Muovendo da una recente ordinanza cautelare del Tribunale di Venezia, il contributo analizza l’attuale conformazione dell’art. 96 c.p.c., come risultante dalle modifiche introdotte dal d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149 e dalla successiva normativa correttiva del d. lgs. 31 ottobre 2024, n. 164, con particolare riguardo alla funzione sanzionatoria dell’istituto e al contrasto del c.d. abuso del processo. L’indagine si sofferma, in particolare, sull’applicazione della responsabilità aggravata nel giudizio cautelare e propone alcuni spunti operativi per la difesa tecnica.
1. La vicenda esaminata dal Tribunale di Venezia
Con una recente ordinanza resa in sede cautelare d’urgenza ex art. 700 c.p.c., la Sezione Specializzata in materia di Impresa del Tribunale di Venezia ha affrontato il tema dell’abuso dello strumento cautelare in relazione ad una domanda volta ad inibire l’escussione di una garanzia autonoma a prima richiesta prestata in occasione di una cessione di partecipazioni sociali[1].
In sintesi, avvisati dalla banca garante circa il tentativo di escutere la garanzia da parte del cessionario delle azioni, i vecchi titolari avevano agito in via urgente per paralizzarne il pagamento.
Nel proprio ricorso i ricorrenti avevano affermato, tra l’altro, di non aver ricevuto alcuna preventiva contestazione o diffida in ordine al dedotto inadempimento contrattuale, valorizzando tale circostanza quale indice di arbitrarietà dell’escussione della garanzia. In esito all’instaurazione del contraddittorio, la resistente produceva, tuttavia, una comunicazione a mezzo PEC, inviata pochi giorni prima del deposito del ricorso, contenente puntuali contestazioni in ordine all’asserita violazione del patto di non concorrenza accluso all’atto di cessione di partecipazioni, comunicazione della quale il ricorso cautelare non recava traccia.
Ritenuta non credibile – o comunque gravemente colposa – la giustificazione addotta dai ricorrenti circa la mancata considerazione della diffida ricevuta e valorizzata l’ulteriore circostanza dell’ostinata coltivazione dell’istanza nonostante la smentita del presupposto fattuale posto a fondamento del ricorso, il Tribunale, udite le parti, ha quindi revocato il decreto concesso inaudita altera parte in favore dei ricorrenti e rigettato la domanda cautelare, condannandoli, oltre che alle spese, al pagamento di una somma in favore della controparte ex art. 96, comma 3, c.p.c. e alla sanzione pecuniaria in favore della Cassa delle ammende prevista dal nuovo comma 4 (introdotto con la c.d. riforma Cartabia del 2022), qualificando la condotta come abuso del processo.
2. Struttura e contenuto dell’art. 96 c.p.c.
L’art. 96 c.p.c., nella sua formulazione vigente, disciplina la responsabilità aggravata della parte che abbia abusato dello strumento processuale, secondo una scansione quadripartita che coniuga profili risarcitori e profili sanzionatori.
Il primo comma contempla l’ipotesi tradizionale della c.d. lite temeraria, in cui la parte soccombente abbia agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave: in tal caso, su istanza di parte, il giudice la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, liquidabili anche in via equitativa, ferma la necessità di una sufficiente allegazione del pregiudizio risentito.
Il secondo comma prende in considerazione l’utilizzo di strumenti particolarmente invasivi e incisivi (provvedimenti cautelari, trascrizione della domanda giudiziale, iscrizione di ipoteca giudiziale, esecuzione forzata), prevedendo la condanna dell’attore o del creditore procedente che vi abbia fatto ricorso “senza la normale prudenza” allorché sia accertata l’inesistenza del diritto azionato. Il parametro della ‘normale prudenza’ implica un giudizio preventivo sulla ragionevolezza dell’iniziativa processuale, avuto riguardo al quadro fattuale e giuridico conoscibile al momento dell’azione.
Il terzo comma, frutto dell’intervento della l. 18 giugno 2009, n. 69, introduce una fattispecie connotata in termini eminentemente sanzionatori: esso dispone, infatti, che “in ogni caso” il giudice, quando pronuncia sulle spese, , anche d’ufficio, possa condannare la parte soccombente al pagamento, in favore della controparte, di una somma equitativamente determinata. La giurisprudenza di merito ha messo in rilievo come tale somma assolva una funzione deflattiva e di contrasto all’abuso del processo, collocandosi oltre la logica meramente compensativa delle spese di lite[2].
Il quarto comma, introdotto dalla recente c.d. riforma Cartabia[3], prevede, infine, che in tutti i casi suddetti (cioè, quando vi sia condanna per responsabilità aggravata ai sensi dei tre commi precedenti) il giudice condanni, altresì, la parte (scil. soccombente) al pagamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma di denaro compresa tra euro 500 ed euro 5.000, riconoscendo espressamente l’Amministrazione della giustizia quale soggetto leso dall’impiego delle risorse processuali distorto per effetto dell’abuso. Tale condanna non è conseguenza automatica della soccombenza, ma presuppone pur sempre la ricorrenza dei presupposti della responsabilità aggravata (mala fede, colpa grave o abuso del processo).
