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Attualità

Regime degli impatriati per i manager del settore finanziario e del private equity

22 Gennaio 2021

Stefano Brunello, Paolo Ronca e Michele Barcellona, BonelliErede

Di cosa si parla in questo articolo

1. Premessa

Con la Circolare 28 dicembre 2020, n. 33/E (“Circolare”), l’Agenzia delle Entrate ha fornito rilevanti chiarimenti interpretativi in merito al regime agevolativo per lavoratori impatriati di cui all’art. 16 del D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 147 (“Regime”).

Il presente contributo intende focalizzare l’attenzione su alcuni possibili riflessi di tali chiarimenti in capo ai manager del settore finanziario e del private equity che intendano beneficiare del Regime, tenuto conto dell’accentuata mobilità internazionale che tradizionalmente caratterizza tali settori.

2. Manager con datore di lavoro estero: opportunità e punti di attenzione

Nella Circolare, l’Agenzia delle Entrate ha anzitutto chiarito (§ 7.5) che, in presenza di tutti i requisiti previsti dalla norma agevolativa, possono accedere al Regime anche i soggetti che prestino la propria attività lavorativa in Italia, ma siano assunti da un datore di lavoro con sede all’estero e privo di stabile organizzazione nel territorio dello Stato.

L’apertura dell’Agenzia è diretta conseguenza delle recenti modifiche apportate dal D.L. 30 aprile 2019, n. 34 (c.d. Decreto Crescita), che ha eliminato dai requisiti di accesso al Regime la condizione che il lavoratore svolga l’attività lavorativa presso un’impresa residente, limitandosi a richiedere che l’attività sia svolta prevalentemente in Italia [1].

Il chiarimento risulta particolarmente apprezzabile nell’attuale contesto economico, che vede l’affermazione di nuovi modelli di organizzazione dell’attività lavorativa, basati sempre di più sul lavoro agile e sul lavoro da remoto.

In questo contesto, anche i manager del settore finanziario e del private equity avranno un più ampio ventaglio di opzioni da considerare in caso di relocation in Italia, inclusa quella di poter fruire del Regime pur mantenendo il contratto originariamente stipulato con il datore di lavoro estero e le connesse prerogative.

Il chiarimento sembra peraltro superare un precedente della DRE Lazio (non pubblicato) che aveva invece negato l’applicabilità del Regime nei confronti di un lavoratore dipendente trasferitosi in Italia per lavorare da remoto alle dipendenze di un datore estero, sul presupposto che l’attività lavorativa in Italia non configurasse una nuova occupazione, bensì la mera continuazione del rapporto lavorativo già in essere [2].

Ovviamente, nell’ottica del lavoratore impatriato, la convenienza del Regime dovrà essere attentamente valutata anche alla luce dei criteri di ripartizione della potestà impositiva sulla base della convenzione contro le doppie imposizioni eventualmente applicabile nel caso concreto; criteri che potrebbero anche variare a seconda della qualificazione del reddito ai fini convenzionali [3].

Dal punto di vista del datore di lavoro non residente, merita evidenziare che la presenza del lavoratore in Italia potrebbe, tuttavia, sollevare alcune complessità operative e punti di attenzione.

Anzitutto – prescindendo in questa sede dagli aspetti previdenziali [4] e da eventuali profili fiscali rilevanti nella giurisdizione estera [5] – permangono alcuni dubbi circa il fatto che il datore di lavoro estero assuma ai fini fiscali italiani la qualifica di sostituto d’imposta e sia, pertanto, tenuto all’effettuazione delle ritenute sui redditi corrisposti al lavoratore residente.

Ad una conclusione negativa dovrebbero condurre le considerazioni esposte nella Risposta ad interpello n. 312 del 2019, da cui si evince il principio per cui il datore di lavoro non residente è esonerato dall’obbligo di operare le ritenute sui redditi di lavoro corrisposti al dipendente italiano, a meno che disponga nel territorio dello Stato di una stabile organizzazione [6].

È auspicabile che con tale ultimo intervento l’Agenzia abbia inteso superare la presa di posizione (di poco precedente) contenuta nel principio di diritto n. 8 del 2019, in cui, prendendo in considerazione la situazione di una società non residente priva di stabile organizzazione in Italia, ma qui proprietaria di alcuni immobili, aveva concluso nel senso che la stessa si qualificava come sostituto d’imposta [7].

Considerata la sua rilevanza, la questione meriterebbe tuttavia un chiarimento definitivo da parte dell’Agenzia delle Entrate.

In secondo luogo, in alcune ipotesi, proprio la presenza del lavoratore in Italia potrebbe dar luogo, per il datore di lavoro non residente, alla configurazione di una stabile organizzazione in Italia (come rimarcato anche dall’Agenzia delle Entrate – da ultimo – nell’ambito della Circolare).

