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Donazione di partecipazioni sociali ed azione di restituzione: fra problemi applicativi e tutela dei terzi acquirenti

13 Ottobre 2020

Manfredi Sclopis, Gianni Origoni Grippo Cappelli & Partners

Di cosa si parla in questo articolo

Il presente contributo si propone di analizzare le problematiche che pone la disciplina relativa all’azione di restituzione contro gli aventi causa dai donatari soggetti a riduzione sulla circolazione dei beni, con particolare riferimento alle partecipazioni sociali. La trattazione, che si avvia con un inquadramento della fattispecie normativa, esamina i rimedi offerti dal legislatore a tutela dei terzi.

L’azione di restituzione: premesse

Il principio di intangibilità delle quote di riserva spettanti ai legittimari, cui consegue la riducibilità delle disposizioni lesive delle stesse, ha pesanti ricadute sul regime di circolazione dei beni ricevuti per donazione, come attenta dottrina ha già avuto modo di evidenziare[1]. L’art. 563 cod. civ. stabilisce infatti che, qualora un bene venga donato in lesione della legittima e successivamente alienato dal donatario a terzi, il legittimario leso, premessa l’escussione del donatario, può chiedere ai successivi acquirenti la restituzione dei beni donati. Il secondo comma della riferita disposizione precisa altresì, in armonia con la norma di cui all’art. 559 cod. civ., che l’azione deve essere proposta secondo l’ordine di data delle alienazioni, cominciando dall’ultima e così risalendo sino alla più recente.

Ai sensi del primo comma, dunque, ove il patrimonio del donatario risulti capiente, l’acquisto del terzo è salvo. Viceversa, in caso di insolvenza del donatario, il legittimario potrà esperire una nuova e autonoma azione giudiziaria contro il terzo acquirente, al fine di conseguire la restituzione del bene, libero da qualsiasi vincolo – peso o ipoteca che fosse stato sullo stesso medio tempore costituito dal donatario o dal terzo acquirente, in perfetta applicazione della regola sintetizzata nel brocardo resoluto iure dantis, resolvitur et ius accipientis[2].

L’azione – detta “di restituzione” in quanto finalizzata appunto a risolvere, con efficacia reale, l’acquisto del terzo acquirente e ripristinare i diritti dei legittimari lesi – poteva essere esperita, secondo la dizione originaria della norma, senza alcun limite di tempo, il che rendeva il bene oggetto di donazione pressoché incommerciabile. In questo modo, la disciplina codicistica antecedente alla riforma apportata dal D.L. 14 marzo 2005, n. 35, convertito con modificazioni, nella L. 14 maggio 2005, n. 80, prima, e dalla L. 28 dicembre 2005, n. 263, poi[3], impediva sostanzialmente di fissare la vicenda successoria familiare tramite l’istituto della donazione, isolando così di fatto il nostro sistema giuridico rispetto agli altri ordinamenti europei.

A tutelare il terzo acquirente di un bene immobile di provenienza donativa si poneva (e si pone ancor oggi) l’art. 2652, n. 8, cod. civ., che fa salvi i diritti acquisiti dai terzi a titolo oneroso in forza di atti trascritti antecedentemente alla trascrizione della domanda di riduzione, qualora quest’ultima sia stata eseguita dopo dieci anni dall’apertura della successione. La norma menzionata si riferisce tuttavia, come detto, alla sola ipotesi di inerzia ultradecennale del legittimario leso o pretermesso. Di talché il terzo acquirente rimaneva esposto, secondo la formulazione originaria dell’art. 563 cod. civ., alla vis attractiva dell’azione di restituzione (a) per tutto il periodo compreso tra la data di trascrizione della donazione e i dieci anni successivi all’apertura della successione, qualora il legittimario avesse omesso nel suddetto termine di trascrivere l’azione di riduzione, ovvero (b) senza limiti di tempo alcuno in tutte le altre ipotesi[4].

In seguito, le due novelle del 2005 (D.L. 35/2005, conv. in L. 80/2005 e L. 263/2005) hanno modificato l’art. 563, comma primo e secondo, cod. civ., ponendo un limite temporale alla proponibilità dell’azione di restituzione, allo scopo di conciliare gli interessi del legittimario con quelli del terzo acquirente, nell’ottica di favorire l’interesse generale a una maggiore sicurezza nella circolazione dei beni[5]. Per quanto riguarda i beni immobili, l’azione può essere ora proposta entro vent’anni dalla data di trascrizione della donazione. Analoga disposizione è prevista per i beni mobili, salvi gli effetti del possesso in buona fede per i beni mobili non registrati, che, come è stato correttamente evidenziato da autorevole dottrina, non è quello di cui all’art. 1153 cod. civ., che presuppone un acquisto a non domino, quanto piuttosto un possesso da parte del terzo acquirente fondato sulla ignoranza della provenienza donativa del bene, sulla sua potenziale natura lesiva della quota di legittima e, dunque, sulla sua soggezione a riduzione[6].

Peraltro, le leggi poc’anzi citate, oltre ad aver limitato la portata temporale dell’azione di restituzione, hanno in pari tempo apprestato un meccanismo di tutela a vantaggio dei legittimari, introducendo all’art. 563, quarto comma, cod. civ. uno strumento che consente loro di opporsi con atto formale alla donazione e di sospendere nei loro confronti il decorso del termine per esperire l’azione di restituzione, così riportando i beni immobili e mobili di provenienza donativa ad una condizione di sostanziale incommerciabilità[7]. Con particolare riferimento ai beni mobili, la riforma del 2005, pur avendo apportato modifiche significative al tenore dell’art. 563 cod. civ., ha mantenuto parzialmente immutata l’originaria dizione del secondo comma, che non detta alcuna distinzione tra beni mobili registrati e non, riferendosi più semplicemente ai “beni mobili”. La circostanza – invero di non poco conto, come infra dimostrato – assume particolare rilievo pratico nel caso in cui oggetto della donazione e della successiva alienazione a terzi siano quote di società a responsabilità limitata, sulla cui natura giuridica paiono esservi ancora talune incertezze, specialmente di natura giurisprudenziale, come meglio infra precisato.

Critica all’interpretazione che postula la riconducibilità dei beni mobili registrati alla disciplina dell’art. 563 cod. civ. La natura giuridica delle quote di s.r.l. e la sua rilevanza ai fini dell’applicazione dell’azione di restituzione.

In relazione alla lacuna di cui all’art. 563 cod. civ. la dottrina dominante si è invero limitata a rilevare come la disposizione, nel riferirsi ai beni immobili e ai beni mobili, comprenda, seppur implicitamente, anche i beni mobili cc.dd. registrati[8]. La tesi poggerebbe su alcune considerazioni – di cui si darà conto nel prosieguo della disamina – che, sebbene apprezzabili nell’ottica di ricostruire quanto più fedelmente la volontà del legislatore, lasciano alcune perplessità.

Da un lato, potrebbe ritenersi applicabile ai beni mobili registrati – per analogia – il regime previsto per i beni immobili dal disposto dell’art. 563, comma 1, cod. civ., sull’assunto che la disciplina relativa alla circolazione dei primi è analoga a quella dettata per i secondi. Per entrambe le fattispecie, infatti, il codice civile prevede la necessaria trascrizione dell’atto di compravendita negli appositi registri ai fini dell’opponibilità ai terzi. La ricostruzione apparirebbe peraltro coerente con il dettato dell’art. 563, comma 1, cod. civ., che individua nella trascrizione il dies a quo per il decorso del termine ventennale per la proposizione della domanda. Inoltre, a supporto della tesi in esame, si potrebbe argomentare che, se la disciplina prevista dall’art. 563, comma 2, cod. civ. per l’azione di restituzione avente ad oggetto beni mobili fa salvi gli effetti del possesso in buona fede (regola applicabile solamente ai beni mobili non registrati), a fortiori dovrebbe ritenersi che, in base al criterio dell’interpretazione teleologica, l’intento del legislatore fosse quello di riferire la menzionata disposizione solamente ai predetti beni e di riservare ai beni mobili registrati il medesimo trattamento previsto dall’art. 563, comma 1, cod. civ. (applicabile ai beni immobili).

Volendo aderire all’opposto orientamento, occorrerebbe interpretare restrittivamente la norma in esame: l’art. 563, comma 1, cod. civ. si riferirebbe, cioè, ai soli beni immobili, atteso che la lettera della disposizione richiama esclusivamente quei beni, mentre il comma successivo, che afferisce genericamente ai beni mobili, ricomprenderebbe l’intera categoria, ivi inclusi dunque i beni iscritti in pubblici registri. L’effetto pratico sarebbe, a ben vedere, coincidente con quello del primo orientamento, dal momento che entrambi i commi dell’art. 563 cod. civ. prevedono un egual termine entro cui poter esperire l’azione di restituzione, a dispetto della differente natura dei beni considerati. Giova, dunque, chiedersi quale sia la ratio ispiratrice che ha spinto il legislatore a prevedere quel termine – e un termine così lungo, per di più uguale ad entrambe le tipologie di beni – per proporre la domanda.

