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Attualità

Tax Control Framework e Modello 231

Opportunità e rischi di una compliance dis-integrata

12 Maggio 2025

Rocco Alagna, Professore di Diritto penale, Università degli Studi di  Padova

Michele Citarella, Partner, CBA

Di cosa si parla in questo articolo

L’articolo analizza la relazione tra Tax Control Framework (TCF) e Modello 231 sottolineando l’importanza di una gestione unitaria per una compliance penal-tributaria coerente, efficace e sostenibile.


C’è una vivida impressione di gemellarità quando si indugia a osservare le profonde analogie tra sistema tributario e sistema penale. E il riferimento non tocca soltanto quel chiaro tratto di naturale protervia del potere che tende a deformare il concetto liberale di libertà e a trasformarlo in mera soggezione dinanzi allo Stato, così restituendo unita l’immagine dei due ultimi baluardi delle prerogative del sovrano. Le simmetrie tra questi due sistemi di regole, infatti, segnalano anche similitudini strutturali e funzionali. Come la ricerca di efficacia preventiva non tanto attraverso la certezza della regolazione quanto per il tramite del potere altamente paralizzante dell’incertezza del precetto. Incertezza che per la norma tributaria è prima genetica, dato che nasce già bisognosa di specificazione attuativa, e poi dinamica, per il costante inseguirsi delle sue modifiche. E che per il diritto penale d’impresa non è soltanto connessa al fatto che spesso il precetto è preso a prestito da altri àmbiti regolatori, ma tale incertezza è anche dovuta all’assenza di adeguata tipicità di talune sue fattispecie incriminatrici, le quali risultano molto sensibili alle tensioni interpretative.

Questa lettura sinistra, tuttavia, sembra oggi venire ribaltata da quello sforzo volto all’auto-organizzazione, gestione e controllo del rischio di illeciti fiscali e di illeciti penali, e tradotto nella compliance Tax Control Framework e in quella 231. Qui si trasforma la punizione per incertezza in aspirazione verso una prevenzione certa, il conflitto con l’autorità in collaborazione, una relazione da sempre fondata sul sospetto in un rapporto intrattenuto grazie alla fiducia. La profondità nelle analogie, dunque, si perpetua anche in questo mondo rovesciato. E se la compliance 231 mira a scansionare i rischi di reato tipici della gestione integrale dell’impresa per compartimentarli in attività sensibili, e sterilizzarli tramite l’auto-normazione di specifiche misure cautelari, la compliance Tax Control Framework vuole identificare, misurare, gestire e controllare il rischio fiscale tramite una trasparente e preventiva collaborazione con l’Amministrazione finanziaria. C’è dunque una medesima struttura semantica metodologica e teleologica che ruota attorno alla rilevazione e sterilizzazione del rischio di un illecito. Struttura che, al contempo, è presupposto ed effetto del concetto di organizzazione: organizzazione delle funzioni, dei rischi, delle cautele, dei flussi informativi, dei controlli, dei rimedi alle non conformità. E che intercetta, in entrambi gli ambiti di compliance, le medesime originarie vie di fallimento: superficialità dell’analisi dei rischi, assente previsione di vere procedure preventive, opacità informativa, mancata attuazione delle misure cautelari, inesistenza di controlli.

Da queste profonde analogie emerge la necessità di una solida integrazione tra le due anime della compliance societaria. Senza una intelligente e saggia integrazione tra i due sistemi, la forza di quelle profonde similitudini rischia di suscitare potenti antagonismi e di trasformare l’auto-normazione volontaria nell’auto-trappola in cui si può cadere. Se non coscientemente coordinati e centralizzati, dunque, i due sistemi preventivi rischiano di divenire l’uno la nemesi punitiva dell’altro. E per diverse ragioni.