3. Ratio e natura dell’istituto
Le pronunce dei tribunali di merito hanno valorizzato, con accenti in parte differenti, la natura ibrida e non meramente risarcitoria dell’art. 96 c.p.c., evidenziando come il terzo comma, in particolare, si discosti dallo schema tipico dell’illecito aquiliano, avvicinandosi alle cc.dd. condanne punitive[4].
Così, ad esempio, il Tribunale di Napoli ha sottolineato che la previsione di cui al comma 3 configura una fattispecie a carattere sanzionatorio, dettata nell’interesse pubblico alla repressione dell’abuso del processo e delle condotte processuali che violano le regole del giusto processo e della sua ragionevole durata, con finalità di deflazione del contenzioso e di tutela della funzionalità del sistema giustizia[5]. In analoga prospettiva, il Tribunale di Varese ha evidenziato che l’abuso del processo cagiona un danno indiretto all’erario e un danno diretto alla parte vittoriosa, sicché la condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c. assume connotati tipicamente punitivi, oltre che compensativi[6].
La riforma Cartabia, lungi dal modificare i presupposti applicativi dell’istituto, ha dunque rafforzato la dimensione pubblicistica della responsabilità aggravata, affiancando alla condanna in favore della parte anche una sanzione pecuniaria a favore della Cassa delle ammende, concepita quale ristoro dell’inutile impiego di risorse pubbliche determinato dal contenzioso temerario.
4. L’applicazione dell’art. 96 c.p.c. nel procedimento cautelare
La giurisprudenza ha da tempo riconosciuto la piena applicabilità dell’art. 96, comma 3, c.p.c. anche ai procedimenti cautelari, confermando quindi che la condanna può essere adottata, anche d’ufficio, nei confronti della parte che abbia agito con mala fede.
Un ulteriore sviluppo si rinviene in un’ordinanza del Tribunale di Milano, Sezione Specializzata in materia di Impresa, relativa a domande inibitorie in materia di marchi[7]. In tale sede il giudice ha dichiarato inammissibile il ricorso cautelare proposto avanti al Tribunale di Milano sul rilievo che la ricorrente aveva già preventivamente proposto identica domanda cautelare – fondata sul medesimo petitum e sulla medesima causa petendi – dinanzi al Tribunale di Torino, dove la stessa era stata rigettata nel merito con ordinanza del 10 febbraio 2016, in pendenza di reclamo.
Il Tribunale ambrosiano ha ritenuto che la riproposizione dell’istanza davanti ad un giudice diverso da quello della fase di reclamo, integri un abusivo esercizio dello strumento processuale, volto, in definitiva, a duplicare il contenzioso cautelare e ad incrementare le probabilità di ottenimento di un provvedimento favorevole (fenomeno riconducibile al c.d. forum shopping), e ha conseguentemente condannato la ricorrente, ai sensi dell’art. 96, comma 3, c.p.c., al pagamento di una somma in favore della controparte, oltre alle spese di lite.
Di segno in parte diverso è una decisione resa dalla Corte di appello di Milano solo pochi anni prima[8]. In tale occasione, la Corte, chiamata a pronunciarsi sulla domanda di risarcimento ex art. 96, comma 2, c.p.c. per i danni derivanti dall’esecuzione di un provvedimento cautelare poi riformato, ha escluso la sussistenza della responsabilità aggravata sul rilievo che non risultava dimostrato che la parte istante fosse consapevole, o colpevolmente ignara, dell’infondatezza della propria pretesa; la “normale prudenza”, secondo il Collegio, va rapportata non alla mera instabilità fisiologica del provvedimento cautelare, ma al probabile esito del reclamo, alla luce delle circostanze obiettivamente disponibili al momento dell’azione.
Tali arresti, letti congiuntamente all’ordinanza del Tribunale di Venezia del 16 maggio 2025 citata nel par. 1, confermano come il giudizio cautelare costituisca terreno privilegiato per l’emersione di condotte abusive, in ragione della rilevanza degli effetti anticipatori e, spesso, della possibile adozione di provvedimenti inaudita altera parte.