Tralasciando alcuni problemi applicativi che desta il periodo ventennale previsto ai sensi dell’art. 563 cod. civ.[9], si potrebbe asserire, come peraltro evidenziato da autorevole dottrina[10], che il legislatore del 2005 abbia inteso prendere a riferimento, al fine di disciplinare il termine entro cui proporre la domanda di restituzione, il periodo temporale previsto dagli artt. 1158 ss. per l’usucapione ordinaria dei beni mobili e immobili. L’ipotesi delineata trova del resto conferma nella Relazione di accompagnamento alla legge di conversione del “Decreto Competitività” (L. n. 80/2005), che rileva come il legislatore avrebbe individuato, nel sistema stabilito dai previgenti artt. 553 ss. cod. civ., una contraddizione specifica, consistente nel non aver previsto – ai fini dei rimedi attribuiti al legittimario dagli artt. 561 e 563 cod. civ. – un “limite ventennale”, che invece si giustificherebbe pienamente per far sì che l’acquirente “che è pure un acquirente a domino, non riceva dall’ordinamento un trattamento deteriore rispetto all’acquirente a non domino, per il quale il ventennio costituisce comunque il più lungo dei termini per l’usucapione ordinaria”.

Senonché il termine ventennale cui si riferisce la Relazione in parola opera esclusivamente per l’usucapione ordinaria dei beni immobili e dei beni mobili non registrati, ai sensi, rispettivamente, degli artt. 1158 e 1161, comma 2, cod. civ., ma non per l’usucapione ordinaria dei beni mobili registrati, cui si applica il più breve termine decennale stabilito dal disposto dell’art. 1162, comma 2, cod. civ.

Sulle orme di questo ragionamento, parrebbe che il legislatore del 2005 non si sia posto in alcun modo la questione relativa al termine per proporre la domanda di restituzione con specifico riguardo a tale ultima categoria di beni, così dando luogo a un’evidente incongruenza sistematica: l’art. 563 cod. civ. disciplina correttamente il termine ventennale per la proposizione della domanda di restituzione dei beni immobili e mobili non registrati, ma non il minor termine di dieci anni per l’ipotesi in cui la domanda abbia ad oggetto la restituzione di beni mobili registrati, in conformità alla disciplina, poc’anzi richiamata, che ne regola l’usucapione ordinaria. Pertanto, nell’ipotesi in cui oggetto della donazione sia un bene appartenente alla tipologia menzionata, si dovrebbe considerare, ai fini del decorso del termine per esperire l’azione, non già il periodo ventennale di cui all’art. 563 cod. civ., bensì quello decennale stabilito dall’art. 1162, comma 2, cod. civ. Diversamente opinando, si perverrebbe alla paradossale conclusione per cui l’acquirente a non domino di un bene mobile registrato riceverebbe dall’ordinamento giuridico una tutela maggiore rispetto a chi abbia acquistato un bene mobile registrato a domino, solo per il fatto che il bene ha provenienza donativa.

La questione affrontata assume rilevanza pratica particolare per il caso in cui oggetto di donazione siano quote di società a responsabilità limitata. Il tema relativo alla natura giuridica delle quote di s.r.l. è stato lungamente dibattuto in dottrina e giurisprudenza ed è tutt’ora fonte di opinioni contrastanti tra gli interpreti, ragion per cui giova rammentare le principali posizioni espresse, in modo da identificare la disciplina normativa che la dottrina e la giurisprudenza prevalente ritengono oggi applicabile[11].

Tra i più risalenti orientamenti dottrinali, si ricordano quelli che inquadravano la partecipazione sociale come status[12], diritto di credito[13], aspettativa[14], situazione di comunione[15], mentre più recentemente essa è stata configurata in guisa di un “diritto sui generis”, dato dalla somma di tutte le situazioni giuridiche soggettive facenti capo al socio verso la società[16]; di una posizione contrattuale, il cui trasferimento integrerebbe, dunque, un’ipotesi di cessione del contratto ex art. 1406 ss. cod. civ.[17]; ed infine, secondo l’interpretazione oggi largamente prevalente, di un bene mobile[18]. Più in particolare, aderendo all’orientamento ante Riforma, le quote di s.r.l. sarebbero assimilabili ai beni mobili non registrati, in base alla circostanza che il libro soci, accessibile solamente a chi partecipa al capitale sociale, avrebbe la sola funzione di rendere le iscrizioni in esso contenute efficaci nei confronti della società e, dunque, non sarebbe equiparabile ai pubblici registri, che assolvono la diversa funzione di controllo sulla circolazione dei beni e sono consultabili in ogni tempo da chi vi abbia interesse[19]. Nondimeno, occorre prendere atto del mutato contesto normativo venutosi a creare a seguito delle numerose modifiche intervenute – dall’istituzione del Registro delle imprese con l’art. 8, L. 29 dicembre 1993, n. 580 all’abrogazione della previsione da parte dell’art. 16, comma 12-septies del D.L. 29 novembre 2008, n. 185, convertito con modificazioni nella L. 28 gennaio 2009, n. 2, della previsione, contenuta al n. 1 dell’art. 2478 cod. civ., che prevedeva l’obbligatoria tenuta del libro soci per le società a responsabilità limitata – sicché il Registro delle Imprese rappresenta ad oggi l’unico strumento precipuamente indicato dall’ordinamento per pubblicizzare le vicende successorie riguardanti le quote delle società a responsabilità limitata.

L’impostazione è stata peraltro di recente condivisa, oltre che dalla dottrina[20], dalla giurisprudenza di merito[21], anche se non mancano le opinioni di chi, discostandosi dall’orientamento più recente, continua a ritenere che le quote delle società a responsabilità limitata siano assimilabili ai beni mobili non registrati[22], e di chi, evidenziando le analogie e differenze che sussistono tra le quote delle s.r.l., da una parte, e i beni mobili, registrati e non, dall’altra parte, è arrivato a qualificare il sistema di circolazione previsto con riferimento alle stesse come “un ibrido tra la disciplina del trasferimento dei beni mobili e quelle dei mobili registrati[23]”.

Tanto premesso con riferimento alla dibattuta natura giuridica delle quote di s.r.l., l’adesione alla tesi, ad avviso di chi scrive preferibile, che ritiene queste ultime riconducibili alla categoria dei beni mobili registrati, ha ripercussioni anche sulla disciplina che determina il termine utile ai fini dell’usucapione delle stesse: trattandosi di beni mobili registrati, infatti, troverebbe applicazione l’art. 1162, comma 2, cod. civ., che richiede, in assenza delle condizioni di cui al comma 1, un possesso ininterrotto di dieci anni per l’acquisto a titolo originario delle quote. A tal proposito, è stata propria la menzionata giurisprudenza di merito a confermare come “non si vede quindi motivo per escludere dall’ambito di applicazione della previsione di cui all’art. 1162 cod. civ. quella particolare categoria di beni mobili rappresentata dalle quote di s.r.l. quali beni indiscutibilmente soggetti ad un regime di piena pubblicità oggi rilevante anche ai fini della disciplina circolatoria[24]”.

Senonché la conclusione appena condivisa, unitamente a quella tesi che correla il termine per proporre l’azione di cui all’art. 563 cod. civ. a quello precipuamente previsto ai fini dell’usucapione, è rilevante nella misura in cui porta a ritenere che anche per le quote di s.r.l. si applichi il termine decennale (e non ventennale) per proporre l’azione di restituzione, ai sensi dell’art. 1162, comma 2, cod. civ., con la precisazione che il terzo acquirente a titolo oneroso di una quota di s.r.l. di provenienza donativa che avesse trascritto l’atto da oltre tre anni dall’apertura della successione – senza che sia stata medio tempore trascritta la domanda per la riduzione – porrebbe al riparo il proprio acquisto contro le pretese del legittimario leso ai sensi dell’art. 2690, n. 5, cod. civ.[25].

Rimedi “primitivi” a tutela del terzo avverso la potenziale azione di restituzione del legittimario

La tutela del terzo acquirente di un bene di provenienza donativa è argomento da tempo oggetto di specifici studi, che hanno condotto all’elaborazione di alcune soluzioni utili al fine di mitigare i rischi sottesi alla problematica, ma non sufficienti a tutelare appieno il terzo rispetto ad eventuali pretese dei legittimari[26].

Una prima possibilità è offerta dall’art. 557, comma 2, cod. civ.: la norma consente infatti ai legittimari di rinunziare all’esercizio dell’azione di riduzione[27]. Tuttavia, la soluzione non sempre può essere perseguita per le seguenti ragioni: anzitutto, l’art. 557, comma 2, cod. civ. prevede espressamente che l’azione di riduzione non può essere rinunziata sintantoché il donante è in vita; inoltre, la rinunzia, per essere di qualche utilità, dovrebbe pervenire da tutti i legittimari, circostanza quest’ultima che non sempre si rivela di facile attuazione.

