SOMMARIO: Il saggio indaga la possibilità di sottoporre la nozione di “bene” a una concettualizzazione alla luce del principio sostenibilità. La ridefinizione del concetto di bene nella prospettiva della preservazione delle risorse naturali influenza il contenuto della proprietà e delle altre forme dell’appartenenza, introducendo tanto un nuovo limite anti-dissipatorio quanto un interesse positivo alla preservazione della risorsa.
ABSTRACT: The essay investigates the possibility of submitting the notion of “good” to a conceptualization in light of the sustainability principle. The redefinition of the concept of the good from the perspective of the preservation of natural resources influences the content of property and other forms of belonging, introducing as much a new anti-dissipative limit as a positive interest in the preservation of the resource.
1. Introduzione
A distanza di più di un decennio, torno al tema della categoria di bene giuridico e della sua portata prescrittiva. Non vi è dubbio, infatti, che l’impatto sul sistema di diritto privato della riforma degli art. 9 e 41 Cost., realizzata con la legge cost. 11 febbraio 2022, n. 1, sia notevole e ad amplissimo raggio, ma che esso risulti particolarmente significativo sul terreno della concettualizzazione della nozione di bene e della ridefinizione del perimetro delle forme giuridiche dell’appartenenza, per quanto non si debba trascurare la pressione che la solidarietà intergenerazionale[1] esercita sul concetto giuridico di soggetto[2]. Com’è noto, l’art. 9, comma 3, Cost., proclama che la Repubblica «tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle generazioni future. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali». L’art. 41 Cost., al secondo comma, è stato arricchito dal riferimento alla necessità che l’attività economica privata si svolga in modo da non recare danno, oltre che alla salute, anche all’ambiente, mentre il terzo comma include tra gli indirizzi che la legge può fissare all’attività economica pubblica e privata anche i fini ambientali, accanto a quelli sociali[3]. La triade ambiente-biodiversità-ecosistemi rispecchia un orientamento che va consolidandosi nel dibattito dottrinale sulla tutela ambientale e che si approccia al diritto ambientale occidentale alla luce dei dettami e degli sviluppi pensiero sistemico, applicati anche sugli studi giuridici ecologici (di qui l’espressione «pensiero ecosistemico»)[4]. L’influsso del pensiero sistemico sulle riflessioni intorno all’integralità e alle interconnessioni dell’ecologia si riflette nell’adozione della prospettiva del sistema anche nella comprensione e nell’analisi delle interrelazioni tra individui e soggetti meta-individuali (sistemi sociali), tra organismi viventi o tra ecosistemi. La categoria del sistema poggia sull’idea di un insieme di parti che, una volta combinate, presentano qualità e caratteristiche nuove rispetto a quelle che in origine, e isolatamente considerate, esse esibivano. Tale assunto incide sul metodo di analisi e di risoluzione dei problemi complessi, il quale deve privilegiare i principi e le caratteristiche intrinseche dell’organizzazione piuttosto che l’esame delle singole componenti del sistema, sul presupposto che in un sistema è impossibile separare un singolo componente da tutti gli altri. In questa chiave concettuale e metodologica, non si possono scindere natura, società, diritto ed ecologia.
Nello stesso senso si orienta una voce autorevole, la quale, per un verso, ha reputato non dirimenti queste iniezioni di sensibilità ambientale e intergenerazionale nella Costituzione, così come il profluvio di norme che, in sede sia nazionale sia europea, hanno fatto, negli ultimi anni, costante, ancorché non sempre univoco, riferimento all’ambiente: entrambi questi fenomeni appaiono all’autore «modesti tentativi del legislatore di salvarsi l’anima»[5]. Per altro verso, maggiore fiducia viene riposta nella rottura dei paradigmi positivistici e nella presa d’atto che, nel procedimento interpretativo, l’oggetto è, in un certo senso, interno al soggetto e dialoga incessantemente con questo, sicché, sul piano ambientale e della sostenibilità, tutto ciò si traduce nell’acquisita consapevolezza che «l’ambiente è tutt’uno con noi. Non è soltanto fuori, è anche dentro di noi»[6].
Il principio della sostenibilità impone alla politica e al discorso tecnico dei giuristi una prospettiva di medio-lungo periodo: una lungimiranza che non può non implicare un contenimento dei furiosi impulsi dell’individualismo, incapaci di gettare lo sguardo oltre l’hic et nunc[7]. Richiede però un’attenta verifica se ciò esiga un superamento del paradigma utilitaristico, a favore di una sua ibridazione con un più marcato solidarismo sociale[8], oppure se ciò dia luogo a una rivisitazione del paradigma utilitaristico in chiave non individuale ma umanitaria, e per di più in prospettiva intergenerazionale[9].
È nel quadro di questa contrapposizione teorica che vanno, a mio avviso, lette le sollecitazioni a ripensare tanto il versante dell’oggettività giuridica, e in particolare dello statuto normativo del bene, quanto il versante della soggettività giuridica[10]. Lascerò impregiudicata in questo studio la questione dell’opportunità di ripensare alla soggettività, sganciandola dal substrato antropologico-naturale[11], così da saggiarne l’idoneità ad abbracciare interessi attuali riferiti a individui ancora non esistenti, cui si allude con la formula “generazioni future”. Tenterò invece di dimostrare che almeno alcuni dei conflitti sociali e delle esigenze che si vorrebbero risolvere e disciplinare ampliando l’area della soggettività possono trovare un’acconcia via di regolazione, ridefinendo il concetto di bene e il contenuto delle forme giuridiche dell’appartenenza.
La tendenza a espandere l’area della soggettività si presenta, in alcune letture, ancora più ambiziosa, mirando a configurare non semplicemente diritti delle generazioni future, ossia di soggetti non ancora fisicamente esistenti, ma esistenti sul piano dell’oggettività dei loro interessi attuali a fruire di una natura non compromessa irrimediabilmente, ma addirittura “diritti della natura”[12]. I casi di estensione dell’area della soggettività per il perseguimento dell’obiettivo dello sviluppo sostenibile, se non addirittura del più marcato contrasto nei confronti degli eccessi rapaci del capitalismo, sono noti. Grande clamore ha suscitato l’ordinanza adottata nel 2010 dal Consiglio comunale della città di Pittsburgh che, invocando gli «inalienable and fundamental rights to exist and flourish» delle comunità naturali e degli ecosistemi, ha vietato alle corporations l’attività di fracking, ossia quella pratica, inquinante e dannosa, che consiste nell’iniettare ad alta pressione nel sottosuolo acqua e altre sostanze chimiche in modo da forzare l’apertura di fessure esistenti per estrarre petrolio e gas dai depositi scisti[13]. Altrettanto clamoroso è stato il tentativo della Corte costituzionale colombiana di porre fine all’utilizzo intensivo, e su vasta scala, di metodi di estrazione mineraria e di sfruttamento forestale affidato alla dichiarazione del fiume Atrato, unitamente al suo bacino e affluente, come entità «soggetto di diritti a protezione, conservazione, mantenimento e ripristino a carico dello Stato e delle comunità locali»[14]. Più di recente, il 5 luglio 2024, il Tribunale di Quito, in Ecuador, ha emesso una sentenza che ha riconosciuto la responsabilità del Comune di Quito per la violazione dei diritti del fiume Machángara, Il giudizio è stato introdotto dai Kitu Kara, una comunità indigena, e dall’organizzazione ambientalista internazionale Global Alliance for the Rights of Nature (GARN), al fine di sostenere che l’inquinamento del fiume rappresenta una violazione dei diritti costituzionali della natura. L’epilogo non deve stupire, tenuto conto che l’art. 71 della Costituzione dell’Ecuador, del 2008, proclama che la natura, indicata anche con il nome indigeno Pacha Mama, ha diritto di esistere, essere conservata e rigenerata nei suoi cicli di vita, struttura, funzioni e processi evolutivi. La medesima disposizione riconosce legittimazione ad agire diffusa per la salvaguardia dei diritti della natura[15].
La strategia protettiva dell’ambiente e del clima affidata all’ampliamento della categoria della soggettività, se non addirittura all’ipostatizzazione della natura come soggetto, è dunque ispirata da ragioni eterogenee. E vanno anche tenuti in considerazione i diversi contesti normativi. La mossa di agire sulla soggettività, specie con il diretto riconoscimento di diritti alla natura, potrebbe apparire rozza, o comunque ingenua, agli occhi dell’osservatore europeo[16], che però gode di una disciplina armonizzata di salvaguardia dell’ambiente oramai consolidata e di una tradizione dogmatica che difficilmente consentirebbe, per ragioni culturali, ideali e filosofiche, di scindere il binomio tra soggetto e uomo a favore dell’idea di un “essere sociale” disincarnato[17]. Basti pensare alla Costituzione svizzera, particolarmente sensibile all’ambiente e alla biodiversità, tanto da dedicarvi l’intera Sezione 4, senza tuttavia valicare la linea della natura come oggetto di protezione da parte della Confederazione (art. 78)[18]. E tuttavia non andrebbe trascurato il dibattito sviluppatosi nella cultura occidentale, e nell’ambito delle scienze morali, sul valore intrinseco delle risorse naturali e delle cose-essere viventi, nel quadro di un’etica per la natura[19]. Bisogna tuttavia tenere nel giusto conto che in altre tradizioni culturali e giuridiche e, soprattutto, in contesti nei quali la tutela dell’ambiente stenta ad affermarsi in maniera effettiva, il ricorso alla categoria della soggettività riveste una portata non soltanto suggestiva, ma anche politica.
Se la contrapposizione tra utilitarismo rivisitato e solidarismo si muove, pur sempre, in un orizzonte antropocentrico, l’estensione della soggettività in modo da includervi le risorse naturali, così da potere concepire diritti direttamente in capo ad esse, comporta l’abbandono dell’approccio antropocentrico[20]. La scelta impatta, però, anche sulla concezione del diritto, esigendo il superamento della convinzione – ben espressa da Ermogeniano[21] – per cui hominum causa omne ius constitutum est.
2. Bene in senso lato, bene in senso stretto e oggettività
È opportuna una preliminare chiarificazione concettuale. Il sintagma “bene giuridico” si carica di significati diversi nel discorso dei giuristi ed è necessario precisarne i contorni. In una prima accezione, il bene giuridico indica l’interesse, patrimoniale e non, rilevante per l’ordinamento giuridico. In questo senso piuttosto ampio, il bene giuridico designa, più in particolare, l’interesse rilevante in quanto oggetto di una particolare protezione. È usuale questo impiego del sintagma “bene giuridico” in sede penale[22] e, più in generale, nei sistemi di responsabilità, così da indicare l’interesse la cui lesione giustifica la reazione dell’ordinamento giuridico tramite o l’irrogazione di sanzioni in senso tecnico o il ricorso ai rimedi civilistici, prima tra tutti la riparazione del pregiudizio conseguente mediante il risarcimento del danno oppure, addirittura, l’inibitoria della condotta lesiva, se non addirittura pericolosa, o ancora tramite entrambi le classi di conseguenze negative. Questa prima accezione di “bene giuridico” abbraccia tutti gli interessi, sottratti alla condizione di mero fatto pre-giuridico e resi rilevanti in chiave conservativa nei termini stabiliti dal diritto oggettivo, e, di conseguenza, include gli interessi relativi all’uso delle cose e delle oggettività immateriali e alla disposizione dei relativi diritti. Questa accezione lata, che sostanzialmente coincide con il fatto rilevante sotto uno o più specifici interessi umani, si attaglia anche all’ambiente, inteso come sistema che include risorse naturali, individui e rapporti sociali. E ancora di più si presta a conferire una collocazione al clima sotto il profilo del contrasto dell’innalzamento della temperatura globale per effetto di emissione di gas serra[23].
La dogmatica giuridica conosce, però, un concetto più ristretto e, in questo senso, più tecnico del sintagma “bene giuridico”. In questo significato più circoscritto, il bene giuridico designa le entità, materiali e immateriali, distinte dai soggetti sulle quale si proiettano i bisogni economici e personali di questi ultimi. Il bene è, dunque, tutto ciò che viene assunto come idoneo per l’ordinamento giuridico a soddisfare le esigenze di auto-appagamento del soggetto, o di appagamento dei bisogni della sua comunità di riferimento, oppure le esigenze economiche o ancora entrambe. È questo il significato in cui il termine bene è adoperato nel Libro III del codice civile al fine di delineare i confini dell’area della realità, a partire dal fondamentale art. 810 c.c., sul quale si tornerà a breve. Nell’accezione appena abbozzata l’ordinamento adopera la categoria del bene per assolvere alla sua funzione attributiva, ossia per l’individuare le entità materiali e immateriali sulle quali i soggetti sono autorizzati a esercitare la propria tensione appropriativa, con effetto escludente degli altri, o anche a compiere atti di godimento collettivo[24]. La nozione di bene giuridico in senso stretto è, dunque, funzionale a identificare una categoria di diritti soggettivi, i diritti reali per l’appunto, che si caratterizzano non soltanto per l’attribuzione di un diritto di godimento del bene opponibile ai terzi, oppure diritti di sfruttamento comunque opponibili ai terzi, come nel caso emblematico dei diritti di proprietà intellettuale. Diritti reali in senso stretto e diritti di sfruttamento opponibili a terzi sono accomunati da una forma di tutela specifica particolarmente intesa, perché esercitabile, se non proprio erga omnes, nei confronti di chiunque violi le prerogative del titolare[25] e non soltanto nei confronti di una controparte specifica, storicamente identificata come actio in rem.
