiettivo perseguito da queste stesse disposizioni”.

[3] L’accertamento in tal modo operato non implica, tuttavia, “il pregiudizio di un’ulteriore azione accertatrice” nei termini stabiliti per i singoli tributi coinvolti nella medesima indagine.

[4] Risulta dunque evidente la portata innovativa della Riforma, considerato che lagiurisprudenza antecedente era orientata verso il riconoscimento della rilevanza penale dei comportamenti abusivi, tassativamente dettati dal terzo comma dell’art. 37-bis del d.P.R. n. 600 del 1973. La Corte di Cassazione aveva avuto modo di affermare in diverse sentenze la compatibilità tra abuso del diritto e reato (Cass., sent. 28 febbraio 2012, n. 7739).

[5] Rubricato “Riordinamento degli istituti doganali e revisione delle procedure di accertamento e controllo in attuazione delle direttive n. 79/695/CEE del 24 luglio 1979 e n. 82/57/CEE del 17 dicembre 1981, in tema di procedure di immissione in libera pratica delle merci, e delle direttive n. 81/177/CEE del 24 febbraio 1981 e n. 82/347/CEE del 23 aprile 1982, in tema di procedure di esportazione delle merci comunitarie”.

[6] V. Agenzia delle Dogane,  nota n. 96267/RU.

[7] All’uopo, la Corte di Cassazione ha affermato che l’atto accertativo emesso prima del decorso del termine di sessanta giorni, che diventano trenta in materia doganale, è illegittimo (Cass., Sent. 28 maggio 2015, n. 11088).

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