Un ulteriore strumento di tutela è stato individuato nell’azione di evizione, che, tuttavia, è posta come rimedio in caso di rivendicazione del bene solo ove la causa viziante la posizione giuridica del venditore preesista all’atto di vendita[28], mentre i presupposti per l’esercizio delle azioni di riduzione e restituzione ben potrebbero sorgere successivamente[29]. Peraltro, anche nell’ipotesi in cui le parti estendessero negozialmente la garanzia per evizione a fatti sopravvenuti alla vendita, il terzo non ne gioverebbe: infatti, l’azione di restituzione può essere proposta dal legittimario solamente in seguito all’infruttuosa escussione del patrimonio del donatario, sicché l’azione di evizione verrebbe esperita contro un soggetto già rivelatosi insolvente.

La dottrina ha individuato un terzo rimedio di tutela nell’istituto della fideiussione, rilasciata in favore dell’acquirente. A tal riguardo, posto che si tratterebbe in ogni caso di fideiussione indemnitatis, in quanto finalizzata a garantire non l’adempimento di un debito, quanto piuttosto il risarcimento del danno conseguente all’inadempimento del venditore, occorre individuare i soggetti adatti a prestare la fideiussione a favore del terzo. Tra questi non potrebbe certamente annoverarsi il donatario-venditore, atteso che la fideiussione deve essere rilasciata per garantire l’adempimento di un obbligo altrui e che, in ogni caso, il donatario si sarebbe già dimostrato insolvente in occasione dell’infruttuosa escussione del suo patrimonio conseguente all’accoglimento della domanda di riduzione. La fideiussione potrebbe essere rilasciata dagli altri legittimari, anche se questa soluzione potrebbe far sorgere il dubbio di essere, nella sostanza, una preventiva rinunzia da parte loro all’azione di riduzione, in contrasto dunque con gli artt. 458, 557, comma 2 e 1344 cod. civ. Analoghe obiezioni potrebbero sollevarsi nel caso in cui a prestare la fideiussione fosse il donante: anche in questo caso la garanzia verrebbe attivata solo dopo la morte del donante, senonché quali successori, del rapporto di garanzia, si ritroverebbero proprio i legittimari intenzionati ad agire in riduzione, con la conseguenza che anche in questo caso potrebbe prospettarsi non soltanto una violazione dell’art. 458 cod. civ., ma anche dell’art. 549 cod. civ.[30].

L’unica ipotesi praticabile si configurerebbe qualora a prestare la fideiussione fosse un terzo, in particolare un istituto di credito o una compagnia di assicurazione, ma in questo caso l’inconveniente sarebbe rappresentato dal fatto che la durata della garanzia potrebbe essere potenzialmente molto lunga e comportare costi eccessivamente onerosi.

Da ultimo occorre segnalare che, nell’ottica di assicurare una maggiore sicurezza nella circolazione dei beni, alcune pronunce della giurisprudenza di merito hanno di recente previsto la facoltà per il legittimario di rinunziare preventivamente all’azione di restituzione[31]. La tesi sarebbe avvalorata dalla circostanza che, differentemente dall’azione di riduzione, irrinunciabile dal legittimario fino alla morte del donante per espressa previsione di legge, in caso di inerzia del legittimario l’azione di restituzione è destinata a perire con il decorso del termine previsto dall’art. 563 cod. civ., anche se il donante è ancora in vita[32].

Così argomentando, la giurisprudenza ha convenuto con quell’orientamento dottrinale che, esaminando le caratteristiche delle due azioni, ha evidenziato come l’azione di riduzione, a differenza di quella di restituzione, sia volta all’accertamento dell’inefficacia relativa della donazione lesiva e non anche alla restituzione al legittimario vittorioso del bene libero da pesi e garanzie, essendo quest’ultima subordinata alla comoda divisibilità del bene, alla infruttuosa escussione del patrimonio del donatario, nonché alla circostanza che non siano trascorsi venti anni dalla trascrizione della donazione, oppure, trascorso tale periodo, che vi sia stata opposizione ad essa[33]. In questa prospettiva, l’azione di restituzione di cui all’art. 563 cod. civ. sarebbe un’azione ontologicamente diversa e autonoma rispetto all’azione di riduzione e sarebbe dunque consentito rinunziare alla prima senza dover parimenti rinunziare alla seconda.

L’alterità e autonomia delle due azioni escluderebbe altresì che la rinuncia alla domanda di restituzione comporti una violazione dell’art. 458 cod. civ., posto che la successione comporta per il legittimario leso il diritto a ottenere la riduzione e non anche il diritto a riavere automaticamente il bene donato.

Inoltre, ai sensi del quarto comma dell’art. 563 cod. civ., è consentito al terzo acquirente rinunciare all’opposizione alla donazione, sicché, se il legittimario può rinunciare alla restituzione una volta trascorsi venti anni dalla trascrizione della donazione, non si vede per quale ragione egli non potrebbe rinunciare con effetto immediato alla restituzione, anche prima del decorso del termine. In altre parole, se la tutela del legittimario nei confronti del terzo è stata resa disponibile per il periodo successivo al ventennio dalla trascrizione della donazione, appare plausibile assumere che lo stesso possa valere anche con riferimento alla tutela del medesimo interesse relativamente al periodo del primo ventennio dalla trascrizione della donazione[34].

Infine, la rinuncia all’azione di restituzione deve ammettersi onde tutelare il legittimo affidamento del terzo acquirente. E’ verosimile, infatti, che il legittimario rinunzi alla restituzione in vista di una futura sottoposizione del bene a pesi o garanzie o dell’alienazione dello stesso da parte del donatario e che, in tale contesto, il terzo acquirente abbia deciso di acquistare il bene o accendere un peso o una garanzia su di esso in suo favore, sul presupposto che il legittimario rinunci alla restituzione. Diversamente da quanto accade in caso di rinuncia all’opposizione, ove al legittimario sarebbe comunque consentito proporre la domanda di restituzione dopo la morte del donante nel caso in cui quest’ultimo decedesse prima del decorso del termine ventennale previsto dall’art. 563 cod. civ., la posizione del terzo verrebbe maggiormente tutelata proprio con la rinuncia del legittimario alla restituzione (e non alla sola opposizione), che impedisce retromarce del legittimario estinguendo definitivamente il suo diritto a chiedere la restituzione del bene al terzo acquirente[35].

Pur trattandosi di un rimedio indubbiamente utile per tutelare la posizione del terzo, la rinunzia all’azione di restituzione presenta, al pari delle altre soluzioni poc’anzi prospettate, l’inconveniente di non porre l’acquisto del terzo totalmente al sicuro: per essere di qualche utilità, infatti, l’azione dovrebbe essere rinunciata da tutti i legittimari, che potrebbero non essere noti all’acquirente e perfino allo stesso donatario-venditore al momento della compravendita del bene[36]. Non solo. Eventuali nuovi legittimari potrebbero sorgere in data successiva, incrementando così il novero dei soggetti potenzialmente legittimati a richiedere la restituzione.

Sia nell’una sia nell’altra ipotesi si riproporrebbero, in caso di accoglimento della domanda di restituzione, le problematiche evidenziate con riferimento all’azione di evizione: il terzo acquirente, una volta restituito il bene al legittimario sopravvenuto, non avrebbe nel concreto alcuna tutela, atteso che il risarcimento del danno conseguente all’evizione andrebbe richiesto al donatario-venditore, già rivelatosi insolvente a seguito dell’infruttuosa escussione del suo patrimonio.

Il rimedio del mutuo dissenso: inquadramento sistematico e profili a tutela del terzo acquirente

Tra le principali soluzioni individuate per porre rimedio alla sostanziale incommerciabilità dei beni di provenienza donativa, si è prospettata la possibilità per le parti di risolvere per mutuo consenso il contratto di donazione, ristabilendo la situazione giuridica anteriore. In questo modo, è il donante che, riacquisita la titolarità del bene come se non lo avesse mai donato, lo aliena al terzo, così evitando all’acquirente i rischi derivanti da lesioni di legittima che si configurerebbero laddove la donazione rimanesse in piedi[37].

In ordine alla natura del contratto di mutuo dissenso sono state elaborate diverse soluzioni dogmatiche dalla dottrina e dalla giurisprudenza, da cui derivano una diversa struttura e diversi effetti dell’istituto.

Secondo una prima tesi[38], detta del contrarius actus, il mutuo dissenso avrebbe causa uguale ed opposta all’atto i cui effetti si vogliono eliminare. Nel caso della donazione, l’accordo risolutorio avrebbe, dunque, sempre la causa di liberalità propria della stessa, ma le parti del contratto originario invertirebbero i rispettivi ruoli: il donante del contratto di donazione diventerebbe donatario nella contro-donazione, e viceversa. Tale orientamento muove dall’opinione secondo cui gli effetti negoziali di un contratto, una volta realizzati, non potrebbero più essere eliminati, soprattutto ove si tratti di un contratto a effetti reali, nonché dalla natura del tutto eccezionale della retroattività, che le parti non sarebbero legittimate a prevedere liberamente se non in presenza di una espressa previsione normativa.