Ecco allora che è possibile distinguere i terminali di un processo di oggettivazione che, pur esprimendo un’entità distinta dal soggetto, beni non sono. Sono oggettività, o se si preferisce oggetti, quelle entità distinte dalle persone e dotate di una consistenza anche immateriale, purché individuabili con sufficiente chiarezza, prese in considerazione dall’ordinamento giuridico e integrate nelle sue disposizioni. Secondo un’opinione autorevole, soltanto se l’oggetto esprime un valore d’uso e il relativo diritto viene considerato dall’ordinamento idoneo a essere venduto, permutato o comunque a essere oggetto del traffico giuridico, esso integrerà anche un bene[26].
Sono oggettività, o oggetti, e non anche beni i dati personali, in quanto destinatari di una complessa disciplina, che disciplina, in pari tempo, l’interesse di terzi (i titolari del trattamento) ad accedere e utilizzare le informazioni personali sul conto altrui con l’interesse dell’interessato a controllare le operazioni di trattamento e a riappropriarsi dei propri dati. Una disciplina assai articolata che bilancia – come recita l’art. 1 reg. (UE) 2016/679 (GDPR) – la libera circolazione dei dati personali con i diritti e le libertà fondamentali degli interessati, ma che non sembra aver ancora determinato la reificazione dei dati personali[27]. Anche l’aria nell’atmosfera è oggetto, ma non è bene, e via dicendo (parte V codice dell’ambiente (artt. 267 ss. cod. amb.) relativa alle norme di tutela dell’aria e della riduzione delle emissioni in atmosfera, nonché dall’art. 452-bis c.p.: reato di inquinamento ambientale).
3. Le conclusioni dello studio precedente
Come si è chiarito in apertura, poco più di un decennio fa ho avuto modo di condurre una ricerca sulla nozione di bene[28], che mi ha condotto a queste conclusioni. In primo luogo, il temperamento della concezione formale di bene, che affida interamente il processo di reificazione alla qualificazione ad opera dell’ordinamento, tendendo così a sminuire il ruolo dell’art. 810 c.c. nella ricerca della nozione di bene giuridico: norma la cui funzione si esaurirebbe nel delimitare il campo applicativo della disciplina dei diritti reali[29]. La concezione formale non va ripudiata[30], ma va corretta nell’assunto che qualifica come beni tutte le entità prese in considerazione, sotto qualsiasi riguardo, dall’ordinamento giuridico. In tale riformulazione la concezione formale affida gli indici di identificazione del bene al sistema normativo[31], senza però far coincidere la qualità di bene con la mera rilevanza giuridica dell’entità, come inevitabilmente accade quando l’attenzione si appunta soltanto sugli interessi connessi alla cosa, con la conseguenza che un’entità viene annovera tra i beni se si presenta come il termine di riferimento oggettivo di un interesse reputato meritevole di tutela da parte dell’ordinamento[32]. Come si è chiarito in precedenza, la nozione di bene va tenuta distinta da quella di oggettività o di oggetto.
In secondo luogo, si è proposto di superare il dogma fisicalista che identifica le cose con le entità corporali. In questa rinnovata cornice dogmatica, si suggeriva di prendere atto[33] che il progresso delle conoscenze scientifiche e tecnologiche e il conseguente avanzamento degli orizzonti del sapere, con l’inevitabile riconsiderazione della categoria del reale, hanno definitivamente affrancato la cosa dal presupposto fisicalista, includendovi una gamma di prodotti dell’intellettualità di natura disparata ma tutti accumunati sotto il segno dell’immaterialità e soprattutto dell’oggettivazione in termini di datità[34], in quanto oramai del tutto affrancati dalla matrice soggettiva che li ha creati, così da escludere dal novero delle cose le prestazioni ancora dovute[35]. Cosa è, dunque, quel punto di riferimento oggettivo che, sottoposto al processo sociale di conferimento di senso, viene concepito come capace di produrre benefici in grado di generare interessi umani o di natura introflessa – e allora tali interessi possono essere ricondotti alla categoria dell’auto-appagamento ossia del godimento – o di natura estroflessa ossia destinati a tradursi in relazioni sociali – e allora tali interessi possono essere ricondotti alla categoria della negoziabilità ossia della disposizione[36]. Il minimo cosale è rappresentato però dall’attitudine dell’entità allo sfruttamento[37] individuale o collettivo o civile[38].
In terzo luogo, si era approdati a una concezione di bene che ne individua la cifra nell’identificazione del bene con la cosa[39], materiale o immateriale, assunta dall’ordinamento giuridico come possibile oggetto di regole di appartenenza orientate, non tanto – come invece reputa una corrente di pensiero autorevolmente rappresentata[40] – alla tutela, quanto piuttosto alla circolazione lato sensu delle situazioni soggettive che vi si appuntano[41]. Si è avuta, tuttavia, l’accortezza di riconoscere che «non è detto che il legame tra qualificazione di bene e circolazione giuridica delle relative situazioni soggettive rappresenti l’unica prospettiva possibile, ma sicuramente è quella attuale alla luce del diritto positivo e, dunque, imprescindibile per chi voglia discorrere del diritto come esso è e non impegnarsi soltanto nella progettazione del diritto come potrebbe essere o come è auspicabile che sia. L’attribuzione in funzione circolatoria rappresenta l’elemento normativo che integra il disposto dell’art. 810 c.c. consentendogli di assolvere quella funzione regolativa che nella sua nuda formulazione tale enunciato non sarebbe in grado di realizzare a causa dell’assenza di un criterio normativo sufficientemente specifico»[42].
E tuttavia una nozione di bene giuridico che voglia rivelarsi prescrittiva, nel modo in cui può esserlo una categoria normativa, vale a dire esercitando una spiccata valenza selettiva dei fatti rilevanti ai fini per cui la categoria è elaborata, esige uno o più criteri di identificazione sufficientemente definiti[43]. Non lo è il generico riferimento all’attitudine della cosa a soddisfare, direttamente o indirettamente, bisogni umani, nel senso della preordinazione a soddisfare un interesse umano, individuale e collettivo[44]. Vi sono cose che tale attitudine l’hanno, ma non per questo possono essere qualificati come beni, nei termini illustrati in precedenza, che a me paiono quelli che più correttamente identificano i tratti funzionali all’individuazione dell’area della realità. Il caso forse più emblematico è rappresentato dai dati personali, rispetto ai quali la legislazione non ha riconosciuto poteri di appropriazione a favore del titolare del trattamento, ma a dire il vero neppure nei confronti dell’interessato. Altrettanto può dirsi dell’aria nell’atmosfera o della luce del sole etc., che non possono neppure essere annoverati tra le res communes omnium perché né l’aria né la luce solare sono assunti dall’ordinamento come entità appropriabili in vista dello sfruttamento personale e dell’assoggettamento a un determinato regime di circolazione giuridica.
Esiste ovviamente una sistemazione alternativa e non incompatibile con quella qui delineata: una sistemazione che mette capo a una nozione meno stringente di bene giuridico salvo poi elaborare l’ulteriore categoria dei beni comuni, i quali si contraddistinguono per la strumentalità all’appagamento dei diritti fondamentali dell’individuo e allo sviluppo della persona umana nonché per la conseguente sottoposizione a un regime che esclude l’appropriazione esclusiva e consente invece un accesso diffuso alla cosa e un godimento inclusivo[45]. Nella categoria dei beni comuni[46] si è soliti includere cose che, nella tassonomia qui offerta, non potrebbero, de iure condito, essere annoverate tra i beni giuridici, come l’aria, le zone montane di alta quota, i ghiacciai e le nevi perenni etc.[47].
L’irrompere del principio di sostenibilità introduce un elemento normativo di novità che arricchisce gli indici categoriali desumibili dalla disciplina, codicistica e speciale, relativa ai beni e che sollecita a verificare se i criteri dell’appropriazione in vista della circolazione si rivelino ancora esaustivi come criteri identificativi della nozione di bene sia con riguardo ai c.d. nuovi beni sia con specifico riferimento alle risorse naturali; oppure se essi richiedano una precisazione, se non addirittura un’integrazione.
4. Il problema dei c.d. nuovi beni
Il sintagma “nuovi beni”, o new properties per adoperare un’espressione resa celebre da Charles Reich[48], designa quella vasta ed eterogenea area dell’oggettività[49] che sembra reclamare un regime giuridico analogo a quello dei beni tradizionali, materiali e immateriali, e che si candida, quindi, ad ampliare l’area della realità. Si diceva dell’eterogeneità di questo campo e, infatti, in esso si fanno usualmente rientrare le idee di natura creativa, coperte dal diritto d’autore, le idee e i procedimenti produttivi di applicazione industriale, oggetto dei diritti di c.d. proprietà industriale, e le energie[50], della cui natura di bene non dovrebbe dubitarsi; ma anche i dati personali, i rifiuti[51], i campioni biologici e le biobanche[52] e poi la gamma di entità oggettive istituite, ossia costituite ex nihilo dal diritto[53] e in tal senso artificiali[54], come i diritti edificatori[55], i diritti di radiofrequenze[56], le quote latte[57], le bande orarie aeroportuali[58], le quote di emissione di gas serra[59].
È necessario rifuggire dalla tentazione di identificare i nuovi beni con l’area dell’immaterialità[60]. Quest’ultima include entità di cui è oramai consolidato l’inquadramento come beni e basti pensare alle creazioni oggetto della c.d. proprietà intellettuale, alle informazioni di natura commerciale, alle banche dati, alle energie, le quali sono naturali ma immateriali etc. Per converso non tutte le epifanie dei c.d. nuovi beni sono caratterizzate da immaterialità, come nel caso dei rifiuti o dei campioni biologici.
Il discorso è più complesso[61] e non può essere affrontato correttamente se non dopo avere sciolto due nodi preliminari. Il primo investe la scelta se riconoscere o meno autonomia alla nozione giuridica di bene rispetto a quella economica. Nel pensiero economico è bene ogni utilità, materiale o immateriale, utile e presente in quantità limitata: utile, in quanto idoneo a soddisfare un bisogno economico, e scarso, in quanto rispetto a esso si deve sviluppare un mercato che governi l’accesso all’utilità mediante il pagamento di un prezzo. Adottando questa prospettiva, pressoché tutti i nuovi beni andrebbero qualificati come beni giuridici. Se invece alla nozione di bene in senso giuridico si vuole riconoscere un’autonoma capacità selettiva in grado di sceverare tra i beni in senso economico quelli che sono anche beni in senso giuridico, allora è indispensabile individuare un criterio identificativo che consenta tale selezione, fissando i tratti tipologicamente caratterizzanti il bene in senso giuridico. Qualora venga privilegiata – come io credo debba farsi – quest’ultima posizione, allora bisogna anche interrogarsi sulla funzione della categoria normativa di bene. Agli interpreti più acuti è infatti chiaro che la funzione normativa della nozione di bene è proprio quella di realizzare una selezione tipologica della realtà[62]. Come si è già anticipato, la nozione autonoma di bene giuridico mira a identificare una categoria di diritti soggettivi caratterizzata dall’attribuzione dell’entità utile a un soggetto, o a una comunità, e dall’opponibilità ai terzi, anche grazie al presidio di una tutela specifica ampia e non soltanto del rimedio per equivalente. Il processo di reificazione non è però governato soltanto dalla funzione, poiché – come si è già accennato – la qualificazione di un’entità come bene presuppone che essa, materiale o immateriale che sia, abbia subito un processo sociale di conferimento di senso tale da essere concepita come capace di produrre benefici generalizzati, in grado di generare interessi umani, in quanto, per l’appunto “cosa”.
L’ancoraggio della qualificazione di bene al riconoscimento sociale dell’entità come cosa consente di sciogliere il dubbio sulla qualificazione di quei diritti di creazione amministrativa[63], sotto forma di permessi, licenze e concessioni che danno accesso a una risorsa o un’attività. Non è infatti sufficiente al compimento del processo di reificazione la strumentalità dei diritti di creazione amministrativa all’istituzione di mercati artificiali del tutto “speciali” ma regolati, i c.d. secondary trading, ai quali la politica economico-sociale europea affida il perseguimento di determinati obiettivi, mediante il gioco degli incentivi[64], volti per lo più a porre rimedio ai costi sociali generati dalle esternalità negative di taluni settori dell’economia[65]. Il requisito della “cosalità” esige che l’entità, materiale o immateriale, in predicato di divenire bene si riveli strumentale all’appagamento di bisogni umani generalizzati e non già settoriali o, addirittura, iper-specialistici. La vocazione a soddisfare interessi di godimento e di disposizione, individuali o collettivi, diffusi nel corpo sociale costituisce l’essenza del concetto di bene e il presupposto stesso del riconoscimento delle forme di appartenenza. Oltre questa linea si stende l’area vasta ed eterogenea dei diritti o delle posizioni di vantaggio la cui titolarità[66] è suscettibile di circolazione per finalità lucrative o regolative del mercato o ancora di entrambe. Diritti di credito, diritti edificatori, diritti di radiofrequenze, quote latte, bande orarie aeroportuali, quote di emissione di gas serra sono beni in senso economico, ma non anche in senso giuridico. Si tratta di diritti e di posizioni di vantaggio che, ove immesse nel circuito della circolazione e limitatamente a tale fine, assumono una valenza ulteriore rispetto ai poteri e alle facoltà che conferiscono o del riconoscimento e della protezione che accordano, divenendo oggettività non reificate: oggetti che non sono beni[67] perché non destinati a soddisfare bisogni umani generalizzati[68].