In termini generali e in estrema sintesi, ciò dovrebbe potersi ragionevolmente escludere:

  • quanto alla nozione di stabile organizzazione materiale, ove ildipendente si limiti a svolgere l’attività lavorativa dalla propria abitazione domestica e non sia stata l’impresa estera ad imporre tale soluzione (anziché fornire al dipendente un ufficio) [8];
  • con riferimento alla stabile organizzazione personale, ove l’attività del lavoratore non comporti la negoziazione dei termini sostanziali e/o la conclusione abituale di contratti in Italia per conto dell’impresa non residente [9].

Su queste basi, pertanto, avuto riguardo al caso dei manager del settore finanziario/private equity che si trasferiscano in Italia e aderiscano al Regime, sembra corretto poter affermare – seppure il tema è certamente delicato – che, in linea di principio, la presenza del manager nel territorio dello Stato non dovrebbe dar luogo ad una stabile organizzazione del datore di lavoro estero se il manager sia privo del potere di negoziare i termini sostanziali/concludere contratti e non abbia particolari deleghe operative. Si pensi, ad esempio, al caso di un senior manager di un fondo di private equity estero, che, nell’ottica di delegare progressivamente la gestione operativa degli investimenti a un team composto da figure più junior (o, comunque, nel contesto di una revisione della governance esistente), decida di rinunciare alle proprie deleghe esecutive (incluso lo svolgimento di fund raising in Italia) in vista del (o contestualmente al) suo trasferimento di residenza in Italia [10].

Sotto altro profilo – sebbene l’Agenzia non abbia espressamente affrontato questo aspetto nella Circolare – la presenza del manager in Italia dovrà essere attentamente valutata anche ai diversi fini della residenza fiscale della società estera, nel caso in cui il manager ne risulti – contestualmente – anche amministratore.

Sul punto – posto che occorre effettuare un’analisi caso per caso – ci si limita a rilevare che l’indagine circa la residenza fiscale di una società involge una valutazione diversa e più ampia di quella volta a valutare la sussistenza di una stabile organizzazione; valutazione che deve tenere conto, ad esempio, della composizione dell’intero consiglio di amministrazione estero, della ripartizione delle deleghe e funzioni al suo interno tra i singoli componenti, della residenza fiscale di questi ultimi, del luogo in cui vengono prese le decisioni strategiche per l’impresa e quello in cui avviene la gestione ordinaria della stessa. Ad esempio, salvo ipotesi patologiche, non dovrebbe ragionevolmente risultare problematico, sotto questo profilo, un assetto di governance che preveda la presenza di un solo amministratore residente in Italia, se privo di particolari deleghe operative e inserito all’interno di un board costituito in prevalenza da soggetti non residenti (e che si riunisce esclusivamente all’estero) [11].

3. Manager del settore finanziario e addizionale del 10% ex art. 33 D.L. 78/2010

Un altro chiarimento degno di nota attiene all’(in)applicabilità del Regime ai redditi assoggettati all’addizionale del 10% prevista dall’art. 33 del D.L. 31 maggio 2010, n. 78.

Si ricorda, in merito, che la predetta addizionale riguarda gli emolumenti variabili corrisposti, sotto forma di bonus e stock option, in favore di dirigenti e collaboratori di imprese che operano nel settore finanziario, e si applica sulla parte degli stessi emolumenti che eccede la retribuzione fissa [12] [13].

Nell’ambito della Circolare (§7.7), l’Agenzia delle Entrate ha chiarito che il Regime non può trovare applicazione nella determinazione della base imponibile degli emolumenti soggetti all’aliquota addizionale del 10%, che pertanto resta applicabile sulla base imponibile quantificata ordinariamente.

Questa conclusione deriva, ad avviso dell’Agenzia, dalla circostanza che l’addizionale si configura come un prelievo d’imposta indipendente dall’IRPEF, pur mutuando da quest’ultima la disciplina relativa all’accertamento, alla riscossione, alle sanzioni e al contenzioso.

Ciò sarebbe peraltro dimostrato dal fatto che l’addizionale: (i) non concorre all’importo sul quale possono essere fatte valere le eventuali detrazioni d’imposta; (ii) non rileva nella determinazione dell’aliquota media da applicare ai fini della tassazione separata; (iii) non deve essere considerata nell’imposta italiana che costituisce il limite entro cui può essere attribuito il credito per le imposte estere.

Da questo punto di vista, dunque, le conclusioni dell’Agenzia risultano coerenti con le affermazioni già contenute nella Circolare n. 4/E del 2011, e lasciano definitivamente intendere che, nell’ottica dell’Amministrazione finanziaria, l’addizionale in parola si qualifica come un prelievo aggiuntivo all’IRPEF e, come tale, dotato di una propria autonomia (anche in ragione del particolare contesto storico-politico in cui è stata introdotta) [14].