Proprio in ragione delle argomentazioni appena esposte, tuttavia, la teoria del mutuo dissenso come contrarius actus presta il fianco a numerose critiche, dal momento che il contro-negozio non consentirebbe di ricostituire la situazione giuridica pregressa al contratto presupposto, come desiderato dalle parti, ma anzi darebbe luogo a risultati in taluni casi di sicuro rilievo e impatto. Lampante, a questo riguardo, è l’esempio del mutuo dissenso di una pregressa donazione: entrambe le donazioni rimarrebbero infatti soggette agli istituti dell’azione di riduzione e di restituzione, della collazione e della revocazione per sopravvenienza di figli, trattandosi di due negozi autonomi e distinti[39]. Inoltre, sarebbe difficilmente configurabile nel contro-donante uno spirito di liberalità, requisito caratterizzante la causa della donazione[40].

Secondo una diversa teoria, detta del contrarius consensus o del contratto di annientamento, il mutuo dissenso sarebbe configurabile quale negozio risolutorio con cui le parti pongono nel nulla, tanto per il passato quanto per il futuro, l’originario atto o contratto. Così configurato, il mutuo dissenso produrrebbe gli stessi effetti previsti per la reversibilità della liberalità donativa (art. 791 cod. civ.), l’avveramento della condizione (art. 1360 cod. civ.), il riscatto nella compravendita (art. 1504 cod. civ.), la rescissione (art. 1452 cod. civ.) o risoluzione del contratto (art. 1458 cod. civ.), eliminando con effetti ex tunc il negozio, che diventa tamquam non esset, e riportando il diritto nella titolarità del dante causa. Il contrarius consensus individua, dunque, un’autonoma figura contrattuale avente causa estintiva a carattere retroattivo.

Quest’ultima tesi deve considerarsi oggi assolutamente preferibile: come è stato evidenziato da autorevole dottrina, il mutuo dissenso è una fattispecie a sé stante, che non partecipa del tipo contrattuale cui appartiene il contratto da risolvere, non costituendone una contro-vicenda[41]. Non a caso, l’art. 1372 cod. civ. lo disciplina espressamente, come negozio autonomo avente la funzione, meritevole di tutela, di risolvere un precedente contratto. Il suo scioglimento libera, pertanto, le parti dalle obbligazioni rispettivamente assunte o dalla responsabilità per l’inadempimento e consente loro di ripetere le prestazioni già eseguite, siccome non dovute[42]. Con la dovuta precisazione che l’effetto ripristinatorio retroattivo non potrà pregiudicare i diritti medio tempore acquistati dai terzi, per l’evidente ragione che il contratto produce effetti solo tra le parti, come del resto stabilito dall’art. 1372, comma 2, cod. civ. Nell’ipotesi del mutuo dissenso di una donazione, dunque, le parti risolverebbero retroattivamente gli effetti della stessa con un unico negozio, facendo rientrare il bene nel patrimonio del donante e mettendo in salvo, in caso di successiva alienazione, i diritti del terzo acquirente dalle pretese dei legittimari[43].

La differente qualificazione del mutuo dissenso di una donazione ha pesanti ripercussioni anche sotto il profilo tributario. Infatti, come suggeriscono i più recenti orientamenti dell’Agenzia delle Entrate[44], ove si aderisse alla teoria del contrarius consensus, troverebbe applicazione l’art. 28, d.p.r. 26 aprile 1986, n. 131, secondo il quale «[1] La risoluzione del contratto è soggetta all’imposta in misura fissa se dipende da clausola o da condizione risolutiva espressa contenuta nel contratto stesso ovvero stipulata mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata entro il secondo giorno non festivo successivo a quello in cui è stato concluso il contratto. Se è previsto un corrispettivo per la risoluzione, sul relativo ammontare si applica l’imposta proporzionale prevista dall’art. 6 o quella prevista dall’art. 9 della parte prima della tariffa. [2] In ogni altro caso l’imposta è dovuta per le prestazioni derivanti dalla risoluzione, considerando comunque, ai fini della determinazione dell’imposta proporzionale, l’eventuale corrispettivo della risoluzione come maggiorazione delle prestazioni stesse.»

Nel presupposto che i contraenti abbiano sottoscritto il mutuo dissenso in data successiva al secondo giorno non festivo dalla data di stipula della donazione, si applicherà la disciplina di cui al secondo comma della norma in commento e, pertanto, l’imposta sarà dovuta solo per “le prestazioni derivanti dalla risoluzione”. Pertanto, poiché dalla risoluzione per mutuo consenso non derivano prestazioni a carico delle parti, ma solo l’estinzione del precedente contratto di donazione e, quale logica conseguenza, il ritorno del bene nel patrimonio del donante, l’atto sarà soggetto a tassazione con imposta di registro in misura fissa, non avendo contenuto patrimoniale, ai sensi dell’art. 11, parte prima, della tariffa allegata al citato d.p.r. 131 del 1986[45]. Inoltre, laddove la donazione e il mutuo dissenso abbiano ad oggetto beni immobili, sarà altresì dovuta l’imposta ipotecaria e catastale di cui al D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 347, sempre in misura fissa, atteso che, per la teoria del contrarius consensus, il contratto risolutorio non comporta alcun trasferimento di beni immobili o di diritti reali immobiliari, ma il venir meno dell’avvenuto trasferimento di tali diritti[46]. Qualora si aderisse all’indirizzo minoritario del contrarius actus, secondo cui il mutuo dissenso non sarebbe che una contro-vicenda del negozio presupposto, nel caso della donazione il nuovo contratto comporterebbe un ri-trasferimento del bene o dei diritti ivi previsti, a titolo di donazione, a favore dell’originario donante, e troverebbe pertanto applicazione l’imposta sulle successioni e donazioni di cui all’art. 2, commi 47 e ss., del D.L. 3 ottobre 2006, n. 262, convertito nella L. 24 novembre 2006, n. 286. Ove la donazione abbia ad oggetto beni immobili o diritti reali immobiliari, troveranno altresì applicazione le imposte ipotecaria e catastale di cui al D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 347, nella misura prevista per gli atti che importano trasferimenti di proprietà immobiliari ai sensi della tabella tariffaria allegata al citato decreto.

Alla luce di quanto sopra, e considerata in particolare la natura controversa dell’istituto, anche il mutuo dissenso si rivela uno strumento di tutela rischioso per il terzo che intendesse acquistare un bene di provenienza donativa. Preoccupano al riguardo alcune pronunce della Suprema Corte che, discostandosi dall’orientamento maggioritario, hanno aderito alla tesi che configura il mutuo dissenso come contrarius actus[47]. Se confermato in futuro, questo orientamento renderebbe l’istituto poco funzionale alla donazione, in quanto il terzo rimarrebbe soggetto alla potenziale azione di restituzione dei legittimari del donatario lesi dalla contro-donazione. Certo è che, qualora venisse invece definitivamente superata la teoria del contrarius actus, in favore di quella del contratto di annientamento, il mutuo dissenso si rivelerebbe un rimedio assai affidabile, forse l’unico in grado di garantire la salvezza dei diritti acquisiti dal terzo[48]. A livello pratico, inoltre, l’istituto del mutuo dissenso potrebbe mostrare altri punti di debolezza, specie se collocato nel più ampio contesto di operazioni che comportano il ricorso a contratti di frequente utilizzo tra gli operatori economici.

Si pensi al mutuo dissenso con cui donante e donatario risolvano una donazione avente ad oggetto una partecipazione societaria allo scopo di tutelare il terzo che si appresti ad acquistarla. E’ noto che i contratti regolanti le vendite di quote o azioni sono spesso assai strutturati, contengono clausole complesse e il rilascio di dichiarazioni e garanzie corpose, soprattutto ove le parti coinvolte sono società industriali o fondi di investimento. Ora, con particolare riferimento alla posizione dell’originario donante, pare assai improbabile che questi sia disposto a risolvere la donazione per poi rivendere immediatamente la partecipazione solo per tutelare la posizione del terzo e consentire al donatario di procedere alla cessione. E ciò per il semplice fatto che il donante-venditore, dopo aver sottoscritto il contratto risolutorio, è solo formalmente il titolare della partecipazione, ma è invero da tempo estraneo a tutte le vicende aziendali – perlomeno da quando la partecipazione è stata da lui donata – e difficilmente è in grado di accollarsi tutte le obbligazioni del contratto di vendita. Obbligazioni che comprendono, nel caso specifico della cessione di partecipazioni, il rilascio di dichiarazioni e garanzie relative a circostanze attinenti alla vita societaria, talvolta assai specifiche, che il donante non può conoscere semplicemente perché fino al giorno prima della stipula del contratto risolutorio non era socio della società. Pertanto, se accettasse di vendere al terzo, il donante si troverebbe a rilasciare dichiarazioni e garanzie su fatti a lui ignoti, assumendosi conseguentemente il rischio di incorrere in responsabilità contrattuale per una società di fatto altrui[49]. E ciò senza contare che difficilmente il terzo acquirente farebbe affidamento su dichiarazioni e garanzie rese da chi non abbia conoscenza alcuna delle recenti vicende societarie.

Simili considerazioni, unitamente alla controversa natura giuridica del mutuo dissenso, indurranno l’interprete a valutare attentamente l’opportunità di ricorrere a tale negozio come strumento di tutela del terzo acquirente di un bene di provenienza donativa.