5. Risorse naturali e razionalità della preservazione
Senza volere cedere alle opposte tentazioni di un utopistico irenismo o, tutt’al contrario, di un iper-realismo paralizzante ancorato alla prospettiva di un potere planetario, di là da venire, in grado di imporre il limite di accertata “sostenibilità”, è possibile tentare l’adeguamento degli strumenti giuridici già a disposizione al fine di coniugare lo sviluppo economico con la tutela dell’ambiente e il contrasto del cambiamento climatico. Il fine della sostenibilità si alimenta di una logica della preservazione di quelle risorse naturali che possono essere incluse nella categoria del bene. Non tutte le risorse naturali e le specie viventi sono infatti beni in senso giuridico. Non lo è – come si è anticipato – l’aria, la quale ancora non si presta a essere individualizzata in modo da esprimere utilità di godimento e di disposizione. Addirittura dell’aria si può dubitare finanche che integri gli estremi della cosa. Ovviamente ciò non comporta l’irrilevanza giuridica dell’aria, la quale è oggetto di protezione, costituendo quindi un’oggettività, come inequivocabilmente emerge dal d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, c.d. codice dell’ambiente, e in particolare dalla parte V (artt. 267 ss. cod. amb.) relativa alle norme di tutela dell’aria e della riduzione delle emissioni in atmosfera, nonché dall’art. 452-bis c.p. Quest’ultima disposizione è istitutiva del reato di inquinamento ambientale, il quale poggia sull’abusiva compromissione o deterioramento, significativi e misurabili, non solo delle acque, del suolo o del sottosuolo, di un ecosistema, della biodiversità, della flora e della fauna, ma anche dell’aria per l’appunto. Un discorso analogo a quello dell’aria può farsi per i micro-organismi e per molte altre componenti biotiche e abiotiche degli ecosistemi.
Bisogna allora limitare il discorso alle risorse naturali e alle specie viventi che sono suscettibili di inquadramento come beni, in quanto, in primo luogo, oggetto di un processo sociale di conferimento di senso che le considera isolabili dall’ecosistema e idonee a esprimere utilità di godimento e di disposizione; e, in secondo luogo, perché compatibili con le forme giuridiche dell’appartenenza, a loro volta suscettibili di essere immesse nel circuito circolatorio. Rispetto a questi beni di rilevanza ambientale, il principio costituzionale di sostenibilità e la sua proiezione sul piano della normativa ordinaria, costituita dal principio dello sviluppo sostenibile, sancito nell’art. 3 quater cod. amb.[69] introiettano nella nozione di bene una forma di razionalità ulteriore rispetto a quella dello sfruttamento delle risorse naturali o degli animali: la razionalità della preservazione. L’interesse a godere del bene di rilevanza ambientale, traendone le utilità di soddisfacimento personale o familiare, e a impiegarlo in usi economici, per lo più modificandolo, deteriorandolo o consumandolo, oltre che compiendo atti di disposizione sui diritti di appartenenza, va coniugato con l’interesse a conservarne, ove possibile, la funzionalità e la capacità di rigenerazione.
Il tentativo di riconcettualizzare il bene alla luce del principio della sostenibilità non assume soltanto una funzione ordinante e razionalizzatrice, ma persegue una finalità pratico-applicativa di rilevate impatto. Il perseguimento del fine dello sviluppo economico sostenibile non può essere certamente demandato in via esclusiva al diritto privato, dovendovi inevitabilmente concorrere adeguati interventi pubblicistici non solo e non tanto in sede di conformazione dell’azione amministrativa. Senza alcun dubbio il diritto privato può giocare un ruolo, quando la sostenibilità è coinvolta in singoli rapporti giuridici, vale a dire quando essa si manifesta – come è stato efficacemente detto – “in piccola scala”[70], anche se deve essere chiaro che la tutela dell’ambiente e il contrasto del cambiamento climatico travalicano la micro-dimensione tipica dei rapporti di diritto privato.
L’obiettivo della ridefinizione del concetto di bene nell’ottica anche della sostenibilità consiste, per l’appunto, nel rendere giuridicamente rilevanti forme di impiego irrazionalmente depauperatorio delle risorse naturali anche al di fuori dei procedimenti tesi alla salvaguardia dell’ambiente. Tale ampliamento dello spettro delle tutele passa, innanzitutto, dall’allargamento della legittimazione attiva a reagire in via giudiziaria agli usi delle risorse incompatibili con il principio di sostenibilità, anticipando l’ingresso della tutela rispetto alla preservazione dell’ambiente, la cui azionabilità è – com’è noto – appannaggio esclusivo dello Stato.
La razionalità della preservazione può assumere due diverse concretizzazioni giuridiche. In primo luogo, essa costituisce un interesse di ordine generale, che travalica dunque l’interesse individuale al godimento e allo sfruttamento economico del bene[71]. In tale epifania, l’interesse alla preservazione funge da limite interno al perseguimento dell’interesse al godimento e allo sfruttamento economico, rendendo lecite soltanto quelle forme di impiego del bene che, potendo, non proteggono la capacità rigenerativa della risorsa. Si è al cospetto di una modalità classica di coniugazione del perseguimento degli interessi privati con interessi generali: quella della funzionalizzazione. Qui la funzionalizzazione investe la nozione di bene e ovviamente si proietta poi sulle forme giuridiche dell’appartenenza[72], a partire dal diritto di proprietà[73]. In funzione di limite, l’interesse alla preservazione va coniugato in chiave sistematica con il dovere di precauzione sancito nell’art. 301 cod. amb.[74]. Si può addirittura sostenere che l’interesse alla preservazione, in qualità di connotato del bene giuridico di rilievo ambientale, divenga il presupposto dogmatico, sul piano delle qualità rilevanti del bene, del dovere di precauzione. Il rischio per la salute umana e per l’ambiente, individuabile a seguito di una preliminare valutazione scientifica obiettiva (art. 301, comma 2, cod. amb.)[75], che fa scattare l’obbligo di pronta informazione delle autorità competenti, sancito dall’art. 301, comma 3, cod. amb., presuppone sempre il superamento del limite di preservazione del bene di rilevanza ambientale. Non vale però la reciproca, in quanto vi sono impieghi delle risorse naturali che, pur non esponendo al rischio scientificamente rilevante la salute umana o l’ambiente, si possono comunque rivelare eccessivamente dissipatori in chiave di conservazione delle capacità della risorsa di rigenerarsi o, per lo meno, di non esaurirsi in un arco temporale troppo ristretto. E, allora, è certa la rilevanza del superamento del limite di preservazione del bene sul piano delle misure di prevenzione del danno ambientale e di ripristino di cui agli artt. 304 e seguenti cod. amb. e sul quello del risarcimento del danno di cui agli artt. 311 ss. cod. amb.
Bisogna, invece, verificare se la violazione del limite di preservazione giustifichi il ricorso a rimedi tipicamente propri dei rapporti di diritto privato, come, ad es., l’azione inibitoria[76], perché ciò consentirebbe una reazione affidata anche ad azioni a legittimazione attiva diffusa e non soltanto allo strumento del c.d. risarcimento del danno ambientale[77], che – com’è sin troppo noto – è affidato all’esclusiva iniziativa dello Stato (art. 311 cod. amb.)[78]. L’ipotesi è quella di un conflitto proprietario, o comunque inter privatos, incentrato sul superamento del limite interno di preservazione del bene, sulla falsariga dell’esercizio vietato della proprietà, e delle altre forme giuridiche dell’appartenenza, delineato dal divieto di atti emulativi (art. 833 c.c.). L’interesse violato è quello alla salvaguardia dell’integrità e della rinnovabilità dei beni dei terzi minacciati da usi irrazionalmente dissipatori del titolare contro cui si agisce, il che scongiura di sconfinare nell’ambito della tutela dell’ambiente, che conosce le procedure sue proprie e le ben note limitazioni di legittimazione attiva (artt. 298 ss. bis cod. amb.)[79]. E andrebbe verificata, specie in quella chiave integrata suggerita dall’approccio sistemico, l’ammissibilità di una tutela collettiva di cui agli artt. 840 bis ss. c.p.c. [80], sul presupposto che l’interesse individuale alla salvaguardia dell’integrità e della capacità rigenerativa dei beni minacciati dall’uso del bene che il convenuto attui in violazione del principio di sostenibilità integri i requisiti dell’azione inibitoria collettiva di cui all’art. 840 sexiesdecies, c.p.c.[81]. L’alternativa della valorizzazione degli interessi collettivi o diffusi, in breve sovra-individuali – non pare praticabile, in quanto il legislatore ha compiuto la scelta di demandare allo Stato la tutela di tali interessi generalizzati alla preservazione dell’ambiente, oltre che a un ambiente salubre[82]. La conclusione potrebbe essere diversa nel quadro delle climate chance litigations, ossia in un orizzonte più ampio e soprattutto intergenerazionale qual è quello del contrasto del cambiamento climatico[83], dove si profila un interesse diffuso alla conservazione delle condizioni di vivibilità per le generazioni future[84].
La seconda forma di concretizzazione della razionalità della preservazione prende, invece, la forma di un elemento in positivo della realità. L’interesse alla preservazione della risorsa può, infatti, assumere un rilievo squisitamente individuale e presentarsi come una delle finalità perseguite dal titolare della risorsa. In questa ulteriore manifestazione, la preservazione si affianca al godimento e allo sfruttamento economico della risorsa orientandone le forme di utilizzo. È forse questa la concretizzazione del principio di sostenibilità più interessante sul piano del rinnovamento del concetto di bene giuridico, nonché su quello delle tipologie di conflitto di cui essa può essere fomite ma anche criterio di risoluzione. In chiave di interesse positivo del titolare, l’obiettivo della preservazione legittima l’azione del titolare della risorsa nei confronti di quelle forme di utilizzo dissipatorio delle risorse naturali nella titolarità (in qualità di proprietario) o nella disponibilità (in qualità di concessionario) di terzi che mettono a repentaglio la conservazione del bene dell’attore. Si pensi a un intensivo impiego di pesticidi chimici da parte del proprietario di un terreno che rischia di compromettere, anche in termini di durabilità, l’integrità del suolo e della falda freatica del vicino, il quale, dunque, può agire ex art. 844 c.c.[85] al fine di preservare il proprio bene e le altre risorse naturali che su di esso insistono. E si pensi ancora all’esposizione alle acque salmastre dei fondi costieri in proprietà privata determinata dalla scelta del comune di non effettuare interventi di ripascimento della spiaggia, consentendo così l’acuirsi dell’erosione della costa da parte del mare, favorita dalle opere di ampliamento delle barriere del porto turistico. Questi e molti altri che sarebbe agevole prefigurare sono tipici conflitti proprietarî, che, tuttavia, sono incentrati sul perseguimento attivo dell’interesse del proprietario agente alla conservazione dell’integrità e della capacità rigenerativa della risorsa naturale di cui è titolare. In altri termini, non v’è necessaria incompatibilità tra interesse individuale e attuazione del principio di sostenibilità, così come non v’è necessaria divergenza tra perseguimento dell’utilità individuale e perseguimento di valori morali o di fini politici consacrati in principî giuridici. Senza dubbio, così come non si può predicare l’assoluta incompatibilità tra interesse individuale e principî, allo stesso modo non si può ingenuamente assumere la costante convergenza tra la dimensione individuale e la prospettiva assiologica generale. Ecco perché la connotazione utilitaristica della sostenibilità propria del bene va sempre coniugata con la sua circoscrizione di ordine generale, in funzione del perseguimento del fine della preservazione del singolo bene e della precauzione ambientale.
6. La specificità degli animali
Gli animali costituiscono l’ambito problematico nel quale si è formata la più risalente tradizione di pensiero impegnata a scalfire l’antropocentrismo per attribuire un precipuo valore in sé ai viventi-non umani, se non addirittura per imporre una diversa prospettiva biocentrica.
Nell’analizzare lo statuto giuridico degli animali conviene adottare un canone metodologico particolarmente proficuo, che suggerisce di muovere dalle caratteristiche delle diverse tipologie di entità nel concettualizzare il bene e nell’individuare le forme di appartenenza cui affidare il processo di reificazione[86]. Tale criterio vale sempre e consente di meglio modulare le forme di utilizzo del bene che, in estrema sintesi, sono indicate con le formule: facoltà di godimento e potere di disposizione. Il canone della rilevanza delle caratteristiche intrinseche del bene diviene addirittura cruciale nel dibattito sulla qualificazione degli animali. Il loro tradizionale inquadramento nella categoria dei beni deve, infatti, fare i conti con il loro connotato di esseri senzienti, che sin dall’antichità non è passato inosservato. Cicerone, nel De re publica, ricordava che «Pitagora ed Empedocle avvertono che tutti gli esseri viventi hanno eguali diritti, e proclamano che pene inespiabili sovrastano a coloro che rechino offesa a un vivente». Jeremy Bentham, ne Introduzione ai Principi della Morale e della Legislazione, riconosce agli animali la natura di esseri senzienti, ossia esseri capaci di provare emozioni. Tale capacità di avvertire il piacere e il dolore rende per Bentham doveroso conferire loro equa considerazione, il che non implica di escludere che essi possano essere uccisi o sfruttati, ma impone di minimizzare, se non addirittura escludere, la loro sofferenza[87]. Sulla scia di Bentham, si deve a Peter Singer la fondazione della “questione animale” dal punto di vista etico-filosofico in chiave contemporanea, in una prospettiva che mira a contrastare le discriminazioni fondate sul concetto di specie[88] e privilegia l’esigenza di massimizzare la soddisfazione delle preferenze del maggior numero di esseri senzienti[89]. Addirittura Tom Regan teorizza i diritti degli animali, sul presupposto che gli uomini, a prescindere dal loro grado di razionalità (basti pensare ai bambini e agli incapaci di intendere e di volere), così come gli animali devono essere considerati soggetti-di-una vita, ossia esseri autocoscienti che nutrono desideri, speranze e sono in grado di pensare al futuro[90].
