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Attualità

Spunti attorno al trattato di D. Maffeis sui contratti del mercato finanziario

18 Luglio 2025

Mario Comana, Professore ordinario di Economia degli intermediari finanziari, Università Luiss

Di cosa si parla in questo articolo

La finalità del diritto civile della finanza è tutelare l’integrità e la competitività dei mercati, esigenza di ordine pubblico che passa attraverso la miglior cura dell’interesse dei clienti degli intermediari. Questo è ciò che coglie lo studioso di banche leggendo il trattato di Daniele Maffeis “I contratti del mercato finanziario” [1]. Lo coglie pienamente e lo accoglie con grande favore, perché costituisce le condizioni per lo svolgimento dell’attività degli intermediari, che presuppone proprio l’ordinata operatività dei mercati e la fiducia che in essi ripongono i clienti e gli altri attori professionali. Assunta questa prospettiva dovrebbe venir meno un po’ di quella insofferenza che tanti manager e professionisti della finanza avvertono, senza troppo peritarsi di celarlo, verso il corpus normativo, effettivamente un po’ strabordante e a volte troppo penetrante, che grava sull’organizzazione e l’operatività degli intermediari. Senza quell’apparato di regole, e di qualcuno che le fa applicare, il mercato semplicemente non esisterebbe, mancherebbe dell’elemento cruciale: la fiducia fra le parti. È vero che senza un minimo di fiducia fra i contraenti e di certezza delle regole non esisterebbe alcun tipo di scambio sistematico, nessun mercato, ma nel settore finanziario è ancora più importante. Perché il contratto finanziario è un programma di flussi finanziari futuri caratterizzato dalla presenza di alea, dice il Maffeis. Condivido molto questa definizione e l’impostazione che ne discende sul ruolo delle regole nella finanza. Infatti nella prima lezione del corso di economia degli intermediari finanziari chiedo agli studenti: “Quale materia pensate vi sia più utile per affrontare questo corso, la matematica o il diritto?” E poi rispondo che secondo me prevale il secondo, il diritto, perché gli strumenti finanziari che saranno oggetto dello studio e costituiscono ciò su cui si esercita l’attività degli intermediari, sono in primo luogo contratti. È vero, nelle sale trading vediamo più computer, modelli matematici, fogli Excel che codici civili e trattati di diritto finanziario come quello che commentiamo, ma quando qualcosa va storto, scendono in campo gli avvocati per dirimere le questioni tra le parti. Il contratto definisce le regole del gioco, stabilisce come devono comportarsi, quali diritti e doveri assumono e quali conseguenze derivano dal mancato rispetto dei patti. Il diritto predispone anche il quadro dei rimedi da attuare nei casi di inadempienza o di disaccordo. Perché allora i maghi della finanza, i trader e gli speculatori di maggior successo si nutrono di matematica finanziaria, sono dei quant se non addirittura dei nerd, provengono spesso da campi di studi con una importante componente quantitativa, sono ingegneri, matematici, fisici? Ho incontrato anche qualche filosofo ma più tanti fra geologi, chimici, ingegneri nucleari eccetera. Non sono loro che inventano gli strumenti finanziari, si limitano a lavorare con l’algoritmo, questa volta sì matematico, che definisce la misura delle controprestazioni fra le parti, che permette di rendere determinabile, ancorché magari non determinato al momento della stipula, quel programma di flussi finanziari che abbiamo visto essere il cuore del contratto. Le capacità di analisi matematica e computazionale sono certo molto utili, indispensabili, per gestire l’alea connaturata al contratto finanziario: quantificarla, descriverla in termini probabilistici, elaborare simulazioni, costruire scenari alternativi multipli, quasi infiniti, fin dove arriva la potenza di calcolo a disposizione. Ma questo non fa venir meno il fatto che lo strumento finanziario, dal più semplice al più complesso, sia un contratto, un insieme di obbligazioni sinallagmatiche la cui quantificazione tempo per tempo è scritta nel contratto stesso oppure trova nel contratto le regole per la loro futura determinazione, la traduzione in unità monetarie che una parte deve corrispondere all’altra.

