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Attualità

“PIR 2.0”. Le misure per il 2019 a favore del venture capital.

13 Maggio 2019

Andrea Arcangeli, Of Counsel, CMS Adonnino Ascoli e Cavasola Scamoni

Di cosa si parla in questo articolo

Nell’ambito delle misure attuative delle norme contenute nella Legge 30 dicembre 2018, n. 145 (Legge di Bilancio 2019), sono certamente meritevoli di apprezzamento le nuove regole di investimento relative ai c.d. “PIR”, ossia i Piani Individuali di Risparmio finalizzati ad ottenere gli sgravi fiscali originariamente previsti dalla Legge di Bilancio 2017 (art. 1, commi da 100 a 114).

Giova all’uopo rammentare che con la Legge di Bilancio 2017 è stato delineato uno speciale regime agevolativo ad applicazione generalizzata per il risparmio di lungo termine con la finalità di:

  • offrire maggiori opportunità di rendimento agli investitori;
  • aumentare le opportunità delle imprese di ottenere risorse finanziarie per investimenti di lungo termine;
  • favorire lo sviluppo dei mercati finanziari domestici per il supporto all’economia reale.

Con la Legge di Bilancio 2019 è stato confermato l’obiettivo di canalizzare parte delle risorse destinate ai PIR verso l’economia reale, così intervenendo sui vincoli di composizione dei PIR per favorire il settore del venture capital ed i mercati finanziari domestici. In particolare, le nuove misure, dapprima contemplate nella bozza del D.L. n. 34/2019 (c.d. Decreto Crescita) approvato “salvo intese” il 3 aprile 2019 e poi approdate nell’apposito Decreto 30 aprile 2019 Disciplina attuativa dei piani di risparmio a lungo termine (Decreto PIR; cfr. contenuti correlati), pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 7 maggio scorso, prevedono per i PIR costituiti a far data dal 1° gennaio 2019 (PIR 2.0) un vincolo ad investire una percentuale del patrimonio raccolto in quote o azioni di fondi per il venture capital o di fondi di fondi per il venture capital ovvero in “PMI ammissibili” con azioni quotate su sistemi multilaterali di negoziazione (come, in esempio, il mercato AIM ovvero obbligazioni emesse e quotate sul segmento ExtraMOT – PRO promosso e gestito da Borsa Italiana). Segnatamente ed in linea con quanto già previsto nelle norme di rango primario, l’art. 2 del Decreto PIR prevede che il 70% del valore complessivo del PIR 2.0 sia investito:

  1. per almeno il 5% (i.e. dunque per un valore complessivo pari al 3,5% del PIR) in quote o azioni di fondi e/o fondi di fondi per il venture capital, residenti in Italia o in Stati membri UE o aderenti all’Accordo sullo Spazio economico europeo con stabile organizzazione in Italia;
  2. per almeno il 5% (i.e. dunque per un valore complessivo pari al 3,5% del PIR) in strumenti finanziari quotati sui sistemi multilaterali di negoziazione emessi da PMI “ammissibili”[1];
  3. per un importo non superiore al 30% (i.e. dunque per un valore complessivo non superiore al 21% del PIR) in strumenti finanziari emessi da imprese diverse da quelle inserite nell’indice FTSE MIB di Borsa Italiana o di indici equivalenti di altri mercati regolamentati.

Nel computo dell’oggetto dell’investimento sono inclusi sia gli strumenti di equity (i.e. conferimenti di capitale ed impegni vincolanti alla sottoscrizione di capitale) che di quasi equity (i.e. obbligazioni subordinate o convertibili) e, per quanto riguarda i fondi di investimento, anche il solo committment (inteso quale impegno vincolante alla sottoscrizione delle quote). Viceversa, risultano esclusi dai suddetti requisiti i fondi di private debt così come gli asset-backed securities ancorché rappresentino debito emesso e/o contratto da PMI “ammissibili”.

Il Decreto PIR specifica, inoltre, che la verifica in merito al rispetto dei requisiti delle PMI “ammissibili” deve essere effettuata al momento dell’investimento iniziale da parte dei fondi e/o fondi di fondi di venture capital (cfr. art. 4 del Decreto PIR) e richiede espressamente chiunque costituisca un PIR sarà tenuto ad acquisire una dichiarazione da parte del gestore dei fondi e/o dei fondi di fondi di venture capital in cui ha investito attestante il rispetto del requisito degli investimenti in “PMI ammissibili” (cfr. art. 5 del Decreto PIR).

Ebbene, nel solco della novellata disciplina sui PIR 2.0 appare utile tracciare qualche spunto di riflessione indirizzato a supportare la comprensione di taluni aspetti che incidono sull’operatività dei soggetti – soprattutto gestori di fondi di investimento – potenzialmente interessati alle tipologie di investimento testé indicate.

Un primo dubbio emerge dalla semplice lettura del disposto di cui all’art. 2, comma 1 del Decreto PIR, ove si fa riferimento al vincolo di composizione del PIR 2.0. che deve essere “costituito” dall’investitore privato indipendente secondo le aliquote poc’anzi indicate. In tal senso, si ritiene che il mero richiamo alla “costituzione” del vincolo sia stato ascritto per lo più agli strumenti di deposito, sia in forma amministrata che fiduciaria, ma che debba estendersi anche alla sottoscrizione di fondi di investimento rientranti nella disciplina in narrativa.