Nei sistemi giuridici occidentali è ancora prevalente la considerazione degli animali come res e, nella specie, beni mobili[91]. Per limitarci al sistema italiano, basti pensare alle indicazioni normative fornite dal codice civile. L’art. 820 c.c. qualifica i parti degli animali come frutti naturali; gli artt. 923 ss. prevedono espressamente gli animali come oggetto di acquisto della proprietà per occupazione; l’art. 1496 c.c. contempla il diritto sugli animali come possibile oggetto del contratto di vendita; l’art. 2052 c.c. equipara l’animale alle cose inanimate ai fini della fondazione della responsabilità nei confronti dei terzi del proprietario o di “chi se ne serve per il tempo in cui lo ha in uso”. Un segnale della disponibilità dell’ordinamento giuridico a mutare il paradigma, attribuendo rilievo alla natura di esseri senzienti degli animali, si è avuto con l’introduzione dell’art. 727, comma 2, c.p. che delinea una contravvenzione per l’abbandono di animali, sul presupposto della loro irriducibilità a semplici oggetti di diritti delle persone e della loro capacità di provare sofferenza[92]. Una svolta ancora più decisa nel senso del riconoscimento giuridico dell’animal welfare si è avuta con il d.lgs. 20 luglio 2004, n. 189, “Disposizioni concernenti il divieto di maltrattamento degli animali, nonché di impiego degli stessi in combattimenti clandestini o competizioni non autorizzate”, che ha introdotto il Titolo IX bis nel Libro II del codice penale “Dei delitti contro il sentimento per gli animali”. L’art. 544 bis c.p. introduce il delitto di “uccisione di animali” stabilendo che «chiunque, per crudeltà o senza necessità, cagiona la morte di un animale è punito con la reclusione da quattro mesi a due anni». L’art. 544 ter c.p. tipizza, invece, il delitto di “maltrattamento di animali”, sancendo che «chiunque, per crudeltà o senza necessità, cagiona una lesione ad un animale ovvero lo sottopone a sevizie o a comportamenti o a fatiche o a lavori insopportabili per le sue caratteristiche etologiche è punito con la reclusione da tre a diciotto mesi o con la multa da 5.000 a 30.000 euro. La stessa pena si applica a chiunque somministra agli animali sostanze stupefacenti o vietate ovvero li sottopone a trattamenti che procurano un danno alla salute degli stessi. La pena è aumentata della metà se dai fatti di cui al primo comma deriva la morte dell’animale». L’art. 544 quater c.p. delinea il delitto di “spettacoli o manifestazioni vietati”, per cui «Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque organizza o promuove spettacoli o manifestazioni che comportino sevizie o strazio per gli animali è punito con la reclusione da quattro mesi a due anni e con la multa da 3.000 a 15.000 euro. La pena è aumentata da un terzo alla metà se i fatti di cui al primo comma sono commessi in relazione all’esercizio di scommesse clandestine o al fine di trarne profitto per sé od altri ovvero se ne deriva la morte dell’animale»[93]. Nelle previsioni penali viene assegnata centralità in chiave di individuazione del fatto di reato alla sofferenza e alla salute degli animali, così riconoscendone il rango di esseri senzienti. Che tutto ciò faccia segnare il conferimento agli animali della qualificazione di soggetti, ancorché non personificati, è contestabile, in quanto le stesse norme penali presuppongono che gli animali possano essere oggetto di diritti delle persone intorno ai quali si sono sviluppate attività economiche lecite, come l’allevamento e il trasporto, che poi hanno riflessi significativi anche sulle altrenattività produttive come l’abbigliamento, la cosmesi e l’arredamento. Se ne trae conferma dalla previsione dell’art. 544 sexies c.p. che, nel caso di condanna[94] per i delitti previsti dagli artt. 544 ter, 544 quater e 544 quinquies c.p., prevede che sia sempre ordinata la confisca dell’animale, salvo che appartenga a persona estranea al reato; e prevede altresì la sospensione da tre mesi a tre anni dell’attività di trasporto, di commercio o di allevamento degli animali se la sentenza di condanna o di applicazione della pena su richiesta è pronunciata nei confronti di chi svolge le predette attività.
Al di là della stucchevole retorica, sembra trovare conferma che l’orizzonte di comprensione del rapporto tra animale e uomo sotteso a questa nuova stagione normativa di valorizzazione della specificità degli animali quali esseri senzienti sia ancora quello delineato da Kant. Un orizzonte di senso nel quale il male nei confronti degli animali è in ultima istanza un male nei confronti dell’uomo sul presupposto che chi è crudele nei confronti degli animali è altrettanto insensibile verso l’uomo, sicché i doveri nei confronti degli animali sono doveri indiretti, perché doveri verso sé stessi e l’umanità[95]. Non si muove in senso distonico l’ABGB austriaco che, al § 285a sancisce «Tiere sind keine Sachen; sie werden durch besondere Gesetze geschützt. Die für Sachen geltenden Vorschriften sind auf Tiere nur insoweit anzuwenden, als keine abweichenden Regelungen bestehen». La proclamazione che gli animali non sono cose esprime il lodevole obiettivo di rimarcare la loro specificità, ma non mira a negare loro natura oggetti di diritti dell’uomo, come testimonia l’ultima parte della disposizione che estende agli animali le norme sulle cose in assenza di disposizioni specifiche[96]. Nello stesso orizzonte si colloca il § 90a BGB, che ricalca il precedente austriaco, ribadendo che gli animali non sono cose[97]. Nel sistema tedesco la specificità degli animali è stata riconosciuta anche a livello costituzionale: la riforma del 2022 della Grundgesetz ha introdotto il § 20a che impone allo Stato la tutela delle condizioni vitali della specie umana e degli animali[98].
In Italia, la specificità degli animali nel più ampio quadro dei beni giuridici[99] non si esaurisce, sul piano penale, nella speciale rilevanza delle sofferenze e della crudeltà loro inflitte e, sul piano privatistico, nella speciale conformazione della facoltà di godimento e del potere di disposizione, le quali assumono contenuti diversi a seconda che l’animale sia da compagnia oppure da reddito nell’ambito dell’attività di allevamento. La distinzione è un’ulteriore conferma della perdurante realità degli animali o, se si preferisce, dalla prevalenza sul piano normativo del punto di vista antropocentrico[100], nonostante quel vasto movimento culturale che ne critica la conservazione, specie nella relazione uomo-animale[101], e che si è tradotto in un filone di studi accademici indicato, a livello globale, come Animal Law[102].
Tanto la categoria dell’animale d’affezione quanto quella dell’animale da reddito sono legislative. All’animale d’affezione fa ricorso l’art. 514 c.p.c. per annoverarlo tra le cose mobili impignorabili (art. 514, n. 6 bis)[103]. Tanto l’animale d’affezione quanto quello da reddito compaiono nell’art. 189 codice della strada che consacra l’obbligo di soccorso a carico dell’utente della strada, in caso di incidente comunque ricollegabile al suo comportamento, a favore di colui che abbia subito un danno alla persona: il comma 9 bis estende l’obbligo di soccorso a favore degli «animali d’affezione, da reddito o protetti» che abbiano subito un danno nell’ambito di un incidente comunque ricollegabile al comportamento dell’utente della strada. Al “bestiame da lavoro o da allevamento” sono dedicate alcune disposizioni dell’affitto di fondi rustici (artt. 1641 ss. c.c.); mentre nell’art. 2135 c.c., sulla nozione legale di imprenditore agricolo, si fa espresso riferimento agli animali da allevamento[104]. Agli animali d’affezione è specificamente rivolta poi la legge 14 agosto 1991, n. 281, legge quadro in materia di animali di affezione e prevenzione del randagismo, il cui art. 1 proclama che «lo Stato promuove e disciplina la tutela degli animali di affezione, condanna gli atti di crudeltà contro di essi, i maltrattamenti ed il loro abbandono, al fine di favorire la corretta convivenza tra uomo e animale e di tutelare la salute pubblica e l’ambiente». Infine, la disciplina rinnovata del condominio negli edifici esclude che le norme del regolamento di condominio possano vietare di possedere o di detenere animali domestici (art. 1138, comma 5, c.c.). Questa è la comprensione del problema anche da parte del diritto privato europeo: l’art. 3, par. 5, dir. 2019/771 del 20 maggio 2019, relativa a determinati aspetti dei contratti di vendita di beni, lascia agli Stati membri la scelta di «escludere dall’ambito di applicazione della presente direttiva i contratti di vendita di: a) beni di seconda mano venduti in aste pubbliche; e b) animali vivi». Nel recepire la direttiva novellando il codice del consumo, il d.lgs. 4 novembre 2021, n. 170 ha esercitato la libertà di scelta includendo nella nozione di bene di consumo anche gli animali vivi (art. 128, comma 2 n. 3 cod. cons.)[105].
Com’è noto, la qualificazione di “animale d’affezione” è stata invocata in sede risarcitoria per tentare di fondare il riconoscimento del danno da lesione del rapporto affettivo-relazionale[106], il c.d. danno interspecifico[107], nonostante la netta chiusura sul punto manifestata dalle Sezioni unite della Cassazione[108]. Ed essa è al centro di un dibattito nell’ambito delle crisi familiari, dove si è posto il problema dell’adozione di provvedimenti giudiziali anche relativi al legame affettivo con l’animale, risolti sinora, in assenza di accordi tra i coniugi, nell’ottica della tutela del superiore interesse del minore, tenuto conto dell’intensità del rapporto che connota il rapporto tra bambini e animali d’affezione[109]. Addirittura, nell’ambito di una controversia insorta tra due ex conviventi more uxorio, si è giunti all’estremo di applicare per analogia l’istituto dell’affidamento condiviso al fine di risolvere la controversia relativa al rapporto con l’animale d’affezione rimasto con uno degli ex conviventi[110].
Sul piano civilistico, la particolarità degli animali, quali esseri senzienti, travalica la prospettiva penalistica del contrasto delle forme di impiego inutilmente crudeli e incuranti della salute animale, e si sviluppa anche, se non soprattutto, nell’orizzonte dello sviluppo sostenibile: quell’orizzonte nel quale assume rilevanza quello che si è denominato “interesse alla preservazione”, il quale qui non è però circoscritto alla gestione conservativa del bene, ma si carica dell’ulteriore necessitas iuris di garantire il benessere dell’animale[111]. Si è al cospetto di una piegatura in chiave non soltanto utilitaristica della preservazione del bene-animale, che risente della natura vivente e senziente del bene e, dunque, del suo essere un valore in sé, del tutto indipendente dai bisogni umani che il bene è capace di appagare. Di tutto ciò si è reso interprete il legislatore, in sede di modifica dell’art. 9 Cost., che, in tal modo, è stato allineato alla sensibilità per il benessere animale recepito già dall’art. 13 TFUE, il quale sancisce che «nella formulazione e nell’attuazione delle politiche dell’Unione nei settori dell’agricoltura, della pesca, dei trasporti, del mercato interno, della ricerca e sviluppo tecnologico e dello spazio, l’Unione e gli Stati membri tengono pienamente conto delle esigenze in materia di benessere degli animali in quanto esseri senzienti, rispettando nel contempo le disposizioni legislative o amministrative e le consuetudini degli Stati membri per quanto riguarda, in particolare, i riti religiosi, le tradizioni culturali e il patrimonio regionale»[112]. Nella già menzionata novella dell’art. 9 Cost. è stato inserito l’esplicita previsione per cui «la legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali»[113].
7. Conclusioni
Lo studio dell’influenza del principio di sostenibilità sulla materia dei beni ha offerto una conferma che risultati duraturi e pienamente appaganti si possono raggiungere soltanto sottoponendo la normatività dei principî a un accorto processo di Mittelbare Drittwirkung[114]. Soltanto convogliando la normatività diretta dei principî e dei diritti fondamentali nei canali dell’interpretazione dei testi normativi ordinari e della dogmatica è possibile, infatti, tradurne i contenuti in forme di pensiero stabili e generali, adeguate a garantire il principio di eguaglianza, piuttosto che nel pensiero frammentato e casistico. In questo orizzonte, i principî e i diritti fondamentali possono svelare potenzialità di senso dell’enunciato delle norme a impianto analitico, le c.d. regole, rimaste inespresse. Ed è esattamente ciò che è stato possibile ricavare dall’art. 810 c.c., e dalla complessiva disciplina codicistica dei beni, grazie all’influsso del principio di sostenibilità. I principî e i diritti fondamentali possono anche esprimere una normatività che consente di ridefinire contenuto, ampiezza e funzione delle categorie dogmatiche, includendovi elementi di realtà ulteriori, così da favorire l’arricchimento e l’estensione della disciplina che ruota intorno alla categoria rivisitata. Ed è esattamente ciò che è stato possibile fare con riguardo alla categoria complessiva di “bene giuridico”, arricchendo il tessuto normativo del Libro III del codice civile con l’obiettivo della preservazione delle risorse nell’interesse attuale e in quello delle generazioni future ed estendendo la tutela in rem oltre l’area della realità in senso stretto intesa, prima a favore delle forme di pensiero creative di natura artistica o di applicazione produttiva sino a talune delle oggettività indicate genericamente come nuovi beni.