Il contratto di “novazione causale” della donazione in vendita: semplice novazione o contratto modificativo?

Nel tentativo di individuare uno strumento che permetta al terzo di acquistare un bene di provenienza donativa in sicurezza, mantenendo intatto l’effetto traslativo prodotto dalla donazione, vi è chi in dottrina ha altresì ritenuto di poter ricorrere all’istituto della novazione di cui agli artt. 1230 ss. cod. civ[50].

In particolare, secondo l’autore citato sarebbe consentito al donante e al donatario concludere una novazione contrattuale della donazione, per effetto della quale all’originaria causa di liberalità della donazione verrebbe sostituita la causa della vendita, costituita dal trasferimento di una res o di un diritto verso corresponsione del relativo prezzo. La soluzione proposta sarebbe ammessa in quanto, sebbene il codice civile disciplini esclusivamente la novazione dell’obbligazione, sarebbe “sicuramente valida anche la novazione del contratto[51]”, che consentirebbe di mantenere fermo l’effetto traslativo prodotto tra le parti, mutandone però la giustificazione causale[52].

La tesi in esame tuttavia non convince, specie ove analizzata alla luce della dottrina richiamata a suo sostegno[53]: tra gli autori citati, Bianca[54] ammette la novazione del contratto solo quale conseguenza del mutamento del rapporto, inteso come rapporto obbligatorio, che risulti incompatibile con la causa del contratto originario, con ciò sottintendendo la riferibilità dell’istituto alle sole ipotesi di negozi aventi ad oggetto rapporti di durata e i cui effetti, comunque, non siano ancora esauriti[55]. Del resto, è lo stesso art. 1230 cod. civ. che, nel disciplinare la novazione come fenomeno estintivo e sostitutivo dell’originaria obbligazione con una nuova dall’oggetto o titolo diverso, presuppone l’esistenza di un rapporto obbligatorio tra le parti. Un rapporto, questo, che nei contratti a effetti reali come la donazione viene meno con la sottoscrizione dell’accordo, in base al principio consensualistico di cui all’art. 1376 cod. civ. La stessa giurisprudenza citata dall’autore che sostiene la tesi in esame riconosce la novazione contrattuale limitatamente ai contratti di durata (locazione, lavoro subordinato, contratti bancari)[56]. Peraltro, anche volendo aderire alla teoria in esame, resterebbe da capire come sia possibile mantenere gli effetti traslativi di un contratto che per effetto della novazione verrebbe estinto e contestualmente sostituito da un negozio diverso.

Si badi, con ciò non si vuole negare alle parti la possibilità di sostituire a un negozio con causa donativa un contratto avente causa di scambio, conservandone gli effetti, ma si vuole piuttosto individuare il corretto istituto che consenta di raggiungere l’obiettivo perseguito. Ad avviso di chi scrive, l’acquisto del terzo potrebbe essere messo in sicurezza ricorrendo all’istituto del contratto modificativo, disciplinato dall’art. 1321 cod. civ. La norma mostra ampia autonomia alle parti, consentendo loro di “regolare” i rapporti giuridici patrimoniali nei soli limiti della meritevolezza degli interessi perseguiti, il che permette di ribattere all’obiezione posta da chi, in dottrina, ha ritenuto possibile utilizzare l’istituto del contratto modificativo solo a condizione che gli elementi nuovi siano tali da non trasformare il contratto originario nella sua struttura e nella sua configurazione giuridica[57]. Del resto, se non si dubita che alle parti contraenti sia consentito risolvere per mutuo consenso un contratto, ponendolo nel nulla, non vi è ragione per escludere che agli stessi sia consentito modificare le loro pattuizioni. Nel caso specifico della donazione, si potrebbero dunque preservare gli effetti traslativi già prodotti, in forza di un contratto che sostituisca alla causa liberale quella di scambio, senza che ciò comporti tecnicamente una novazione del contratto. La causa del negozio modificativo sarebbe appunto quella di modificare quanto previsto nel contratto originario: una causa certamente lecita e meritevole di tutela, specie se considerata nell’ottica di risolvere, con un solo negozio, i problemi successori posti dalla disciplina in tema di donazione, salvaguardando i diritti dei futuri terzi acquirenti[58].

Ulteriori cautele a favore del terzo acquirente di partecipazioni sociali: il contratto modificativo della donazione in patto di famiglia

Da ultimo, la dottrina ha profilato, con riferimento alle partecipazioni sociali di provenienza donativa, un ulteriore strumento di tutela a favore del terzo: il contratto modificativo della donazione in patto di famiglia[59].

Come noto, il patto di famiglia è un contratto che, derogando al divieto sui patti successori e sui diritti dei legittimari, consente al titolare di un’attività imprenditoriale di trasferire anzitempo l’azienda e al titolare di partecipazioni di trasferire anzitempo le proprie quote o azioni a uno o più discendenti. Lo scopo che la fattispecie si prefigge è di attribuire una destinazione stabile all’impresa a favore di quello tra i propri discendenti ritenuto più abile nella gestione dei diritti donati, prevenendo future dispute tra gli eredi (art. 768-bis ss. cod civ.). L’esigenza di tutela degli altri legittimari che non beneficiano della disposizione viene soddisfatta con la liquidazione in loro favore di una somma corrispondente al valore delle quote di legittima che agli stessi spetterebbe se, al momento della stipula del patto di famiglia, si aprisse la successione del disponente. Per questa ragione, la disciplina sul patto di famiglia richiede che alla sottoscrizione prendano parte tutti i legittimari, a pena di nullità del patto, sebbene non manchino opinioni che ritengono il contratto egualmente valido, essendo possibile una successiva adesione dei legittimari che non vi abbiano partecipato, mentre quelli che non hanno né partecipato né aderito conserverebbero il diritto a proporre le azioni giudiziali a tutela delle loro ragioni: in tal modo, però, verrebbero frustrate le finalità pratiche dell’istituto[60]. Inoltre, al fine di assicurare la continuità aziendale, la legge prevede l’opponibilità del patto ai legittimari sopravvenuti (ad esempio secondo coniuge, sposato dopo la sottoscrizione del patto, figlio nato dopo la sottoscrizione del patto, ecc.), i quali vanteranno unicamente un diritto di credito, commisurato alla stima dell’azienda o della partecipazione al momento della stipulazione, incrementata degli interessi legali (art. 768-sexies cod. civ.).

Ora, se alle parti è consentito risolvere un precedente contratto per mutuo dissenso o modificarlo, sostituendo alla causa liberale quella di scambio propria della vendita, è sicuramente valido il contratto modificativo della donazione in patto di famiglia, purché sussistano i presupposti che la legge richiede per la sottoscrizione di tale accordo. Accordo cui parteciperanno, a pena di nullità, tutti i legittimari in vita del disponente, che dovranno: (i) confermare l’effetto traslativo realizzato con la donazione; (ii) dichiarare che l’effetto traslativo si è realizzato per effetto di un patto di famiglia e non di una donazione; (iii) dichiarare che, in ragione di quanto precede, si applicheranno le norme sul patto di famiglia e la disposizione traslativa non sarà pertanto soggetta a collazione, riduzione e restituzione; e (iv) stimare il valore dell’azienda o delle partecipazioni oggetto di donazione alla data di stipula del contratto modificativo e liquidare, sulla base di tale valore, le quote di riserva spettanti ai legittimari che non beneficiano della disposizione del patto[61].

Ciò posto, benché la disciplina del patto di famiglia rappresenti un’elegante e valida soluzione al fine di tutelare i diritti del terzo acquirente di partecipazioni sociali, essa non consentirebbe comunque di tutelare appieno il terzo da future pretese dei legittimari. Laddove il coniuge disponente abbia avuto in precedenza un figlio da una relazione extraconiugale non nota ai figli avuti con il coniuge e il primo dovesse emergere successivamente alla sottoscrizione del patto di famiglia, rivendicando la sua posizione di legittimario ingiustamente escluso, egli stesso potrebbe porre nel nulla il patto di famiglia e agire in riduzione contro gli altri legittimari per la reintegrazione della propria quota, fermo restando il diritto di chiedere la restituzione dei beni ai terzi in caso di insolvenza dei donatari. Al terzo non resterebbe che chiedere, in una simile circostanza, il risarcimento del danno nei confronti del disponente, per aver dolosamente taciuto in sede di stipula dell’accordo l’esistenza di legittimari ulteriori rispetto a quelli contemplati nello stesso. Si realizzerebbe così una cautela atta a consentire al terzo di far valere il legittimo affidamento posto sulla validità del patto di famiglia e sulla sicurezza del proprio acquisto, ma certamente non equiparabile a quella che la legge riconosce all’acquirente in conseguenza di fenomeni evittivi. Di tale circostanza il terzo dovrà essere messo adeguatamente al corrente in sede di stipula dell’atto di acquisto, onde consentirgli di ponderare i rischi sottesi all’operazione e di valutare consapevolmente l’opportunità di procedere con l’acquisto.