5. Indici sintomatici dell’abuso del processo cautelare
Dalla casistica esaminata possono ricavarsi alcuni indici sintomatici dell’abuso del processo, idonei a giustificare l’applicazione dell’art. 96 c.p.c. in sede cautelare:
- reticenza o incompletezza consapevole delle allegazioni: rientra in tale categoria l’omessa indicazione di diffide o contestazioni pregresse, nonché di procedimenti paralleli aventi ad oggetto il medesimo rapporto sostanziale, la cui conoscenza risulti determinante ai fini della valutazione del fumus boni iuris e del periculum in mora;
- duplicazione ingiustificata delle iniziative: è sintomo di abuso la riproposizione di identiche domande cautelari avanti a giudici diversi, in pendenza di provvedimenti sfavorevoli e dei relativi mezzi di impugnazione, al di fuori delle ipotesi disciplinate dall’art. 669 septies c.p.c., con l’evidente finalità di eludere gli esiti del primo giudizio;
- persistenza irragionevole nella coltivazione dell’istanza: integra profilo rilevante ai fini dell’art. 96, comma 3, c.p.c. la scelta di non abbandonare il ricorso nonostante l’emersione, nel corso del contraddittorio, di elementi documentali idonei a smentire i presupposti di fatto della domanda, specie quando tali elementi siano riconducibili alla sfera di conoscibilità della parte ricorrente sin dall’origine.
Sul piano soggettivo, la giurisprudenza di merito ha costantemente affermato che non può essere oggetto di sanzione la mera soccombenza, trattandosi di evenienza fisiologica della lite: ai fini della condanna è richiesta una condotta connotata da dolo, colpa grave ovvero – quanto meno per il terzo comma – da colpa comunque rimproverabile alla luce del canone di lealtà processuale. Tale impostazione, oltre a porsi in linea con le esigenze di conformità costituzionale dell’istituto, consente di evitare che l’art. 96 c.p.c. si trasformi in un improprio strumento di dissuasione dall’esercizio del diritto di azione e di difesa, garantito dall’art. 24 Cost.
6. Considerazioni operative per la difesa in sede cautelare
Alla luce dell’orientamento giurisprudenziale richiamato, per limitare il rischio di condanne ex art. 96 c.p.c. è opportuno che la parte, nella predisposizione di un ricorso cautelare, proceda ad una ricognizione completa del quadro fattuale, così da evitare omissioni suscettibili di essere qualificate come reticenti.
Solo garantendo una rappresentazione leale e completa della vicenda al giudice, ancor più in presenza di richieste inaudita altera parte, dando conto anche degli elementi potenzialmente sfavorevoli e illustrando le ragioni per cui, nonostante ciò, fumus e periculum devono ritenersi sussistenti, è possibile evitare il rischio venire condannati al pagamento di una somma in favore della controparte, e addirittura di un’ammenda.
Per lo stesso motivo è opportuno valutare con rigore la legittimità della riproposizione di istanze cautelari già respinte, privilegiando, ove possibile, la sede del reclamo piuttosto che l’attivazione di un diverso ufficio giudiziario.
L’insieme di tali cautele, se correttamente adottate, contribuisce ad allineare la condotta difensiva ai canoni di lealtà, correttezza e buona fede che presidiano il giusto processo, alla cui effettività la disciplina della responsabilità aggravata, ancor di più nella sua più recente configurazione post riforma Cartabia, è espressamente orientata.
[1] V. Trib. Venezia, Sez. Spec. Imp., ord. 16 maggio 2025, n. 1478.
[2] V., tra le altre, Trib. Verona, ord. 1 luglio 2010; Trib. Varese, sent. 22 gennaio 2011; Trib. Torino, ord. 16 ottobre 2010. Negli anni successivi, peraltro, la Corte Costituzionale ha avuto modo di pronunciarsi sul terzo comma dell’art. 96 c.p.c., affermandone in più occasioni la legittimità costituzionale. Dapprima, essa ha riconosciuto la natura prevalentemente sanzionatoria e deflattiva, ma ritenendo sufficiente, ai fini di legalità e prevedibilità, il rinvio al criterio equitativo e al collegamento con la soccombenza (v. Corte cost., 23 giugno 2016, n. 152). Infine, escludendo nuovamente l’illegittimità della norma, ha rilevato che la condanna non è automatica, richiede una specifica valutazione giudiziale della condotta processuale e non viola né la riserva di legge in materia di prestazioni patrimoniali imposte, né il diritto di difesa (v. Corte cost., 11 giugno 2019, n. 139).
[3] In particolare dall’art. 3, co. 6°, d.lgs. n. 149/2022 in attuazione della legge di delega n. 206/2021.
[4] Vi fanno espresso riferimento, da ultimo, nella giurisprudenza di merito, App. Brescia, 15 maggio 2023 (che evoca i punitive damages statunitensi), Trib. Roma 18 luglio 2019 (che dichiara la norma rispondere anche all’esigenza di preservare l’interesse pubblico ad una Giustizia sana e funzionale, scoraggiando il contenzioso fine a sé stesso).
[5] V. Trib. Napoli, ord. 12 ottobre 2022.
[6] V. Trib. Varese, sent. 22 gennaio 2011.
[7] V. Trib. Milano, Sez. Spec. Impr., ord. 12 marzo 2016.
[8] C. App. Milano, sent. 10 ottobre 2013.