[1] Cfr. A. D’Aloia, Generazioni future, in Enc. dir., Annali, IX, Milano 2016, p. 331 ss.
[2] Il punto è affrontato con ricchezza di analisi da M.W. Monterossi, L’orizzonte intergenerazionale del diritto civile. Tutela, soggettività, azione, Pisa, 2020, 185 ss., in part. 259 ss.; e v. anche N. Lipari, Premesse per un diritto civile ambientale, in Riv. dir. civ., 2024,
[3] Cfr. G. Santini, Costituzione e ambiente: la riforma degli artt. 9 e 41 Cost., in Quad. cost., 2021, 460 ss.; G. Capo, Libertà d’iniziativa economica, responsabilità sociale e sostenibilità dell’impresa: appunti a margine della riforma dell’art. 41 della Costituzione, in Giust. civ., 2023, 81 ss.; G. Ceccherini, Tutela dell’ambiente e riforma degli artt. 9 e 41 della Costituzione, in Liber amicorum per Paolo Zatti, Napoli, 2023, 251 ss.
[4] V. sul punto M.P. Poto, La tutela costituzionale dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni, in Resp. civ. prev., 2022, 1057 ss.; nonché Id., Environmental Law and Governance: the helicoidal pathway of participation. A study of a nature-based model inspired by the Arctic, the Ocean, and Indigenous views, Torino, 2022, 159 ss.
[5] N. Lipari, Premesse per un diritto civile ambientale, in Riv. dir. civ., 2024, 209 ss.
[6] Lipari, op. cit., 210.
[7] Si sofferma sul punto A. Ruster, Nachhaltigkeit im Sachenrecht, in JuristenZeitung 76, 2021, 1106 ss.
[8] Parrebbe questa la chiave di lettura privilegiata da E. Caterini, Sostenibilità e ordinamento civile. Per una riproposizione della questione sociale, Napoli, 2018, passim, in part. 38 ss. Nell’appassionato libello C. propone una concezione della sostenibilità come controllo sociale e democratico sull’economia e, dunque, in definitiva nell’utilità sociale delle iniziative economiche.
[9] Lo esclude N. Irti, Lettera aperta sul potere planetario dell’insostenibile, 7-8, per il quale la logica del profitto propria del capitalismo e quella della salvezza ecologica non possono coesistere insieme: «È l’aut–aut, a cui si sottraggono le deboli menti degli utopisti, consolanti predicatori di serena e felice umanità».
[10] Cfr. sul punto R. Míguez Núñez, Soggettività giuridica e natura. Spunti per una riflessione civilistica, in Diritto e questioni pubbliche, 2020, 31 ss.; nonché Id., Le avventure del soggetto. Contributo teorico-comparativo sulle nuove forme di soggettività giuridica, Milano-Udine, 2018, passim.
[11] A. D’Aloia., Generazioni future, cit., p. 341, nt. 97.
[12] In Italia, in tal senso v. M. Carducci, Natura (diritti della), in Digesto disc. pubbl., Agg., Torino, 2017, 486 ss.
[13] Paradigmatico è il caso Pennsylvania General Energy Company, L.L.C. v. Grant Township, C.A. n. 14-209, 2015 U.S. Dist. LEXIS 139921 (W.D. Pa. Oct. 14, 2015).
[14] Corte Constitucional de Colombia T-622, 10/11/2016, la quale conclude nel senso di «reconocer al río Atrato, su cuenca y afluentes como una entidad sujeto de derechos a la protección, conservación, mantenimiento y restauración a cargo del Estado y las comunidades étnicas, conforme a lo señalado en la parte motiva de este proveído en los fundamentos 9.27 a 9.32. En consecuencia, la Corte ordenará al Gobierno nacional que ejerza la tutoría y representación legal de los derechos del río (a través de la institución que el Presidente de la República designe, que bien podría ser el Ministerio de Ambiente) en conjunto con las comunidades étnicas que habitan en la cuenca del río Atrato en Chocó; de esta forma, el río Atrato y su cuenca -en adelante- estarán representados por un miembro de las comunidades accionantes y un delegado del Gobierno colombiano, quienes serán los guardianes del río. Con este propósito, el Gobierno, en cabeza del Presidente de la República, deberá realizar la designación de su representante dentro del mes siguiente a la notificación de esta sentencia. En ese mismo período de tiempo las comunidades accionantes deberán escoger a su representante. Adicionalmente y con el propósito de asegurar la protección, recuperación y debida conservación del río, los representantes legales del mismo deberán diseñar y conformar, dentro de los tres (3) meses siguientes a la notificación de esta providencia una comisión de guardianes del río Atrato, integrada por los dos guardianes designados y un equipo asesor al que deberá invitarse al Instituto Humboldt y WWF Colombia, quienes han desarrollado el proyecto de protección del río Bita en Vichada[343] y por tanto, cuentan con la experiencia necesaria para orientar las acciones a tomar. Dicho equipo asesor podrá estar conformado y recibir acompañamiento de todas las entidades públicas y privadas, universidades (regionales y nacionales), centros académicos y de investigación en recursos naturales y organizaciones ambientales (nacionales e internacionales), comunitarias y de la sociedad civil que deseen vincularse al proyecto de protección del río Atrato y su cuenca».
[15] L’art. 71 Constitucion de la Republica del Ecuador prevede che «La naturaleza o Pacha Mama, donde se reproduce y realiza la vida, tiene derecho a que se respete integralmente su existencia y el mantenimiento y regeneración de sus ciclos vitales, estructura, funciones y procesos evolutivos. Toda persona, comunidad, pueblo o nacionalidad podrá exigir a la autoridad pública el cumplimiento de los derechos de la naturaleza. Para aplicar e interpretar estos derechos se observarán los principios establecidos en la Constitución, en lo que proceda. El Estado incentivará a las personas naturales y jurídicas, y a los colectivos, para que protejan la naturaleza, y promoverá el respeto a todos los elementos que forman un ecosistema». Altrettanto significativo è l’art. 72, il quale riconosce che «La naturaleza tiene derecho a la restauración. Esta restauración será independiente de la obligación que tienen el Estado y las personas naturales o jurídicas de indemnizar a los individuos y colectivos que dependan de los sistemas naturales afectados».
[16] E tuttavia nella Western Legal Tradition non sono sconosciute, specie nel passato, operazioni di antropomorfizzazione di entità allo scopo di rimediare a difetti di disciplina. Oltre alla teoria organica della persona giuridica di Otto von Gierke, Die Genossenschaftstheorie und die deutsche Rechtsprechung, Berlin, 1887 (v. sul punto F. Ferrara, Le persone giuridiche2, in Tratt. dir. civ. it., diretto da F. Vassalli, Torino, 1956, 22 ss.), si pensi alla Ship Personification Doctrine grazie alla quale la giurisprudenza statunitense è riuscita, tramite per l’appunto la personificazione delle “navi”, a reagire alle elusioni di responsabilità in caso di violazioni delle leggi marittime e sull’embargo: sul punto v. D. Lind, Pragmatism and Anthropomorphism: Reconceiving the Doctrine of the Personality of the Ship, in Univ. San Francisco Maritime Law Journal, 22, 2009, 39 ss. In particolare, la mossa antropomorfica è servita alla Suprema corte a considerare una nave come “an offending thing” e, come tale, soggetta ad arresto, condanna e confisca come conseguenza dell’illecito da lei commesso (Supreme Court, Tucker v. Alexandroff, 183 U.S. 424 (1902), p. 183 U.S. 438).
[17] In quest’ultima prospettiva v. R. Míguez Núñez, Soggettività giuridica e natura, cit., 39 sulla scia di B. Edelman-M.A. Hermitte, L’homme, la nature et le droit, Paris, 1988, passim.
[18] L’art. 78 Cost. sancisce che «La protezione della natura e del paesaggio compete ai Cantoni. Nell’adempimento dei suoi compiti, la Confederazione prende in considerazione gli obiettivi della protezione della natura e del paesaggio. Ha cura dei paesaggi, dei siti caratteristici, dei luoghi storici nonché dei monumenti naturali e culturali; quando l’interesse pubblico lo richieda, li conserva integri. Può sostenere gli sforzi volti a proteggere la natura e il paesaggio nonché, per contratto o per espropriazione, acquistare o salvaguardare opere d’importanza nazionale. Emana prescrizioni a tutela della fauna e della flora e a salvaguardia dei loro spazi vitali nella loro molteplicità naturale. Protegge le specie minacciate di estinzione. Le paludi e i paesaggi palustri di particolare bellezza e importanza nazionale sono protetti. Non vi si possono costruire impianti né procedere a modifiche del suolo. Sono eccettuate le installazioni che servono a preservare lo scopo protettivo o l’utilizzazione agricola già esistente».
[19] Cfr., ex multis, il lavoro pioneristico di A. Leopold, A Sand County Almanac: Sketches Here and There, Oxford 1949, passim; J.B. Callicott, Non-Anthropocentric Value Theory and Environmental Ethics, in American Philosophical Quarterly, vol. 21, 4, 1984, p. 299 ss.; Id., Die begrifflichen Grundlagen der land ethic, in Naturethik, a cura di A. Krebs, Berlin 1997, 211 ss.; T. Regan, The Nature and Possibility of an Environmental Ethic, in Environmental Ethics, 3, 1, 1981, 19 ss. Nella letteratura civilistica ne dà conto Monterossi, L’orizzonte intergenerazionale del diritto civile, cit., 38 ss.
[20] Carducci, op. cit., 489, il quale afferma che «il tema dei DDN [diritti della natura] disvelerebbe l’artificialità euristica della considerazione dell’individuo umano come fondatore e arbitro del suo diritto e della statualità come delimitazione effettiva delle regole di convivenza. Piuttosto che “de-umanizzare” il diritto […], lo riconcilierebbe con la realtà-pianeta Terra».
[21] D. 1, 5, 2 (Hermog. 1 iuris epit.).
[22] Cfr. F. Camplani, La tutela anticipata dell’ambiente e teoria del bene giuridico. Il ruolo fondamentale dei beni giuridici intermedi, in Lexambiente, 2021, 17 ss.
[23] Questa accezione lata di interesse protetto (in senso atecnico “bene protetto”) viene adoperata per qualificare il clima da R. Tiscini, Tutela inibitoria e cambiamento climatico, in Riv. dir. proc., 2024, 331 ss., in part. 344 ss.
[24] Il tema della proprietà collettiva è tornato in auge con la recente fiammata di interesse per gli usi civici: sul punto cfr. G. Agrifoglio, Contributo allo studio degli usi civici e della proprietà collettiva. Una storia parallela, Napoli, 2023, passim, in part. 135 ss.
[25] La giusta precisazione per cui l’azione reale dà luogo, comunque, a una pretesa nei confronti di un soggetto specifico, il trasgressore, sicché non può a rigore parlarsi di un’efficacia erga omnes è di Ch. von Bar, Questioni fondamentali per la comprensione del diritto europeo delle cose, in Riv. dir. civ., 2018, 573.
[26] La nozione di bene offerta nel testo diverge da quella proposta da von Bar, Questioni fondamentali per la comprensione del diritto europeo delle cose, cit., 578, la quale prescinde dalla capacità del bene di esprime un valore d’uso, identificandosi con «un oggetto che può essere utile all’uomo, in qualunque modo tale utilità si estrinsechi». La nozione di bene proposta supra nel testo sembra coincidere invece con la nozione di “cose” formulata da von Bar, per cui tali sono «gli oggetti del traffico giuridico sui quali possono essere creati diritti opponibili a terzi, ossia diritti reali» (ibidem, 579).
[27] Questa posizione ho espresso in F. Piraino, Il Regolamento generale sulla protezione dei dati personali e i diritti dell’interessato, in NLCC, 2017, 369 ss., in part. 382 ss.
[28] F. Piraino, Sulla nozione di bene giuridico in diritto privato, in Riv. crit. dir. priv., 2012, 459 ss.
[29] Così S. Pugliatti, Beni (teoria generale), in Enc. dir., V, Milano, 1959, 173; R. Franceschelli, L’oggetto del rapporto giuridico (con riguardo ai rapporti di diritto industriale), in Riv. trim. dir. proc. civ., 1957, 44; U. Natoli, La proprietà. Appunti delle lezioni, I, Milano, 1965, 54; D. Messinetti, Oggettività giuridica delle cose incorporali, Milano, 1970, 123; O.T. Scozzafava, I beni e le forme giuridiche di appartenenza, Milano, 1982, 94 ss.; M. Barcellona, Per una teoria dei beni giuridici, in Scritti in onore di Giuseppe Auletta, II, Milano, 1988, 87; Id., Attribuzione normativa e mercato nella teoria dei beni giuridici, in Quadr., 1987, 623; G. Chiarini, Fattispecie e disciplina dei servizi. Contributo alla riflessione giuridica sugli istituti della società post-industriale, Milano, 2011, 90-91.