Il contratto finanziario, dice Maffeis, è contraddistinto dalla presenza dell’alea, non foss’altro perché i flussi monetari che costituiscono le controprestazioni fra le parti sono fra loro differiti, e ha come causa il conseguimento di un profitto, è fatto in vista di una remunerazione, ancorché dal più al meno incerta. Ecco, qui si ritrovano gli elementi costituitivi dell’intermediazione finanziaria come attività d’impresa: assumere rischi (finanziari) per estrare valore dalla loro gestione. L’intermediario si nutre di rischi, che gli sono estranei e da cui potrebbero derivare perdite, perché è capace di tramutarli in una fonte di valore. Come? Applicando competenze professionali e dotazioni tecniche opportune e soprattutto in virtù della diversificazione, allestisce portafogli dove il rischio complessivo è inferiore alla sommatoria dei rischi individuali. Così, compera attività finanziarie che scontano un certo grado di rischio e rivende portafogli, o passività rappresentative dei portafogli, che scontano un minor grado di rischio e quindi valgono di più. Il rischio, elemento negativo, genera valore se opportunamente gestito. Come le aziende energetiche che completano il ciclo della raccolta dei rifiuti producendo energia.

Ma cosa c’entra il business model dell’intermediario con i contratti del mercato finanziario, che sono volti a regolare i rapporti fra le singole parti coinvolte? C’entra molto per almeno tre motivi. Il primo è che la gestione dei rischi effettuata dall’intermediario deve svolgersi in un mercato caratterizzato da un sufficiente grado di efficienza tecnica ed economica che appunto è assicurata da un adeguato assetto di regole offerto dal diritto positivo. Gli esperti delle case di investimento potrebbero creare i prodotti più astrusi, e talora lo fanno, se intravvedono occasioni di profitto. Il diritto civile della finanza pone un limite, costituito dall’obbligo di assicurare la tutela della controparte: il suo interesse economico e il suo diritto a conoscere tutti gli elementi (conoscibili) che lo mettono in grado di assumere una decisione consapevole. Anche di errare, ovviamente, ma consapevolmente. È un baluardo alla proliferazione di prodotti e servizi sconosciuti, fantasiosi o addirittura stravaganti che altri qualificherebbe semplicemente come innovazione finanziaria. O anche solo alle rappresentazioni bizzarre che se ne potrebbero dare. È un baluardo alla serietà del mercato, necessario e opportuno anche se potrebbe essere vista come una limitazione della libertà imprenditoriale del banchiere o del finanziere. Quanta cautela occorra nell’introduzione di nuovi strumenti finanziari e perfino di soluzioni tecniche per utilizzarli lo vediamo nel campo del fintech, dove per bilanciare la tutela di mercato con l’esigenza di non inibire il progresso tecnologico sono state introdotte le sandbox di sperimentazione delle nuove soluzioni.

Il secondo collegamento fra il business model dell’intermediario e il diritto civile della finanza è il fatto che il profitto dell’intermediario non può (e non deve) basarsi sullo sfruttamento del suo vantaggio informativo o della superiore competenza tecnica e gestionale né di altra asimmetria rispetto al cliente. Sarebbe un risultato effimero, probabilmente modesto, un gioco di corto respiro, anche se purtroppo qualcuno lo pratica. Operare per il miglior risultato del cliente non è solo una giusta politica commerciale ma concorre all’efficienza del mercato di cui alla fine tutti beneficiano, intermediari e clienti. Il terzo collegamento è la causa del contratto che per gli intermediari differisce da quella dei clienti. La banca o l’SGR non compera uno strumento finanziario perché si aspetta di trarre da quello specifico investimento un beneficio economico diretto e fine a sé stesso, non ragiona solo sul programma di flussi finanziari che da esso promana. Valuta il contratto finanziario in un’ottica di insieme, nel coacervo di flussi finanziari attesi nel tempo, ritenendo che contribuisca alla diversificazione del suo portafoglio (o quello del cliente) o a conseguire il profilo rischio – rendimento che ritiene ottimale. Visto così non sembrerebbe una logica tanto diversa da quella del singolo operatore, e allora forse bisogna aggiungere un’altra dimensione: l’intermediario spesso “subisce” le scelte dei clienti: quando accoglie una domanda di finanziamento non ha scelto il profilo di debitore astrattamente adatto a sé, ma accetta il rischio di quel cliente e le caratteristiche di durata e struttura del prestito che le viene proposto. Così allestisce un portafoglio crediti e titoli inizialmente disordinato, quasi senza una precisa pianificazione ma per rispondere alle richieste dei clienti. Successivamente analizza il profilo di rischio, di durata eccetera e pone in essere le azioni gestionali atte a ricondurre il profilo del portafoglio alle proprie scelte strategiche. Questo è ancora più evidente se pensiamo alla gestione del passivo dell’intermediario creditizio, che accetta di indebitarsi per accogliere il deposito che il cliente ritiene di fare. La causa del contratto, del singolo contratto con il cliente, è ancora la ricerca di un guadagno da quella specifica operazione? O è una causa diversa perché l’intermediario intende erogare un servizio soddisfacendo le richieste del cliente? L’intermediario agisce in senso speculare al cliente, accettando di ripianare le sue posizioni finanziarie attive e passive e le attese e le propensioni di investimento (o di indebitamento) del cliente. Si può concludere che per l’intermediario la causa del contratto è sempre presente e immutabile per definizione perché costituisce l’essenza della sua attività d’impresa, a prescindere dal rendimento atteso?