Di particolare interesse, poi, è il riferimento ai fondi per il venture capital (e per essi anche ai fondi di fondi di venture capital) che, per quanto detto, risultano ora idonei a fruire dell’incentivo relativo alla detassazione dei capital gain. E’ utile in tal senso precisare che, come indicato nella Legge di Bilancio 2019, sono tali i veicoli di investimento (i) costituiti nella forma di organismi di investimento collettivo del risparmio chiusi e le società di investimento a capitale fisso (SICAF), residenti nel territorio dello Stato ovvero in uno degli Stati membri dell’UE ovvero degli Stati membri dell’Accordo sullo spazio economico europeo (ii) che destinano almeno il 70% dei capitali raccolti in piccole e medie imprese non quotate su mercati regolamentati nella fase di sperimentazione (c.d. seed financing), costituzione (c.d. start up financing), avvio dell’attività (c.d. early stage financing) o sviluppo del business e/o dei prodotti (c.d. expansion o scale up financing) operanti da non oltre 7 anni, le quali necessitano di capitale di rischio superiore al 50% del loro fatturato medio annuo degli ultimi cinque anni ed (iii) che investono il residuo in PMI di cui all’art. 1 comma 1, lett. w-quater.1) del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (TUF)[2].

Ebbene, è appena il caso di sottolineare come, al fine di identificare le caratteristiche precipue degli strumenti per il venture capital sopra richiamati, le nuove disposizioni privilegiano un approccio sostanziale connesso alla loro strategia di investimento piuttosto che rifarsi alla mera qualificazione regolamentare e/o alla loro natura giuridica. Così dunque un fondo alternativo chiuso, riservato o non, costituito quale Eltif (European Long Term Investment Fund), EuVECA (European Venture Capital Fund) ovvero SIS (Società di Investimento Semplice)[3] rientra naturaliter tra i PIR 2.0 laddove, adottando una strategia di investimento conforme a quanto testé indicato, esso rappresenta un concreto strumento di sostegno alle piccole e medie imprese per perseguire gli obiettivi di medio e lungo termine ai quali, per l’appunto i PIR 2.0 si rivolgono.

Di diverso profilo, invece, è l’impatto sul profilo di rischio connesso all’investimento in fondi e/o fondi di fondi di venture capital, peraltro da più parti osservato. In vero, è utile osservare che il Decreto PIR non fa alcun richiamo alla necessità / opportunità che i fondi per il venture capital prevedano schemi di funzionamento tali da consentire, pur nel rispetto di un vincolo di permanenza durante il periodo di investimento idoneo a garantire la disponibilità delle risorse finanziarie sottoscritte alle PMI “ammissibili”, una pronta liquidabilità degli investimenti. Col che un PIR 2.0. costituito nella forma di polizza assicurativa unit linked ovvero un fondo comune di investimento di tipo aperto che, in conformità al Decreto PIR, ha investito in uno o più fondi di venture capital dovrà tenere conto, nella propria politica di gestione del rischio così come nella product governance relativa a tali propri prodotti, anche della componente, ancorché marginale, di illiquidità intrinseca con il conseguente impatto sulle caratteristiche complessive del prodotto stesso.

Sarà certamente utile attendere le eventuali valutazioni che il Ministero dello Sviluppo Economico effettuerà nell’arco dei prossimi mesi a seguito dell’interpretazione che il mercato vorrà dare alle nuove misure introdotte al fine di riscontrare eventuali interventi normativi ulteriori.

 


[1] Giova rammentare che “PMI ammissibili” occorre fare riferimento alle disposizioni comunitarie contenute nella raccomandazione 2003/361/CE della Commissione UE. Si tratta, in buona sostanza, di imprese che occupano un numero non superiore a 250 persone, il cui fatturato annuo non eccede i 50 milioni di euro ovvero il cui totale di bilancio annuo non supera i 43 milioni. In ogni caso, ogni “PMI ammissibile” non dovrà aver ricevuto o ricevere risorse finanziarie per un ammontare totale superiore ai 15 milioni di euro, così come previsto dalle norme sugli aiuti di Stato, non deve essere quotata sui mercati regolamentati e non deve essere operativa da più di 7 anni.

[2] Appare ultroneo sottolineare che sono definiti fondi di fondi per il venture capital i fondi che sic et sempliciter investono i loro attivi in fondi con le caratteristiche infra riportate.

[3] Come noto, il Decreto Crescita ha dato avvio ad un nuovo modello societario, la società di investimento semplice (SIS, per l’appunto), introducendo nell’ordinamento domestico un veicolo per implementare gli investimenti in start-up e così novellando l’art. 1, comma 1 del TUF.  In estrema sintesi, la SIS può essere costituita con un capitale minimo di Euro 50.000,00 raccolto presso investitori professionali e con un patrimonio netto che non può superare i 25 milioni di euro.

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