[30] Una recente accurata messa a punto è offerta da E. Fazio, Oggettività giuridica nel diritto interno ed europeo, Milano, 2016, passim, in part. 43 ss.
[31] Il senso più profondo della propria concezione formale del bene giuridico è espresso da M. Costantino, I beni in generale, in Tratt. dir. priv., diretto da P. Rescigno, 7, Proprietà2, t. I, Torino, 2005, 15, nei termini per cui la nozione di bene giuridico comporta di «escludere che le cose che possono formare oggetto di diritti, ed essere “beni” in senso giuridico, siano le cose come appaiono identificabili secondo le loro condizioni e qualità materiali, ovvero in base a desideri e pulsioni individuali, ovvero in base a valutazioni di mercato». Il profilo della sottrazione del processo di reificazione alle scelte individuali e, dunque, all’autonomia privata è sottolineato da R. Ferorelli, La rete dei beni nel sistema dei diritti. Teoria e prassi delle nuove risorse immateriali, Bari, 2006, 117. Non va però trascurato che la concezione formale del bene giuridico può poggiare anche su altre ragioni: tale è anche quella proposta da O.T. Scozzafava, I beni e le forme giuridiche di appartenenza, cit., passim e 53 ss., ma v. le aperture contenute in Id., I beni, in Tratt. dir. civ. del Cons. naz. Not., diretto da P. Perlingieri, Napoli, 2007, 4, 12, 28 ss., ma qua la premessa ideologica è un’altra, ossia la preclusione al giudice di svolgere compiti di supplenza del potere legislativo dinanzi all’evoluzione sociale non contenuta o a sufficienza gestita dall’ordinamento giuridico nella configurazione del momento e ciò in quanto la Costituzione non conferisce al giudice il ruolo di mediatore dei conflitti sociali (I beni e le forme giuridiche di appartenenza, cit., 572-574 e nt. 19).
[32] Cfr. Piraino, Sulla nozione di bene giuridico, cit., 479-480.
[33] Piraino, op. cit., 483-484.
[34] A. Gambaro, I beni, in Tratt. dir. civ. Cicu-Messineo-Mengoni, continuato da P. Schlesinger, Milano, 2012, 102 ritiene che il processo di oggettivazione delle cose corporali come delle astrazioni come i segni o i simboli risieda nella persistenza dell’oggetto indipendentemente dai punti di vista e da atteggiamenti e da condotte soggettive.
[35] Con tutt’altra impostazione A. Gambaro, I beni, cit., 102-103, 106, il quale è fermo nel segnare la distinzione tra beni e prestazioni dovute.
[36] Piraino, Sulla nozione di bene giuridico, cit., 483-484. Tale nozione di cosa dovrebbe sottrarsi all’accusa di eccesiva genericità e dell’effetto di indifferenziazione mossa – e a ragione (V. Zeno Zencovich, Cosa, in Digesto disc. priv., sez. civ., IV, Torino, 1989, 444; G. Chiarini, Fattispecie e disciplina dei servizi, cit., 75-76) – alla concezione ampia avanzata dalla dottrina favorevole alla giuridicità della cosa secondo cui vi va inclusa «qualunque entità, materiale o immateriale, che sia giuridicamente rilevante, cioè sia presa in considerazione dalla legge» sicché la cosa finisce per essere identificata nel riferimento oggettivo del diritto soggettivo.
[37] Così anche O.T. Scozzafava, I beni, cit., 28, il quale ritiene che la rilevanza del valore d’uso è connessa al riconoscimento di un diritto assoluto sull’entità tradotta in bene. Diversa è invece la prospettiva di M. Barcellona, Per una teoria dei beni giuridici, cit., 168, secondo cui «rientra nel campo di regolazione della funzione attributiva non ciò che è utile, limitato, ecc., ma tutto ciò che, utile o effimero, limitato o abbondante, è storicamente in grado di incontrare una domanda, ossia non qualsiasi entità abbia valore d’uso ma solo i valori d’uso suscettivi di assumere la forma del valore di scambio». E, dunque, la reificazione attribuisce rilievo non all’uso in sé ma all’uso comunque traducibile in scambio.
[38] Espressione, quest’ultima, utile a designare forme di sfruttamento sganciate dal paradigma proprietario, privato o pubblico che sia, e ancorate al diverso schema della condivisione della cosa nell’ambito di gruppi più ristretti cui spetta la titolarità: una titolarità per così dire diffusa e, quindi, del tutto aliena dalla logica individualistica che pervade, in termini ovviamente assai diversi, tanto la proprietà privata quanto quella privata, giacché entrambe ancorate alla soddisfazione di interessi riferibili ad un solo soggetto, individuale o collettivo, e non già all’appagamento di interessi molteplici e non riconducibili ad una soggettività unica. Si tratta della forma di sfruttamento che dovrebbe caratterizzare i c.d. beni comuni. Nella formula “sfruttamento civile” mi pare si possa racchiudere tanto la “terza dimensione” di cui discorre Rodotà (Il terribile diritto. Studi sulla proprietà privata2, Bologna, 1990, 44), quella connotata dalla salvaguardia degli interessi collettivi e dal retroterra non proprietario e che tanto disagio provoca ai «cultori della geometria istituzionale piana», quanto la «tensione endemica del bene comune rispetto ad alcuni assi categoriali della modernità giuridica quali stato/mercato/proprietà e, per questa via, con la grande dicotomia pubblico/privato» di cui parla L. Nivarra, Alcune riflessioni sul rapporto fra pubblico e comune, in Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni, a cura di M.R. Marella, Verona, 2011, 73. Sempre S. Rodotà, Beni comuni: una strategia globale contro lo human divide, in Oltre il pubblico e il privato, cit., 314 sottolinea la possibilità di concepire accesso e proprietà come due categorie autonome e «in diverse situazioni, potenzialmente o attualmente in conflitto».
[39] La prospettiva “cosale” è al centro della sistemazione di F. Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile9, rist., Napoli, 2002, 55 ss.
[40] Da ultimo, soprattutto, A. Gambaro, I beni, cit., 2012, 101.
[41] Piraino, Sulla nozione di bene giuridico, cit., 488.
[42] Piraino, op. cit., 489. Assai suggestiva è la prospettiva assunta da P. Barcellona, Diritto privato e società moderna, Napoli, 1996, 230-231, il quale ritiene la struttura dell’art. 810 c.c. tautologica e infatti essa «in sostanza non fa altro che operare un mero rinvio ad altre disposizioni del sistema che definiscono i confini di ciò che rientra nel novero dei beni. Assolta l’assenza di una funzione regolativa propria, resta allora all’interprete la difficile operazione ermeneutica di individuare quei criteri che la norma in questione da sola non offre».
[43] Cfr., in tal senso, lo studio accurato di M. Giuliano, Le risorse digitali nel paradigma dell’art. 810 cod. civ. ai tempi della blockchain, Parte prima, in NGCC, 2021, 1214 ss. e Parte seconda, ivi, 2021, 1456 ss.
[44] Di recente in tal senso si orienta Monterossi, L’orizzonte intergenerazionale del diritto civile, cit., 40 ss.
[45] Sul punto v., tra i tanti, soprattutto E. Ostrom, Governig the Commons. The Evolution of Institutions for Collective Action, Cambridge MA, 1990, passim; U. Mattei, Beni comuni. Un manifesto, Roma-Bari, 2011, passim; Id., Proprietà (nuove forme di), in Enc. dir., Annali V, Milano, 2012, 1117 ss., in part. 1127 ss.; M.R. Marella, Il diritto dei beni comuni. Un invito alla discussione, in Riv. crit. dir. priv., 2011, 103 ss.; Aa.Vv., Oltre il pubblico e il privato, a cura di M.R. Marella, Verona, 2012, passim; A. Iuliani, Prime riflessioni in tema di beni comuni, in Europa dir. priv., 2012, 617 ss.
[46] Valorizza tale categoria anche nella prospettiva del perseguimento del principio di sostenibilità Monterossi, L’orizzonte intergenerazionale del diritto civile, cit., 47 ss.
[47] La Commissione sui beni pubblici, istituita presso il Ministero della Giustizia, con Decreto del Ministro, il 21 giugno 2007, al fine di elaborare uno schema di legge delega per la modifica delle norme del codice civile in materia di beni pubblici, e presieduta da Stefano Rodotà ha proposto di introdurre, accanto ai beni pubblici veri e propri (a loro volta distinti in beni ad appartenenza pubblica necessaria, beni pubblici sociali e beni fruttiferi), la categoria dei beni comuni, nella quale sono stati inclusi le risorse naturali, come i fiumi, i torrenti, i laghi e le altre acque; l’aria; i parchi, le foreste e le zone boschive; le zone montane di alta quota, i ghiacciai e le nevi perenni; i tratti di costa dichiarati riserva ambientale; la fauna selvatica e la flora tutelata; le altre zone paesaggistiche tutelate; e ancora i beni archeologici, culturali e ambientali.
[48] C.A. Reich, The New Property, in Yale L. J., 73, 1964, 733 ss., il quale si è soffermato soprattutto sulle utilità dispensate dallo Stato (government largess) sotto forma di autorizzazioni amministrative a utilizzare risorse pubbliche o vantaggi concessi ai singoli, come i sussidi, gli incentivi, gli sgravi fiscali, le licenze di commercio e le abilitazioni professionali. Di givins discorrono invece A. Bell-G. Parchomovsky, Givings, in Yale L. J., 111, 2001, 547 ss.
[49] Il tema è oramai oggetto di un ricco filone di ricerca anche in Italia: cfr. AA.VV., Dalle res alle New Properties, a cura di G. De Nova- B. Inzitari-G. Tremonti-G. Visentini,Milano, 1991, 13 ss.; A. Gambaro, Dalla new property alle new properties (Itinerario, con avvertenze, tra i discorsi giuridici occidentali), in Scienza e insegnamento del diritto civile in Italia, a cura di V. Scalisi, Milano, 2004, 675 ss.; A. Zoppini, Le “nuove proprietà” nella trasmissione ereditaria della ricchezza (note a margine della teoria dei beni), in Riv. dir. civ., 2000, 185 ss.; AA.VV., Diritti esclusivi e nuovi beni immateriali, a cura di G. Resta, Torino, 2010, passim; M. Colangelo, Creating property rights: law and regulation of secondary trading in the European Union, Leiden-Boston, 2012, passim; G. Castellani, New Property (The), in Digesto disc. priv., sez. civ., Agg., Torino, 2014, 487 ss.; AA.VV., Nuovi beni e New Properties, a cura di A. Maniaci, Pisa, 2023, passim e v. l’accurato affresco di G. Maniaci, Introduzione. La nozione di bene giuridico e la sua evoluzione, ivi, XI ss.
[50] D. Messinetti, Energie, in Enc. dir., XIV, Milano, 1965, 856 ss.; R. Pardolesi, Energia, in Digesto disc. priv., sez. civ., VII, Torino, 1991, 444 ss.; Id., Le energie, in Tratt. dir. priv., diretto da P. Rescigno, vol. 7, La proprietà, I, Milano, 1982, 54 ss.; B. D’Ottavio, Il possesso di energie, in Nuovi beni e New Properties, cit., 161 ss.
[51] R. Federici, A proposito di “cose” che non sono beni: sottosuolo e rifiuti, in Rass. dir. civ., 2000, p. 311 ss.; M. Di Lullo, Il rifiuto come bene: titolarità e gestione, in Riv. giur. amb., 2001, 383 ss.; S.G. Simone, La nozione di “rifiuto”, in Manuale di diritto civile dell’ambiente, a cura di M. Pennasilico, Napoli, 2014, 144 ss.; G. Resta, I rifiuti come beni in senso giuridico, in Riv. crit. dir. priv., 2018, 207 ss.; A.C. Nazzaro, Rifiuti, beni e proprietà nella prospettiva dell’economia circolare, in Rass. dir. civ., 2020, 621 ss.; E. Giorgini, Rifiuto quale “bene” e proprietà conformata, in Actualidad Juridica Iberoamericana, 2022, 960 ss.; P. Cataldo, I rifiuti: da “non bene” a nuova risorsa, in Nuovi beni e New Properties, cit., 249 ss.
[52] P. Femia, Il campione biologico come oggetto di diritti. Bene giuridico e processi di valorizzazione, in Lo statuto etico-giuridico dei campioni biologici umani, a cura di D. Farace, Roma, 2016, 187 ss.; L.M. Lucarelli Tonini, Biobanche e campioni biologici, in Nuovi beni e New Properties, cit., 189 ss.; A. Nurra, Brevettabilità del vivente. Principi deboli e interessi forti. I comportamenti umani sul patrimonio genetico tra questioni giuridiche ed etiche, Roma, 2023, passim, in part. 109 ss.
[53] Il tema è stato approfonditamente indagato da C. Camardi, Cose, beni e nuovi beni, tra diritto europeo e diritto interno, in Europa dir. priv., 2018, 955, in part. 968 ss.
[54] La formula felice è di M. Maggiolo, Beni artificialmente creati nei settori agroalimentare e dell’energia. Un catalogo di nuovi beni mobili registrati, in Giust. civ., 2016, 283 ss.
[55] G. Orlando, I diritti edificatori. Contributo allo studio delle modifiche «oggettive» della proprietà per atti d’autonomia, Napoli, 2022, passim, in part. 116 ss.; M. Farina, I diritti edificatori, in Nuovi beni e New Properties, cit., 239 ss.