La sistematicità dell’intervento degli intermediari nei mercati comporta anche una diversa visione dei mercati stessi come luogo di scommessa. Maffeis spiega bene che l’accezione del termine non vuole essere riduttiva o, peggio, denigratoria. Non vuole svilire l’intermediario al ruolo di homo ludens, però non manca di citare l’analogia di Hudson fra il mercato finanziario e l’ippodromo: pur riconoscendo che “things are more complex”, alla fine equipara la scelta del contratto finanziario a quella del cavallo su cui scommettere. In realtà, questo non si attaglia all’intermediario finanziario (e per la verità, secondo me, neanche tanto alla generalità degli investitori) perché questi è relativamente indifferente al fatto che vinca il cavallo bianco o il cavallo nero. L’intermediario pone in essere una moltitudine di operazioni che configurano un insieme complesso e intricato di posizioni, governate e apprezzate in logica di portafoglio e non di singolo negozio. Come dire che l’intermediario scommette su tutti i cavalli e non importa chi vince. L’intermediario è l’allibratore, non lo scommettitore, e guadagna essenzialmente sul margine fra il fair value di una scommessa e il premio che per essa incassa. Poi può anche prendere una posizione propria, per il suo portafoglio, e su questa consegue perdite o profitti dirette e in questi casi è un investitore come un altro. Ma raramente, e direi erroneamente, sono singole “scommesse”: si tratta comunque di gestire un portafoglio nell’ottica di plasmare il profilo di rischio – rendimento coerente con gli obiettivi della gestione, delle prospettive congiunturali eccetera. E quando l’intermediario gestisce il portafoglio di terzi, opera nella stessa logica, anche se in questo caso il suo lucro è la commissione per il servizio e non la performance del portafoglio. Ne deriva anche una diversa prospettiva del concetto di operazione di investimento (assunzione di un rischio) e di copertura (protezione da un rischio). Il portafoglio è un crogiuolo dove si mettono posizioni di vario segno, durata, tipo di esposizione, in vista della realizzazione di una lega con desiderate caratteristiche. Come isolare il singolo ingrediente, la singola operazione?

Il portato di queste considerazioni è che nell’ottica dell’intermediario è impossibile, o meglio: non ha senso, leggere la singola operazione isolata dall’insieme di tutte le altre e questo sembra entrare in contrasto con la disciplina dei contratti che invece si limitano a contemplare il rapporto fra i contraenti. Anche da non giurista comprendo questa prospettiva. Però nella interpretazione dei contratti e nella valutazione dei casi concreti non si può dimenticare questa circostanza fondamentale. Le disparità fra l’intermediario e l’altro contraente, specialmente retail, non si limitano alla diversa competenza, forza contrattuale, dimensione patrimoniale ma si estendono necessariamente alla considerazione più ampia del quadro soggettivo e operativo entro cui si colloca il contratto.

Per paradosso, queste disparità vengono invece amplificate nell’interpretazione dei contratti quando si tratta della capacità delle parti di assumere l’alea contrattuale: il cliente è ignaro e privo di strumenti per formarsi una compiuta raffigurazione dell’alea e delle possibili conseguenze del suo investimento; l’intermediario è onnisciente e in possesso addirittura degli strumenti per prevedere il futuro andamento dei mercati. Ho letto in una sentenza in materia di derivati sui tassi che “la banca conosce l’evoluzione futura dell’Euribor”: magari! Non è questa la realtà. Certo, l’intermediario non può non disporre di fonti informative e capacità interpretative per leggere il quadro congiunturale e delineare possibili scenari evolutivi futuri. Ma non è così che gestisce il rischio, per sé o per i propri clienti, non scommettendo su quale tendenza si affermerà, bensì graduando tempo per tempo i rischi, spesso elidendoli con operazioni di segno opposto, magari a iniziativa dei clienti stessi, e lasciando aperte modeste porzioni di rischio in una direzione o nell’altra, per esempio rialziste o ribassiste ovvero delimitando l’orizzonte di duration sul quale la posizione è aperta. Il profitto nell’intermediario, ripeto, sta soprattutto nella capacità di governare, miscelare, mitigare i singoli rischi in un’ottica di portafoglio: sia di proprietà, sia per conto dei clienti. Molto meno nel rendimento diretto di un pacchetto di investimenti, cosa consentita ma sconsigliata su vasta scala.