 


[1] A. TORRENTE, P. SCHLESINGER, Manuale di diritto privato, Milano, 2017, 1411 ss.

[2] Così A. MAGNANI, La risoluzione della donazione per mutuo dissenso (un rimedio alla potenziale incommerciabilità degli immobili provenienti da donazione, in Riv. Not., 2004, 01, 113.

[3] Sulle novità introdotte dal legislatore alla disciplina di cui all’art. 563 cod. civ., cfr., fra tutti, A. BUSANI, Il nuovo atto di “opposizione” alla donazione (art. 563, comma 4°, cod. civ.) e le donazioni anteriori: problemi di diritto transitorio, in La nuova giurisprudenza commentata, 5/2006, 255 ss.; cfr. altresì A. TORRENTE, P. SCHLESINGER, op. cit., 1411 ss.

[4] Disciplina analoga era (ed è tutt’ora) prevista, per i beni mobili registrati, dall’art. 2690, n. 5, cod. civ., che fa salvi i diritti acquisiti dai terzi sul bene donato in base a un atto a titolo oneroso trascritto in data antecedente alla trascrizione della domanda, qualora la stessa sia avvenuta dopo tre anni dall’apertura della successione.

Si noti peraltro che, anche nel sistema normativo previgente, il terzo acquirente di un bene mobile non registrato poteva comunque opporre l’inattaccabilità del proprio acquisto in forza della regola possesso vale titolo, in presenza di tutti i presupposti di cui all’art. 1153 cod. civ., quale ben più efficace strumento a propria tutela.

[5] G. CAPOZZI, Successioni e donazioni, Milano, 2009, vol. I, 575, nota 1246, secondo cui tale principio sarebbe coerente con la ratio espressamente enunciata dal legislatore all’art. 4-novies della L. 80/2005, ove viene stabilito che la riforma degli articoli che qui rilevano è finalizzata ad “agevolare la circolazione dei beni immobili già oggetto di atti di disposizione a titolo gratuito”.

[6] M.C. ANDRINI, Commento sub art. 563 cod. civ., in Delle Successioni, a cura di V. CUFFARO e F. DELFINI, in Commentario del Codice Civile, artt. 456-564, diretto da E. GABRIELLI, Milano, 2009, 703. Secondo L. MENGONI, Successioni per causa di morte. Parte speciale. Successione necessaria, in Trattato di dir. civ. e comm., già diretto da A. CICU e F. MESSINEO, continuato da L. MENGONI, Milano, 2000, 322, per la prova della mala fede del terzo acquirente occorrerebbe dimostrare che “per la situazione familiare e patrimoniale del donante, nota al terzo, e per il valore della liberalità, la riducibilità si prospettava come sopravvenienza certa o almeno probabile”.

[7] Evidente è la ratio della norma: poiché durante la vita del donante l’azione di restituzione non può essere esercitata, il legittimario leso dalla donazione rimarrebbe privo di qualsivoglia tutela, qualora il donante sopravvivesse oltre vent’anni alla donazione. Per tale ragione, tramite la menzionata disposizione si consente al legittimario di sospendere il decorso del termine per la presentazione della domanda, tramite un atto unilaterale che deve essere trascritto nei registri immobiliari ai fini dell’opponibilità ai terzi. L’atto deve essere rinnovato entro vent’anni dall’ultima trascrizione, altrimenti perde efficacia.

[8] L. FERRI, Commento sub art. 563, in Legittimari, a cura di A. SCIALOJA e G. BRANCA, in Commentario del Codice Civile, Libro secondo: art. 536, 564, Bologna, 1971, 204 ss.; G. CAPOZZI, op. cit., 572, nota 1235; F. GAZZONI, Competitività e dannosità della successione necessaria (a proposito dei novellati art. 561 e 563 c.c.), in Giust. Civ., 2006, 3.

[9] Si pensi all’ipotesi in cui sopravvenga un nuovo legittimario del donante dopo venti anni dalla donazione (ad es., nell’ipotesi in cui il donante dovesse contrarre matrimonio oltre vent’anni dopo dalla donazione): in questo caso il legittimario non avrebbe alcuna tutela, posto che sarebbe nel frattempo decorso il termine per proporre l’azione di restituzione di cui all’, e parimenti il termine entro cui trascrivere l’atto di opposizione alla donazione previsto dal quarto comma della norma citata.

[10] M.C. ANDRINI, op. cit., 701 e 702, che sottolinea come “la ratiodi questa tutela, che pone il terzo acquirente dal donatario soccombente al riparo da ogni pretesa restitutoria ove siano trascorsi venti anni dalla trascrizione dell’atto di donazione, va ricercata nell’analogia che questa fattispecie presenta con le garanzie offerte dall’ordinamento all’acquirente a non dominomediante l’istituto dell’usucapione. Sarebbe infatti illogico che l’acquirente dal donatario, che acquista a domino con regolare contratto, stipulato a pena di nullità per atto pubblico (art. 782, co. 1, c.c.) registrato e trascritto, ricevesse un trattamento deteriore rispetto a chi acquista, anche senza titolo, e perfeziona con il termine ventennale il suo possesso, trasformandolo con l’usucapione in piena titolarità. Il ventennio costituisce infatti il termine più lungo per l’usucapione ordinaria, per cui sarebbe manifestamente incoerente un sistema giuridico che consentisse la caducazione di una situazione di diritto, quale quella di cui agli artt. 561 e 563 cod. civ. rilevante per la certezza della circolazione dei beni e per la sicurezza dei traffici giuridici, decorsi venti anni dal suo perfezionamento, garantendo invece la tutela di una analoga situazione di fatto, quale quella appunto quella che dà origine all’usucapione. E ciò pure in nome della c.d. tutela reale del legittimario.”; cfr., altresì, F. GAZZONI, op. cit., 3, per il quale, seppur non possa parlarsi nel caso de quo di una sorta di “usucapione occulta”, in quanto non sarebbe richiesto un possesso continuato e ininterrotto del bene ai fini del decorso del termine ventennale utile ai sensi dell’art. 563 cod. civ., come invece previsto in materia di usucapione, evidente sarebbe comunque la correlazione tra le due discipline.

Contra G. D’AMICO, La rinunzia all’azione di restituzione nei confronti del terzo acquirente di bene di provenienza donativa, in Riv. not., 2011, 1271 ss..

[11] Per una ricostruzione delle teorie dogmatiche elaborate in dottrina, v. V. DE STASIO, Trasferimento della partecipazione nella S.r.l. e conflitto tra acquirenti, 2008, 98 ss.

[12] T. ASCARELLI, Appunti di diritto commerciale, I, Roma, 1933, 221.

[13] La tesi ebbe particolare successo nei primi decenni successivi all’entrata in vigore del Codice civile del 1942, cfr., in giurisprudenza, Cass., 29 agosto 1956, n. 3162, in Dir. fall., 1956, II, 820 ss.; Cass., 14 marzo 1957, n. 859, in Banca, borsa, tit. cred., 1957, II, 51 ss. e, in dottrina, dapprima C. VIVANTE, Trattato di diritto commerciale, II, Milano, 1935, n. 304, 16, secondo cui con il conferimento il diritto del socio muterebbe da proprietà a diritto di credito vantato nei confronti della società: “col conferimento il socio che conferisce la proprietà di una cosa cessa di esserne proprietario, e perde il diritto di averne la restituzione; perciò il suo diritto reale di proprietà si tramuta in un diritto condizionale di credito”, e successivamente A. BRUNETTI, Trattato del diritto delle società. Società a responsabilità limitata, società cooperative, mutue assicuratrici, vol. III, Milano, 1950, 113 ss.

[14] Cfr. V. DE STASIO, op. cit., nota 37

[15] Ibidem, nota 38, che asserisce come il fondamento della tesi della società come “comunione qualificata” dall’esercizio di un’impresa si debba rinvenire in una massima del giurista francese Giacomo Cuiacio e sia poi presente in dottrina post Codice del commercio del 1882.

[16] F. MESSINEO, La partecipazione sociale (a proposito di un libro recente), in Riv. soc., 1966, 946 ss.

[17] G. SANTINI, Natura e vicende della quota di società a responsabilità limitata, in Riv. dir. civ., 1962, I, 437. La tesi è stata altresì condivisa da F. GALGANO, Diritto civile e commerciale, 3, Vol. II, Padova, 1990, 442 ss., il quale ha tuttavia successivamente aderito alla corrente di pensiero dominante che qualifica la quota di s.r.l. come bene mobile, cfr. F. GALGANO, Il diritto commerciale in 25 lezioni, 2007, 340. La tesi che configura la quota di s.r.l. come mera posizione contrattuale è stata efficacemente criticata da G. COTTINO, Le società. Diritto commerciale, I, 2, IV ed., Padova, 1999, 598, secondo cui “l’identificazione [della quota] con la posizione contrattuale del socio nella società è esatta ma parziale; essa rischia a mio avviso di sottovalutare il fatto che la posizione contrattuale espressa appunto dalla condizione di socio, e coagulantesi nella quota è, oltre all’espressione di un coacervo di diverse matrici, obbligatorie, reali, corporative, un dato oggettivato nella disciplina e come tale regolato da essa. Sia o non rappresentata da un’azione – il che può non avvenire anche in una società per azioni – la quota è considerata oggetto di diritti, individuali e in comunione, e di vicende di varia natura, dall’alienazione al pegno all’usufrutto”. L’Autore chiude la sua argomentazione con una nota formula, poi ampiamente utilizzata sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza, in cui evidenzia che “comunque nella quota come nell’azione – e quindi nella quota da essa rappresentata – è sempre espressa sinteticamente una posizione contrattuale obiettivata”.