[56] C. Cambini-A. Sassano-T. Valletti, Le concessioni sullo spettro delle frequenze, in Invertire la rotta. Idee per una riforma della proprietà pubblica, a cura di U. Mattei-E. Reviglio-S. Rodotà, Bologna, 2007, 295 ss.; V. Zeno Zencovich, Le frequenze elettromagnetiche fra diritto ed economia, in Dir. inf., 2002, 713 ss.
[57] B. Nascimbene, Quote latte: diritto nazionale e diritto comunitario a confronto (o scontro), in Corr. giur., 1997, 253 ss.; A. Jannarelli, Quote di produzione, in Digesto disc. priv., sez. civ., XVI, Torino, 1997, 192 ss.; A. Tommasini, Quote latte, diritti di impianto e titoli all’aiuto. Limiti all’iniziativa economica e valori del sistema, Milano, 2008, passim, in part. 59 ss.
[58] M. Colangelo, Il mercato secondario dei diritti di creazione amministrativa nella Unione Europea: il caso degli slots aeroportuali e dello spettro radio, in Europa dir. priv., 2009, 119 ss.; M. Deiana, Natura giuridica degli slot aeroportuali, in Dir. trasp., 2014, 837 ss.; S. Tonetti-A. Seccamani, Le bande orarie aeroportuali: un bene giuridico complesso?, in Nuovi beni e New Properties, cit., 263 ss.
[59] C. Valditara, Le quote di emissione di gas ad effetto serra, in Nuovi beni e New Properties, cit., 123 ss.
[60] E. Battelli, Epistemologia dei beni immateriali: inquadramento sistematico e spunti critici, in Giust. civ., 2022, 49 ss.
[61] Fa emergere molto bene l’inadeguatezza della categoria dell’“immaterialità” per designare tali c.d. nuovi beni C. Camardi, Cose, beni e nuovi beni, tra diritto europeo e diritto interno, cit., 1009 ss., sottolineando, peraltro, che materiali o immateriali sono le risorse, non già i beni, i quali sono sempre oggetto di diritti.
[62] Con il consueto acume, A. Belfiore, I beni e le forme giuridiche di appartenenza. A proposito di una recente indagine, in «Riv. crit. dir. priv.», 1983, 862 osserva che «[s]e si ipotizza un principio di atipicità dei beni giuridici, avremo che l’elaborazione della categoria bene giuridico si configurerà, essenzialmente, come organizzazione di dati “pregiuridici”, giacché la ricostruzione della ratio degli indici normativi utilizzabili appare, indiscutibilmente, tappa obbligata del processo di conoscenza dell’interprete che voglia congruamente assolvere al compito che gli è stato affidato». Nell’orizzonte di una teoria formale del bene invece «l’analisi della logica (delle leggi di movimento) dell’ordinamento non potrà specificamente esser utilizzata dall’interprete al fine di trarre conclusioni di diritto».
[63] L’espressione è di M. Colangelo, Il mercato secondario dei diritti di creazione amministrativa nella Unione Europea, cit., 113 ss. ed è ripresa da C. Camardi, Cose, beni e nuovi beni, tra diritto europeo e diritto interno, cit., 1008.
[64] Cfr. sul punto C. Camardi, Cose, beni e nuovi beni, tra diritto europeo e diritto interno, cit., 1006 ss.
[65] M. Colangelo, Creating property rights, cit., 183 ss.
[66] Titolarità e non appartenenza, come invece ritiene C. Camardi, Cose, beni e nuovi beni, tra diritto europeo e diritto interno, cit., 1018, in piena coerenza con la sua idea di bene come entità «qualificata come tale da una norma, e in relazione ad una situazione qualificata di appartenenza».
[67] Diversa è la conclusione, pur molto cauta, di C. Camardi, op. cit., 1018-1019, secondo cui tali diritti di creazione amministrativa sono veri e propri beni intangibili e commerciali cui si riannoda una situazione soggettiva di appartenenza che rende poi formalmente possibile attivare il mercato secondario. A favore della qualificazione come veri e propri beni delle quote di emissione è A. Gambaro, I beni, cit., 221.
[68] Lo riconosce A. Gambaro, ibidem, con particolare riguardo alle quote di emissione: «la particolarità di questo tipo di beni è che essi non ontologicamente concepiti solo per essere oggetto di scambio e non consentono alcun altro tipo di uso. Come si è accennato la varietà degli usi leciti possibili che stimola l’inventiva individuale ed il progresso sociale è il principale fondamento metapositivo della attribuzione di un bene in proprietà individuale. Si deve osservare che esistono alcuni tipi di beni cui tale fondamento non si applica». Quest’ultima conclusione potrebbe essere evitata se si riconoscesse, come suggerito supra nel testo, che taluni diritti di creazione amministrativa in chiave di regolazione del mercato non si affrancano dalla loro originaria natura di posizioni di vantaggio, nonostante intorno ad essi venga istituito un mercato, per la creazione del quale anzi essi sono appositamente concepiti, rimanendo oggetti di circolazione giuridica non reificati.
[69] La norma dispone che «1. Ogni attività umana giuridicamente rilevante ai sensi del presente codice deve conformarsi al principio dello sviluppo sostenibile, al fine di garantire che il soddisfacimento dei bisogni delle generazioni attuali non possa compromettere la qualità della vita e le possibilità delle generazioni future. 2. Anche l’attività della pubblica amministrazione deve essere finalizzata a consentire la migliore attuazione possibile del principio dello sviluppo sostenibile, per cui nell’ambito della scelta comparativa di interessi pubblici e privati connotata da discrezionalità gli interessi alla tutela dell’ambiente e del patrimonio culturale devono essere oggetto di prioritaria considerazione. 3. Data la complessità delle relazioni e delle interferenze tra natura e attività umane, il principio dello sviluppo sostenibile deve consentire di individuare un equilibrato rapporto, nell’ambito delle risorse ereditate, tra quelle da risparmiare e quelle da trasmettere, affinché nell’ambito delle dinamiche della produzione e del consumo si inserisca altresì il principio di solidarietà per salvaguardare e per migliorare la qualità dell’ambiente anche futuro. 4. La risoluzione delle questioni che involgono aspetti ambientali deve essere cercata e trovata nella prospettiva di garanzia dello sviluppo sostenibile, in modo da salvaguardare il corretto funzionamento e l’evoluzione degli ecosistemi naturali dalle modificazioni negative che possono essere prodotte dalle attività umane».
[70] A. Ruster, Nachhaltigkeit im Sachenrecht, cit., 1111.
[71] Così A. Ruster, op. cit., 1110, il quale, in questa strategia di funzionalizzazione della proprietà all’obiettivo della sviluppo sostenibile, mobilita anche la clausola generale di buona fede in senso limitativo dei poteri proprietarii.
[72] R. Di Raimo, Beni, proprietà, contratto e giustizia ecologica e distributiva: (soltanto) una premessa, in The Cardozo Elettronic Law Bulletin, 2019, 4 rimarca la correlazione tra la conformazione del bene e il contenuto delle forme di appartenenza: «qui è centrale l’incrocio con la disciplina dei beni, avendo riguardo alla quale è necessario modellare i profili sostanziali delle situazioni aventi cose e utilità quali terminali oggettivi».
[73] La via della funzionalizzazione della proprietà all’obiettivo dello sviluppo sostenibile è imboccata con convinzione da A. Nervi, Beni, proprietà, contratto e giustizia ecologica. Qualche riflessione sul diritto di proprietà, in The Cardozo Elettronic Law Bulletin, 2019, 6 ss.
[74] Cfr. J.B. Wiener, Precaution, in The Oxford Handbook of International Environmental Law, a cura di D. Bodansky-J. Brunnée-E. Hey, Oxford, 2007, 597 ss.; Id., Precaution and Climate Change, in The Oxford Handbook of International Climate Change Law, a cura di C.P. Carlane-K.R.Gray-R. Tarasofsky, Oxford, 2016, 163 ss. E, in chiave più generale, v. C. Ippoliti Martini, Principio di precauzione e nuove prospettive della responsabilità civile della pubblica amministrazione, Milano, 2022, passim, in part. 129 ss.
[75] Una valutazione scientifica che, ai fini della precauzione, deve evidenziare la potenzialità dannosa di un determinato contegno o di uno specifico intervento, attestandosi sul piano dell’incertezza ancorché scientificamente rilevante; mentre si slitta verso l’obbligo di prevenzione quando diviene scientificamente certo o anche soltanto probabile ex ante che un certo rischio si tradurrà in effetti dannosi prevedibili da parte dell’agente, privato o pubblico che sia: v. sul punto P. Dell’Anno-E. Picozza, Trattato di diritto dell’ambiente, I, Principi generali, Padova, 2012, 174.
[76] Ex multis v. A. Frignani, Inibitoria, in Enc. dir., XXI, Milano, 1971, 559 ss.; C. Rapisarda, M. Taruffo, Inibitoria (azione). I) Diritto processuale civile, in Enc. giur. Treccani, 1988, 8 ss.; C. Rapisarda, Profili della tutela civile inibitoria, Padova 1987, passim; Id., Inibitoria, in Digesto disc. priv., sez. civ., IX, Torino, 1993, 474 ss.; C.M. Bianca, L’inibitoria come rimedio di prevenzione dell’illecito, in Azione, inibitoria e interessi tutelati, a cura di A. Bellelli, Napoli 2007, 12 ss.; A. Bellelli, L’inibitoria come strumento generale di tutela contro l’illecito, in Riv. dir. civ., 2004, I, 607 ss.; G. Basilico, La tutela civile preventiva, Milano 2013, passim, in part 188 ss.; V. Carnevale, Appunti sulla natura giuridica della tutela inibitoria, in Riv. dir. proc. 2007, 63 ss.
[77] Sul punto v., ex multis, B. Pozzo, La responsabilità ambientale e l’apporto delle scienze sociali, in Regolare la complessità. Giornate di studio in onore di Antonio Gambaro, a cura di M. Graziadei-M. Serio, Torino, 2017, 76 ss.; AA.VV., Le responsabilità ambientali: profili civili, amministrativi e penali, a cura di B. Pozzo, Milano, 2022, passim; U. Salanitro, La responsabilità ambientale dopo la riforma costituzionale e la lotta al cambiamento climatico, in Riv. dir. civ., 2024, 229 ss.
[78] L’art. 311, comma 1, cod. amb. affida al Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare la legittimazione esclusiva ad agire, anche esercitando l’azione civile in sede penale, per il risarcimento del danno ambientale in forma specifica e, se necessario, per equivalente patrimoniale.
[79] Una prospettiva ancora diversa va adottata se si vuole ricorrere all’azione inibitoria addirittura a tutela del clima, nelle climate change litigations. Il punto è indagato da R. Tiscini, Tutela inibitoria e cambiamento climatico, cit. 338 ss., la quale individua i diritti individuali tutelabili in sede inibitoria nei «diritti fondamentali della persona, diritto alla salute, all’ambiente salubre, alla protezione del territorio e della proprietà (diritti personali e patrimoniali allo stesso tempo)». Tali posizioni individuali si iscrivono in un contesto più generale fatto segnare dall’«generale interesse ad evitare un’alterazione patologica delle condizioni climatiche; interesse superindividuale, condiviso dalla collettività». Di conseguenza si viene a creare un doppio livello di posizioni coinvolte nelle climate change litigations: «si crea in altri termini una scissione tra diritto sottostante e interesse generale verso il quale l’azione giudiziale è proiettata (entrambi caratterizzati da una identità di petitum. Si insinua allora l’idea che a sorreggere le azioni legate al contenzioso climatico non vi sia un diritto soggettivo tipicamente individuato, bensì si muovano interessi superindividuali (diffusi o collettivi) comuni ad un gruppo, tali che la lesività della condotta, quand’anche incidente sulla singola posizione soggettiva, sia adeguatamente rappresentata in quanto collocata nel contesto del gruppo stesso. Occorre allora distinguere diritto soggettivo del singolo da interesse superindividuale della collettività». Nello stesso senso v. E. Gabellini, Accesso alla giustizia in materia ambientale e climatica: le azioni di classe, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2022, 1105 ss., in part. 1113.
[80] V. sul punto A. Pisani Tedesco, Strumenti privatistici per la sostenibilità ambientale e sociale, Torino, 2024, 62 ss., il quale non chiarisce tuttavia quale sia l’interesse omogeneo protetto, non potendo essere quello alla salvaguardia dell’ambiente la cui tutela è affidata alla procedura della prevenzione e della riparazione del danno ambientale, più volte richiamata.
[81] Il presupposto dell’azione collettiva inibitoria consiste nel compimento «di atti e comportamenti, posti in essere in pregiudizio di una pluralità di individui o enti» e l’art. 840 sexiesdecies c.p.c. riconosce la legittimazione attiva diffusa a favore di chiunque voglia «ottenere l’ordine di cessazione o il divieto di reiterazione della condotta omissiva o commissiva».
[82] Interesse – com’è noto – oramai pacificamente riconosciuto dalla Corte Costituzionale: Corte cost., 31 marzo 2018, n. 58; ma già Corte cost., 28 maggio 1987, n. 210; Corte cost., 30 dicembre 1987, n. 641).
[83] Cfr. R. Tiscini, Tutela inibitoria e cambiamento climatico, cit., 343 ss., con la quale non si può tuttavia concordare quando sostiene che sul piano dell’interesse protetto cambia poco tra i contenziosi ambientali e le climate change litigations, costituendo le secondo il genus di cui i primi sono species.