Mi pare che il problema logico sia qui, forse più sul piano interpretativo che di definizione delle regole: la disciplina positiva mi sembra avere un approccio atomistico, considera le transazioni una per una e ne valuta l’aderenza alle regole in essere. Questo riflette la posizione del cliente, ma non calza con la prospettiva dell’intermediario. Non vorrei essere frainteso: non nego che l’investitore sia quasi sempre la parte debole o almeno con minori strumenti conoscitivi, a cui vanno offerti tutti gli elementi necessari all’assunzione consapevole dell’alea: l’intermediario che vuole operare correttamente non ha nessuna difficoltà a favorire la trasparenza del contratto e delle sue conseguenze e, ribadisco, la tutela del miglior interesse del cliente è lo scopo cui dovrebbe tendere il servizio dell’intermediario, non solo per una spinta ideale ma per il concreto contributo al migliore funzionamento del mercato stesso. Invito solo a considerare due cose: anche la scienza economica incontra difficoltà nella individuazione, misurazione e rappresentazione dei rischi e l’angolo buio dell’intermediario è forse superiore a quello che talvolta il giudicante ritiene; la comunicazione efficace della natura, entità e variabilità dei rischi a un non specialista è molto difficile. È vero che a volte i testi che rappresentano i rischi di un investimento risultano illeggibili per il non addetto ai lavori, ma non dipende sempre dalla volontà di risultare incomprensibili. A volte è semplice pigrizia dell’estensore; a volte è colpa degli avvocati che scrivono i testi contrattuali o i prospetti informativi preoccupati più della loro futura esegesi che dell’efficacia della comunicazione.

C’è un ultimo tema che vorrei trattare fra i molti suscitati dalla lettura del Maffeis. La tutela degli investitori e dei contraenti serviti dagli intermediari porta con sé un pesante apparato di disciplina, soprattutto regolamentare, che gli operatori del settore trovano eccessivo, asfissiante, spesso improntato al formalismo più che alla sostanza. Mi riconosco in parte in questo giudizio, anche se non ricorrerei ad aggettivazioni estreme, ma qui il punto non è tanto l’onerosità dell’impalcatura normativa bensì la compressione della libertà imprenditoriale. Il diritto, è noto anche a me, deve compendiare esigenze contrapposte. Studiando il manuale del Maffeis mi rimane il sapore della prevalenza nell’ordinamento della tutela del cliente, a scapito della possibilità dell’imprenditore della finanza di esprimere il suo potenziale creativo. È palpabile il sospetto che ogni cosa nuova sia una potenziale fregatura (più attuale che potenziale). Fa il paio con il diffuso pregiudizio che il finanziere sia un farabutto, pronto a inventare ogni stratagemma per approfittarsi del malcapitato cliente. Gli imbroglioni ci sono in tutte le categorie ma devo ammettere che nella finanza allignano di più semplicemente perché sono più vicini al bottino. Non è una buona cosa inibire l’innovazione per prevenire il rischio di qualche approfittatore. La storia della finanza è costellata di truffe e truffatori, ma non coincide con quella delle innovazioni. Il più celebre di tutti, l’italoamericano Charles Ponzi, esercitò il suo talento a partire nientemeno che dai francobolli! Per converso, la tutela accordata all’investitore è di stampo prettamente paternalista: si preferisce che il cliente sia trattato alla stregua dell’idiota (almeno nel senso di Dostevskij) piuttosto che responsabilizzarlo e indurlo a un percorso di crescita delle sue competenze. Salvo poi esaurire la tutela nel rito della apposizione di una serie di firme su documenti prolissi e incomprensibili ai più (che non vengono neppure più mostrati al cliente, complice l’utilizzo della firma su tablet, che salta a piè pari almeno l’ostensione del testo).

Credo fermamente che sia necessario evolvere verso un nuovo equilibrio che da un lato alleggerisca i formalismi e si concentri sulla tutela sostanziale del cliente, e dall’altro non inibisca l’energia e il potenziale innovativo degli imprenditori della finanza. Sotto l’occhio attento e competente delle autorità di vigilanza, da cui dovrebbe provenire un deciso ruolo propulsivo in tal senso.

 

[1] Volume 2024 del Trattato di diritto civile e commerciale, già diretto da A. Cicu e F. Messineo, L. Mengoni e P. Schlesinger, continuato da V. Roppo e F. Anelli, scritto da Daniele Maffeis, su “I contratti del mercato finanziario”.

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Mario Comana

Professore Ordinario di Economia degli intermediari finanziari, Università LUISS Guido Carli di Roma

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