[18] In dottrina, cfr., ex multis, M. SPERANZIN, La circolazione di partecipazioni in s.r.l. tra acquisti a non domino e pubblicità commerciale, in Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum Gian Franco Campobasso, Torino, 2007, 421 ss. G.F. CAMPOBASSO, Diritto commerciale. Diritto delle società, vol. II, Milano, 2015, 566 e nota 23; F. GALGANO, Il diritto commerciale in 25 lezioni, cit., 340. In giurisprudenza, cfr. da ultimo Cass., 18 agosto 2017, in Giur. it., 2423 ss., con nota di Cagnasso. Si segnala che una recente pronuncia della Suprema Corte (Cass., 27 novembre 2019, n. 310519), disattendendo l’orientamento ormai consolidato e dando vita ad un vero e proprio revirement, ha affermato che le stesse rappresenterebbero una “partecipazione dei soci al contratto sociale e allo svolgimento dell’impresa”. Sul punto si auspica dunque un intervento a Sezioni Unite della medesima Corte, affinché risolva definitivamente il contrasto sorto.

[19] Cass., 12 dicembre 1986, n. 7409, in Foro it., 1987, 1101 ss.

[20] P. SMIRNE, Riflessioni sulla natura della quota di s.r.l.: la quota di s.r.l. come possibile oggetto di fondo patrimoniale, in La società a responsabilità limitata: un modello transtipico alla prova del Codice della Crisi, Studi in onore di Oreste Cagnasso, a cura di M. IRRERA, Torino, 2020, 240 ss.; G. FERRI, In tema di pubblicità del trasferimento di quota di s.r.l. secondo la legge n. 310 (appunti), in Riv. dir. comm., 1994, I, 366 ss..

[21] Trib. Milano, 22 dicembre 2017, n. 12974, in Società, 2018, 418 ss.

[22] G. PRESTI, M. RESCIGNO, Corso di diritto commerciale, Bologna, 2017, 558; M. SPERANZIN, La circolazione di partecipazioni in S.r.l. tra acquisti a non domino e pubblicità commerciale, in Il nuovo diritto delle società. Liber amicorumGian Franco Campobasso, Torino, 2007, 421 ss.; E. PEDERSOLI, Sulla qualificazione della quota di S.r.l. come bene mobile registrato e l’applicazione dell’istituto dell’usucapione, in Società,2018, 418 ss. Si sostiene, in particolare, che l’elenco dei beni mobili registrati definito all’art. 2683 cod. civ. sia tassativo e chiuso, sicché non vi sarebbe spazio per la quota di partecipazione al capitale sociale di S.r.l. Si ritiene inoltre che i registri pubblici riguardanti gli immobili e i beni mobili registrati abbiano funzione e struttura diverse rispetto al Registro delle Imprese, posto che soltanto i primi sarebbero deputati a regolare i traffici giuridici dei beni, mentre il secondo assolverebbe alla sola funzione di rendere conoscibili le vicende organizzative delle società e la risoluzione dei conflitti tra più acquirenti assurgerebbe a un mero ruolo secondario. Infine, un’ulteriore differenza rispetto al regime dei beni mobili registrati è stata individuata nella circostanza che l’art. 2470 cod. civ. risolve il conflitto tra più aventi causa dal medesimo venditore attribuendo rilevanza all’elemento soggettivo della buona fede dell’acquirente, considerato irrilevante invece ai fini dell’opponibilità di un atto di acquisto di un bene mobile iscritto nei pubblici registri (art. 2644 cod. civ.).

La tesi, seppur fondata su argomenti giuridici adeguatamente motivati, non pare del tutto convincente. Anzitutto, si rileva che l’art. 2696 cod. civ. ammette espressamente l’esistenza di beni mobili registrati ulteriori rispetto a quelli previsti dall’art. 2683 cod. civ., stabilendo che per gli stessi “si osservano le disposizioni delle leggi che li riguardano”. Priva di pregio è altresì l’argomentazione che non riconoscerebbe al Registro Imprese la funzione di pubblicizzare i mutamenti nella titolarità delle quote, quanto piuttosto quella di rendere conoscibili le vicende organizzative societarie e gli assetti proprietari degli operatori economici: l’art. 2470, comma 3, cod. civ. risolve infatti il conflitto tra più acquirenti di quote dallo stesso alienante facendo salvi i diritti di chi per primo abbia trascritto in buona fede il suo acquisto, così attribuendo al Registro delle Imprese la medesima funzione che compete ai pubblici registri. Del resto, proprio dalla norma richiamata si può agevolmente ricavare la distinzione che sussiste tra le quote di s.r.l. e i beni mobili non registrati, rispetto alla cui circolazione il codice civile prevede una disciplina che predilige fra più acquirenti dello stesso bene quello che per primo ne abbia acquisito in buona fede il possesso, seppur in forza di un titolo di data posteriore, ai sensi e per gli effetti della norma di cui all’art. 1155 cod. civ., che è evidentemente inapplicabile alle quote di s.r.l. proprio per la presenza dell’art. 2470, comma 3, cod. civ. Infine, la presenza del requisito della buona fede, espressamente richiesto dall’art. 2470, comma 3, cod. civ., non può certo rappresentare un elemento ostativo a considerare le quote di s.r.l. quali beni mobili registrati: la previsione è stata verosimilmente inserita per adeguare le norme che disciplinano le s.r.l. all’art. 1994 cod. civ., che esclude la soggezione dei titoli di credito all’azione di rivendicazione in caso di buona fede dell’acquirente.

[23] G. PRESTI, M. RESCIGNO, op. cit., 572.

[24] Trib. Milano, 22 dicembre 2017, n. 12974, in Società, 2018, 418 ss.

[25] Si tratta, del resto, dello stesso termine triennale previsto dal legislatore ai fini dell’usucapione abbreviata dei beni mobili registrati, secondo quanto previsto dall’art. 1162, comma 1, cod. civ. Cfr. C. CICERO, G.W. ROMAGNO, Azione di riduzione ed eccezione di usucapione, in Riv. Not., 2018, 995; A. MUSTO, Il mutuo dissenso: casi e questioni di interesse notarile. Studio del Settore Civilistico del Consiglio Nazionale del Notariato, 2/2017; M.C. ANDRINI, op. cit., 702.

[26] M. CEOLIN, Sul mutuo dissenso in generale e, in specie, parziale del contratto di donazione, in Consiglio Nazionale del Notariato, Studio n. 52-2014/C; F. GAZZONI, op. cit.; A. MUSTO, op. cit.

[27] Infatti, il presupposto per esperire la domanda di restituzione è l’accoglimento della domanda di riduzione e l’infruttuosa escussione del patrimonio del donatario, di talché la rinunzia all’azione di riduzione comporta implicitamente anche rinunzia all’azione di restituzione.

[28] Cass. 26 gennaio 1995, n. 945, secondo cui “per l’ipotizzabilità dell’evizione è necessario che l’evento che l’ha determinata, anche se verificatosi in concreto successivamente, debba attribuirsi ad una causa preesistente alla conclusione del contratto. Non costituisce, pertanto, ipotesi di evizione il caso in cui l’appartenenza a terzi del bene in contestazione deriva da titolo (nella specie, usucapione) perfezionatosi in tempo successivo al contratto di compravendita del bene stesso”.

[29] Si pensi all’ipotesi in cui il donante, dopo avere donato il bene oggetto di successiva alienazione a terzi, contragga matrimonio o abbia altri figli.

[30] Sull’illegittimità della fideiussione in oggetto si è peraltro pronunciata di recente la giurisprudenza di merito: cfr. Trib. Mantova, 24 febbraio 2011, n. 228, in Notariato, 2012, 1, con nota di C. LAZZARO, Una pronuncia innovativa sulla fideiussione del donante.

[31] Trib. Pescara, 25 maggio 2017, n. 250; Trib. Torino, 26 settembre 2014, n. 2298, in Giur. it., aprile 2015, 829 ss., con nota di A. GIANOLA e A. DI SAPIO.

[32] Infatti, benché l’azione di restituzione possa essere proposta, al pari dell’azione di riduzione, solo in seguito al decesso del donante, il termine per la proposizione dell’azione decorre dalla data della trascrizione della donazione (o dalla donazione in caso di beni mobili non registrati), sicché il legittimario è tenuto a opporsi tempestivamente alla donazione se intende conservare il diritto a proporre l’azione dopo la morte del de cuius.