Innanzitutto, con la pubblicazione delle Linee Guida 2025 e con l’applicazione del regime opzionale a prescindere da ricavi e dimensioni, il Tax Control Framework è oggi divenuto un onere per tutte le imprese, nel senso che queste devono adottarlo se vogliono assicurarsi i vantaggi in ordine alle sanzioni tributarie e allo scudo penale. In tal modo, però, la genetica alta qualità analitico-predittiva del Tax Control Framework accenderà un faro sulle inadeguatezze della maggior parte del Modelli 231 in circolazione, notoriamente caratterizzati da ciclostilata elaborazione e impraticata attuazione. La complessa qualità dell’uno dimostrerebbe la inidoneità dell’altro. E dato che l’adeguamento al Tax Control Framework non esime la società dalla responsabilità 231 per reato tributario, senza un attento coordinamento qualitativo dei due sistemi si rischia di esporre le debolezze di entrambi. Anche perché, dinanzi a un Modello 231 forgiato al fuoco individualizzante di centinaia di ore di interviste, riscontri, analisi e falsificazione di ipotesi di rischio di reato tributario, un TCF appiattito sulle Linee Guida dell’Agenzia mostrerebbe tutta la sua inefficacia, la sua sterilità e il suo distacco dalla concreta realtà dei rischi e delle scelte fiscali della singola specifica impresa.

Inoltre, anche dinanzi a un Modello 231 idoneo, senza un esperto coordinamento tra i due statuti giuridici, l’identificazione accurata dei rischi fiscali del TCF può aggravare la colpevolezza organizzativa dell’ente che, nonostante tale attenzione al rischio base, non si fosse efficacemente organizzato per prevenire la commissione dei reati tributari. Se è vero, infatti, che l’impostazione normativa basata sull’esenzione dalle sanzioni in caso di collaborazione all’accertamento (mediante istanze di interpello o comunicazioni di rischio) è in astratto condivisibile, non sono pochi i settori in cui comunque ci sarà una residua fisiologica incertezza. Basti pensare al concetto di stabile organizzazione e alle tematiche di fiscalità internazionale, tutti àmbiti in cui la prospettiva meramente domestica non metterà al riparo né dai rischi tributari né da quelli penali.

Del resto, e in generale, la mancata armonizzazione dei due sistemi di compliance rischia di rendere balbuziente e dunque d’invalidare il Modello 231 che per l’ordinamento tutto (comprese le Linee Guida dell’Agenzia sul TCF e quelle di Confindustria sul 231) è il più generale degli schemi di compliance, è la procedura di tutte le procedure. Questo specifico rischio da mancata armonizzazione diviene tangibile se si considera che le Linee Guida 2025 prescrivono al contribuente collaborativo di non disattendere sistematicamente le indicazioni con cui l’Agenzia ha risposto alle interlocuzioni. Qui il tema non è tanto che l’episodico disattendere tali indicazioni, in astratto possibile, può comunque giocare un ruolo in malam partem quando si profila anche una responsabilità penale o 231, quanto che tale logica collaborativa sembra infrangersi dinanzi a una secca asimmetria: il contribuente può dissentire solo entro certi stringenti limiti, mentre l’Agenzia può sempre fornire una risposta contraria alla proposta collaborativa del privato. Asimmetria, questa, che non soltanto rende incerto il merito delle scelte e la prevedibilità degli effetti giuridici, ma che smentisce anche la logica fondativa della riforma, ovvero una parità basata sulla reciproca leale correttezza, così reintroducendo il segno del perpetuarsi di una soggezione del privato dinanzi all’Amministrazione finanziaria.

Per non tacere del rischio di inoperatività che la strutturale sistematicità dell’interpello avrà sulle esimenti legate all’errore determinato da obiettive condizioni di incertezza della normativa tributaria. O del rischio che una compliance non integrata porti verso l’impossibilità comunicativa tra l’Organismo di Vigilanza 231 e il Tax Risk Manager TCF, che potrebbe seppellire ogni sforzo di sinergica azione preventiva sotto i protagonismi e gli antagonismi più deleteri.

L’impressione, in sostanza, è che il rischio di cadere vittima di una trappola auto-costruita si possa evitare affidando l’elaborazione e riforma di entrambi i sistemi a un’unica esperta regìa, la quale, mettendo assieme sensibilità ed esperienze diverse, progetti e collaudi una compliance penal-tributaria unitaria e integrata. Poiché soltanto rafforzando la credibilità delle due regolamentazioni, si potrà appieno beneficiare di quello scudo penale e di quella certezza fiscale che rappresentano il più importante dei vantaggi di tali adeguamenti. Potendo così forse finalmente provare a fare del mito della business ethics un concreto strumento di modernizzazione organizzativa, e un asset realmente spendibile sia in fase di sviluppo sia in fase di cessione dell’azienda. Che poi è forse l’unico vero premio per cui valga la pena investire tempo e risorse.

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