[84] Interesse che di recente il Trib. Roma, 26 febbraio 2024, n. 3552, in Danno resp., 2024, 644 ss., con nota di V. Jacinto, La prima decisione italiana sulla responsabilità climatica dello Stato: chiusura legittima o coraggio mancato? ha escluso dal novero degli interessi soggettivi giuridicamente tutelati, includendoli nell’area degli interessi di fatto la cui valutazione è rimessa alle scelte discrezionali degli organi politici.
[85] Sebbene sulla base di premesse diverse, ricorre alla tutela ex art. 844 c.c. anche A. Pisani Tedesco, Strumenti privatistici per la sostenibilità ambientale e sociale, cit., 56 ss., suggerendo una rilettura ammodernata del limite della “normale tollerabilità”.
[86] A. Gambaro, I beni, cit., 98-99.
[87] J. Bentham, An Introduction to the Principles of Morals and Legislation (1780), trad. it. Introduzione ai principi della morale e della legislazione, a cura di E. Lecaldano, Torino, 1998, 420 ss. Sull’animalismo benthamiano v. G. Samek Lodovici, L’utilità del bene. Jeremy Bentham, l’utilitarismo e il consequenzialismo, Milano, 2004, 15-16.
[88] Il termine “specismo” è stato invece coniato nel 1970 da Richard Ryder per indicare il tentativo di una specie di ottenere vantaggi a discapito delle altre: v. R.D. Ryder, Speciesim Again: The Original Leaflet, in Critical Society, 2010, 1 ss.
[89] P. Singer, Animal Liberation. A New Etichs for Our Treatment of Animals, New York, 1975.
[90] T. Regan, The Case for Animal Rights, Oakland, 1983, passim, in part. 253 ss.
[91] Per un’accurata messa a punto v. F. Camilletti, Gli animali: la progressiva evoluzione da oggetto a soggetto di diritto, in Nuovi beni e new properties, a cura di A. Maniaci, Pisa, 2023, 211 ss.; ma v. anche G. Spoto, Cibo, persona e diritti, Torino, 2021, 155 ss.
[92] L’art. 727 c.p. prevede che «Chiunque abbandona animali domestici o che abbiano acquisito abitudini della cattività è punito con l’arresto fino ad un anno o con l’ammenda da 1.000 a 10.000 euro. Alla stessa pena soggiace chiunque detiene animali in condizioni incompatibili con la loro natura, e produttive di gravi sofferenze».
[93] L’art. 544 quinquies c.p. introduce una previsione ancora più specifica relativa “Divieto di combattimenti tra animali”, stabilendo che «chiunque promuove, organizza o dirige combattimenti o competizioni non autorizzate tra animali che possono metterne in pericolo l’integrità fisica è punito con la reclusione da uno a tre anni e con la multa da 50.000 a 160.000 euro. La pena è aumentata da un terzo alla metà: 1) se le predette attività sono compiute in concorso con minorenni o da persone armate; 2) se le predette attività sono promosse utilizzando videoriproduzioni o materiale di qualsiasi tipo contenente scene o immagini dei combattimenti o delle competizioni; 3) se il colpevole cura la ripresa o la registrazione in qualsiasi forma dei combattimenti o delle competizioni. Chiunque, fuori dei casi di concorso nel reato, allevando o addestrando animali li destina sotto qualsiasi forma e anche per il tramite di terzi alla loro partecipazione ai combattimenti di cui al primo comma è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 5.000 a 30.000 euro. La stessa pena si applica anche ai proprietari o ai detentori degli animali impiegati nei combattimenti e nelle competizioni di cui al primo comma, se consenzienti. Chiunque, anche se non presente sul luogo del reato, fuori dei casi di concorso nel medesimo, organizza o effettua scommesse sui combattimenti e sulle competizioni di cui al primo comma è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 5.000 a 30.000 euro».
[94] E anche di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’art. 444 c.p.p. (c.d. patteggiamento).
[95] I. Kant, Von den Pflichten gegen Tiere und Geister (1785), Dei doveri verso gli animali e gli spiriti, in I. Kant, Lezioni di etica, Bari-Roma 1971, pp. 273 ss.
[96] E infatti A. Gambaro, I beni, cit., 213 sottolinea la portata cultural/ideale del § 285° AGBG e delle altre disposizioni di area tedesca: «come ogni movimento di idee anche quello cui si è fatto cenno non può fare a meno di proclamazioni che svolgono funzioni identitarie e conferiscono quindi coesione al gruppo di persone che le condivide. La asserzione: “gli animali non sono cose” serve a tale scopo ed è certamente facilitata sotto il profilo espressivo dal collocarsi in ambiente giuridico tedesco ove, come si è ricordato, non si parla di un diritto dei beni, ma di un diritto delle cose. Sotto il profilo della disciplina giuridica tuttavia l’efficacia di tale proclamazione è subito limitata dall’indicazione per cui le regole relative alle cose si applicano anche agli animali, salvo deroghe».
[97] Anche l’art. 641a ZGB svizzero è stato modificato nel 2002 sul modello delle norme austriaca e tedesca, riconoscendo espressamente che gli animali non sono cose: «Gli animali non sono cose. Salvo disciplinamenti particolari, le prescrizioni applicabili alle cose sono parimenti valide per gli animali».
[98] E. Buoso, La tutela degli animali nel nuovo art. 20a del Grundgesetz, in Quad. cost., 2003, 371 ss.
[99] Nello stesso senso v. A. Gambaro, I beni, cit., 216 ss., pur in una prospettiva di sensibilità per il movimento di pensiero di riconoscimento della specificità degli animali: «è evidente che all’interno di una teoria dei beni gli animali senzienti non possono essere equiparati agli oggetti inanimati perché siffata equiparazione sarebbe scorretta dogmaticamente fornendo indicazioni errate» (ibidem, 216). Diversamente conclude E. Battelli, La relazione fra persona e animale, tra valore economico e interessi non patrimoniali, nel prisma del diritto civile: verso un nuovo paradigma, in Cultura e diritti, 2018, 35 ss., il quale reputa che gli indici normativi, nazionali e sovranazionali, militino nel senso di riconosce gli animali, specie quelli d’affezione, come centri autonomi di imputazione di posizioni di tutela, non più come meri oggetti di diritti ma come “esseri senzienti”, non più collocabile nell’area semantica concettuale delle cose, tantomeno come “bene” di valore meramente economico (ibidem, 59).
[100] Così v. anche F. Camilletti, Gli animali: la progressiva evoluzione da oggetto a soggetto di diritto, cit., 218.
[101] Cfr. V. Pocar, Gli animali non umani. Per una sociologia dei diritti, Bari, 2005, passim.
[102] M.E. Cooper, An Introduction to Animal Law, London, 1987, passim; D.S. Favre, Animal Law. Welfare, Interests and Rights3, Aspen, 2019, passim.
[103] Il comma 6 ter dell’art. 514 c.p.c. estende il regime di impignorabilità agli «animali impiegati ai fini terapeutici o di assistenza del debitore, del coniuge, del convivente o dei figli».
[104] Sul punto v. R. Alessi-G. Pisciotta, L’impresa agricola, in Il Codice Civile. Comm., fondato da P. Schlesinger, continuato da F.D. Busnelli, Milano 2010, 87 ss., in part. 127 ss.
[105] Sul punto v. R. Senigaglia, Riflessioni sullo statuto giuridico degli animali di affezione e sue ricadute in materia di vendita e responsabilità civile, in Dir. fam., 2021, 1772 ss., in part. 1781 e 1783.
[106] In senso favorevole v. Trib. Rovereto, 18 ottobre 2009, dove si eleva al rango di “diritto inviolabile” ex art. 2 Cost. la tutela dell’animale d’affezione, sulla scorta dei recenti interventi novellistici (su tutti, la legge n. 189/2004) tendenti ad assicurare speciale protezione agli animali mediante lo strumentario repressivo penalistico. In senso contrario v., invece, Trib. Milano, Sez. V Civ., 20 luglio 2010, n. 9453; Trib. Sant’Angelo dei Lombardi, 12 gennaio 2011, in Danno resp., 2011, 661 ss., con commento di G. Ponzanelli, Danno da perdita di animale di affezione: un no campano; Trib. Catanzaro, 5 maggio 2011, in Danno resp., 2012, 187 ss., con commento di G. Ponzanelli, Nessun risarcimento per la perdita dell’animale di affezione: la conferma del giudice di Catanzaro
[107] P. Donadoni, Il danno non patrimoniale interspecifico, in Trattato di biodiritto, a cura di S. Castiglione-L. Lombardi Vallauri, V, La questione animale, Milano, 2011, 557 ss.; Id., Il “danno interspecifico” per la perdita della relazione con l’animale d’affezione, Torino, 2024, passim, in part. 44 ss.; F. Poggi, Cuore di cane. Sul risarcimento del danno non patrimoniale interspecifico, in Riv. crit. dir. priv., 2017, 237 ss.
[108] Cass., sez. un., 11 novembre 2008, nn. 26972, 26973, 26974, 26975, la quale ha ritenuto che correttamente «non è stato ammesso a risarcimento il pregiudizio sofferto per la perdita di un animale (un cavallo da corsa) incidendo la lesione su un rapporto, tra l’uomo e l’animale, privo, nell’attuale assetto dell’ordinamento, di copertura costituzionale». Su tale passaggio delle sentenze delle Sezioni unite v. la critica di P. Donadoni, Notazioni minime ed estravaganti sul danno non patrimoniale “interspecifico” per l’uccisione dell’animale d’affezione, in Pol. dir., 2011, 351ss. Nello stesso senso delle Sezioni unite v. già Cass., 27 giugno 2007, n. 14846, in Resp. civ. prev., 2007, 2270 ss., con nota di D. Chindemi, Perdita dell’animale d’affezione: risarcibilità ex art. 2059 c.c.; in NGCC, 2008, I, 211 ss., con nota di commento di G. Cricenti, Il danno al valore di affezione: il cavallo e il congiunto secondo cui «la perdita del cavallo in questione, come animale da affezione, non sembra riconducibile sotto una fattispecie di un danno esistenziale consequenziale alla lesione di un interesse della persona umana alla conservazione di una sfera di integrità affettiva costituzionalmente protetta. La parte che domanda la tutela di tale danno, ha l’onere della prova sia per l’an che per il quantum debeatur, e non appare sufficiente la deduzione di un danno in re ipsa, con il generico riferimento alla perdita delle qualità della vita. Inoltre la specifica deduzione del danno esistenziale impedisce di considerare la perdita, sotto un profilo diverso del danno patrimoniale (già risarcito) o del danno morale soggettivo e transeunte».
[109] Trib. Sciacca, 19 febbraio 2019.
[110] Trib. Roma, 12-15 marzo 2016, n. 5322, resa nell’ambito di una controversia sorta dal ricorso presentato da una signora nei confronti dell’ex compagno, il quale, dopo alcuni anni dalla rottura della loro relazione sentimentale, le avrebbe sottratto il suo cane, al fine di vederlo condannare alla sua restituzione nonché al risarcimento dei danni subiti e dalla stessa quantificati in € 15.000,00.
[111] E infatti A. Gambaro, I beni, cit., 218 conclude che «le situazioni di appartenenza sugli animali, e massimamente sugli animali da compagnia, è fortemente conformata in contemplazione del loro oggetto. Nel caso specifico della proprietà di animali da compagni si tratta di una proprietà lontanissima dal paradigma di cui all’art. 832 c.c. perché l’esercizio dei poteri dominicali è tendenzialmente rovesciato. Tale esercizio è infatti funzionalizzato, ed al primo posto nella scala dei fini proprietari si colloca il benessere dell’animale; come dire che l’interesse dell’oggetto prevale sull’interesse del soggetto proprietario».
[112] Sul valore sistematico dell’art. 13 TFUE v. Spoto, Cibo, persona e diritti, cit., 166 ss.
[113] Sul punto v., soprattutto, U. Izzo, Il nuovo art. 9 Cost. e la tutela degli animali riservata alla legge dello Stato: il Legislatore (non) può attendere, in Osservatorio sulle fonti, 2/2024, 91 ss.
[114] Al tema della Drittwirkung ho dedicato alcuni studi: F. Piraino, Buona fede, ragionevolezza e «efficacia immediata» dei principî, Napoli, 2017, 53 ss.; Id., L’applicazione diretta dei diritti inviolabili, in Liber amicorum per Paolo Zatti, II, Napoli, 2023, 1277 ss. Sul punto v. soprattutto C. Castronovo, Eclissi del diritto civile, Milano, 2015, 37 ss.; Id., L’aporia tra ius dicere e ius facere, in Europa dir. priv., 2016, 981 ss.; Id., Diritto privato e realtà sociale. Sui rapporti tra legge e giurisdizione a proposito di giustizia, ivi, 2017, 764 ss.; E. Navarretta, Costituzione, Europa e diritto privato. Effettività e Drittwirkung ripensando la complessità giuridica, Torino, 2017, passim, in part. 85 ss.; C. Camardi, Certezza e incertezza nel diritto privato contemporaneo, Torino, 2017, passim, in part. 15 ss.; P. Femia, Princípi e clausole generali. Tre livelli di indistinzione, Napoli, 2021, passim, in part. 46 ss. nonché Drittwirkung: principi costituzionali e rapporti tra privati. Un percorso nella dottrina tedesca, a cura di P. Femia, Napoli, 2018, passim.