[33] A. GIANOLA, A. DI SAPIO, La rinuncia alla restituzione dell’immobile donato dall’avente causa del donatario, in Giur. it., aprile 2015, 831 ss.

[34] G. D’AMICO, op. cit., 1271.

[35] Sul piano strutturale, la rinunzia alla restituzione può concretarsi tanto in un atto unilaterale del legittimario quanto in un accordo tra questi e il donante, il donatario o il terzo acquirente; può trattarsi tanto di atto a titolo gratuito quanto a titolo oneroso, con la precisazione che la rinuncia onerosa ha struttura necessariamente bilaterale, quella gratuita può invece essere sia unilaterale che bilaterale. Infine, per quanto riguarda i profili pubblicitari, la giurisprudenza di merito ammette la trascrizione dell’atto notarile di rinuncia, precisando che si tratta di pubblicità-notizia, facoltativa e dunque non produttiva degli effetti di cui all’art. 2644 cod. civ. E ciò per l’ovvia ragione che i terzi, in assenza di una disposizione di legge, non hanno alcun onere di consultare i pubblici registri. Nel caso di specie, i terzi hanno viceversa una significativa opportunità di poter radicare il proprio affidamento sulle risultanze dei registri immobiliari. Peraltro, non rientrando tra gli atti tipici soggetti a trascrizione, l’atto in parola non sarebbe suscettibile di trascrizione autonoma, dovendo essere annotato a margine della trascrizione della donazione (cfr. Trib. Torino, 26 settembre 2014, n. 2298, in Giur. it., aprile 2015, 829 ss., con nota di A. GIANOLA, A. DI SAPIO).

[36] Si pensi all’ipotesi in cui il donante, oltre ad aver quali legittimari uno o più figli nati in costanza di matrimonio, abbia un ulteriore figlio occulto nato da una relazione extra-coniugale, cui sono riconosciuti i medesimi diritti ai fini successori.

[37] A. MAGNANI, La risoluzione della donazione per mutuo dissenso (un rimedio alla potenziale incommerciabilità degli immobili provenienti da donazione), in Riv. Not., 2004, 113; M. GRANDI, Il mutuo dissenso della donazione. Inquadramento sistematico, in Not., 2013, 203 ss., M. CEOLIN, op. cit.

[38] Cass. 10 marzo 2014, n. 5529, in Contratti, 2014, con nota di S. VILLAROSA, 982 ss.; Cass. 15 maggio 1998, n. 4906, in Mass. Giur. It., 1998.

[39] A. MAGNANI, op. cit., 113. L’autore riporta un esempio utile per far comprendere le problematiche che sorgerebbero se si aderisse alla tesi del contrarius actus. Si pensi al caso di Tizio che dona a Caio il fondo Tuscolano (unico suo bene) e di Caio che successivamente glielo restituisce con una contro-donazione. I figli di Tizio, dopo la sua morte, non trovando il fondo nel patrimonio di Tizio, avendolo egli dopo la contro-donazione alienato a terzi, potranno agire in riduzione nei confronti di Caio, sebbene quest’ultimo non detenga più il fondo in quanto lo ha restituito a Tizio. Peraltro, anche i figli di Caio potranno, per effetto della contro-donazione, agire in riduzione contro Tizio. Ciò in quanto, secondo la teoria del contrarius actus, il mutuo dissenso avrebbe causa analoga al negozio presupposto e, quindi, nel caso della donazione il contro-negozio assoggetterebbe il bene che viene restituito ai medesimi limiti circolatori che pone la disciplina sulla donazione (i.e., collazione, riduzione e restituzione).

[40] Come correttamente evidenziato da F. MAGLIULO, La natura del mutuo dissenso nei contratti con effetti reali, in Not., 2013, 138 ss., ulteriori problemi applicativi si rilevano rispetto ai contratti ad effetti obbligatori: per risolvere un contratto di locazione, ad esempio, sarebbe necessario, secondo la teoria del contrarius actus, che le parti del contratto presupposto sottoscrivessero un nuovo negozio dall’oggetto e causa uguali ma a parti invertite, con il locatore del primo contratto che diventerebbe il conduttore nel secondo. E’ evidente che, così interpretato, il mutuo dissenso non consentirebbe di porre nel nulla il primo contratto, ma farebbe sorgere un nuovo contratto di locazione.

[41] F. GALGANO, Trattato di diritto civile, vol. II, Milano, 2010, 483 e 484.

[42] Ibidem.

[43] Invero, sussisterebbe una terza e ultima tesi, minoritaria in dottrina, detta dell’adempimento traslativo, che ricostruisce il mutuo dissenso come il collegamento di un contratto obbligatorio, che estingue il titolo d’acquisto, e un altro contratto contestuale, ma logicamente successivo, che ritrasferisce il diritto all’originario disponente. La struttura dell’istituto, come descritta dall’orientamento in esame, “definisce esemplarmente la struttura che il mutuo dissenso assume quando le parti ne hanno convenuto l’irretroattività o se avevano originariamente derogato al principio consensualistico (art. 1376 cod. civ.), che unisce al contratto il titolo ed il modo, dotandolo di efficacia reale” (così M. GRANDI, op. cit., 206 e 207).

[44] Agenzia delle Entrate, Risoluzione del 14 febbraio 2014, n. 20/E, secondo cui “il contratto di mutuo dissenso concretizza un atto autonomo rispetto al precedente, dotato di una propria causa, che viene stipulato dalle parti con lo scopo di eliminare un precedente contratto, qualunque sia la causa di quest’ultimo. Per effetto della conclusione dell’atto risolutivo, che ha efficacia retroattiva, dunque, gli effetti prodotti dall’originario contratto sono eliminati, per volontà delle parti, ab origine”; cfr. altresì Agenzia delle Entrate, Risoluzione del 14 novembre 2007, n. 329.

[45] Agenzia delle Entrate, Risoluzione del 14 febbraio 2014, n. 20/E, che evidenzia come “l’atto di risoluzione per mutuo consenso afferente ad un atto di donazione per il quale non è previsto, come nella specie, alcun corrispettivo, deve essere assoggettato a registrazione in termine fisso, con applicazione dell’imposta in misura fissa. Diversamente, nell’ipotesi in cui dalla risoluzione del contratto derivino prestazioni patrimoniali in capo alle parti, ovvero venga pattuito un corrispettivo per la risoluzione del precedente atto di donazione, troverà applicazione, secondo il disposto di cui all’articolo 28, comma 2, TUR, l’imposta proporzionale di registro.”

[46] V. MASTROIACOVO, La rilevanza tributaria dell’atto di mutuo dissenso e delle prestazioni derivanti dalla risoluzione, in Consiglio Nazionale del Notariato, Studio n. 142-2014/T.

[47] Cass. 10 marzo 2014, n. 5529, in Contratti, novembre 2014, con nota di S. VILLAROSA, 982 ss.; Cass. 15 maggio 1998, n. 4906, in Mass. Giur. It., 1998.

[48] Al riguardo, si auspica un intervento della Suprema Corte che definisca la natura del contratto di mutuo dissenso.

[49] Invero, il donatario potrebbe rendersi garante delle violazioni alle dichiarazioni e garanzie del donante-venditore. Tuttavia, anche tale soluzione non ovvierebbe al problema, dal momento che il donante sarebbe comunque obbligato in solido a rispondere contrattualmente dei danni nei confronti del terzo acquirente.

[50] F. ANGELONI, Nuove cautele per rendere sicura la circolazione dei beni di provenienza donativa nel terzo millenio, in Contratto e Impresa, 2007, 946 ss.

[51] Ibidem.

[52] Ibidem.

[53] Critica la teoria che ammette il contratto novativo della donazione in vendita anche G. AMADIO, Attribuzioni liberali e riqualificazione della causa, in Riv. dir. civ., marzo 2013, 508 ss.

[54] C. M. BIANCA, Diritto civile, 4, L’obbligazione, Milano, 1990, 455 ss.

[55] Ibidem, secondo cui “Quando l’obbligazione precedente ha la sua fonte nel contratto, la novazione non incide solamente sull’obbligazione ma anche sul contratto dal quale essa deriva. […] La creazione della nuova obbligazione può tuttavia escludere la sopravvivenza del rapporto contrattuale. Ciò ha luogo quando il mutamento del rapporto è incompatibile con la causa del contratto originario o quando le parti manifestano la volontà di estinguere il precedente contratto e di sostituirlo col nuovo. In questi casi non vi è novazione della sola obbligazione ma novazione del contratto”.

[56] F. ANGELONI, op. cit., 947, nota 21.

[57] Si fa riferimento a G. AMADIO, op. cit., 511.

[58] Diversamente, infatti, le parti sarebbero costrette a risolvere per mutuo dissenso la donazione e successivamente stipulare un nuovo contratto di compravendita.

[59] A. BUSANI, Il contratto di “riqualificazione” della donazione di partecipazioni sociali in patto di famiglia, in Società, maggio 2016, 535 ss.; parla di accordo “integrativo” G. AMADIO, op. cit., 507.

[60] A. TORRENTE, P. SCHLESINGER, op. cit., 1414 ss.

[61] A. BUSANI, op. cit, 542.

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