4. Emolumenti variabili percepiti a seguito del trasferimento in Italia e maturati in periodi precedenti

Da ultimo, è opportuno soffermare l’attenzione sui chiarimenti resi in relazione all’(in)applicabilità del Regime agli emolumenti variabili percepiti nell’anno in cui è trasferita la residenza fiscale in Italia, ma la cui maturazione è avvenuta in periodi d’imposta in cui il lavoratore era fiscalmente residente all’estero (§ 7.8 della Circolare).

L’Agenzia delle Entrate – in continuità con il chiarimento reso nella Circolare n. 17/E del 2017 (§ 4.1) – ha negato l’applicabilità del Regime a questi emolumenti, pur confermandone la rilevanza ai fini impositivi italiani.

In particolare, è stato precisato che:

  1. tutti gli emolumenti percepiti nei periodi d’imposta in cui l’impatriato è fiscalmente residente in Italia devono essere qui assoggettati ad imposizione anche nel caso in cui si riferiscano a prestazioni lavorative svolte durante i periodi di residenza fiscale estera. Ciò in quanto (i) i redditi di lavoro sono governati dal principio di cassa e (ii) la fiscalità dei soggetti residenti è retta dal criterio di tassazione su base mondiale;
  2. gli emolumenti relativi a prestazioni lavorative rese all’estero prima del trasferimento – pur risultando tassabili in Italia – non possono beneficiare del Regime, in quanto la ratio di quest’ultimo è quella di agevolare i soli redditi prodotti in Italia successivamente al trasferimento di residenza nel territorio dello Stato [15].

Indubbiamente, i suddetti principi dovranno essere attentamente valutati nella pianificazione del trasferimento in Italia di manager che prevedano di realizzare redditi di lavoro che – secondo i principi di cui sopra – si qualificano come interamente/principalmente prodotti all’estero [16]; ciò in quanto il Regime risulterebbe sostanzialmente inapplicabile relativamente a tali redditi. In questi casi, in presenza dei relativi presupposti e in funzione dei flussi attesi, potrebbe invece risultare maggiormente conveniente optare per il regime ex art. 24-bis TUIR (regime dei neoresidenti). Infatti, a fronte di una tassazione integrale basata sull’aliquota marginale IRPEF (che verrebbe subita in caso di accesso al Regime), l’opzione ex art. 24-bis TUIR consentirebbe di assolvere l’onere tributario su tali redditi mediante il pagamento di un’imposta sostitutiva annua determinata forfettariamente nella misura di 100.000 euro [17].

Di converso, il Regime potrebbe risultare particolarmente appetibile per i manager che, a seguito del trasferimento in Italia, sottoscrivano strumenti finanziari (i.e., partecipazioni in società o quote di fondi di investimento) con diritti patrimoniali rafforzati nell’ambito di piani di co-investimento collegati all’attività lavorativa svolta in Italia (ad esempio alle dipendenze di SGR, advisory company o holding di investimento italiane, ovvero anche con datore di lavoro estero secondo quanto descritto al paragrafo 2 sopra). In questi casi, ove la struttura del piano porti a qualificare l’extra-rendimento come reddito di lavoro dipendente [18], la tassazione subita dal manager impatriato (ipotizzando l’aliquota marginale, il 45% del 30% del reddito imponibile = 13,5%) risulterebbe addirittura inferiore a quella derivante dalla qualificazione dell’extra-rendimento come reddito di natura finanziaria (soggetto a tassazione nella misura del 26%).

Infine, con riferimento alle ipotesi in cui il reddito di lavoro risultasse maturato in parte all’estero e in parte in Italia (in quanto il relativo contratto è stato sottoscritto antecedentemente al trasferimento in Italia), per determinare la quota di reddito agevolabile in base al Regime dovrebbe ragionevolmente applicarsi un criterio pro rata temporis [19]. Si pensi, a mero titolo esemplificativo, al caso in cui un manager, in costanza di rapporto con una società estera, abbia aderito ad un piano di stock option con vesting quinquennale e, alla fine del secondo anno, si trasferisca in Italia per lavorare alle dipendenze della consociata italiana, mantenendo la titolarità degli strumenti sottoscritti. L’esercizio delle stock option avverrebbe dunque dopo che il manager abbia acquisito la residenza fiscale in Italia ed aderito al Regime. In tale ipotesi, ad avviso di chi scrive, una quota parte pari ai 3/5 del reddito dovrebbe quindi beneficiare del Regime.

Nel caso in cui, invece, il trasferimento in Italia avvenisse al termine del quarto anno, solo 1/5 del reddito si qualificherebbe come prodotto in Italia e potrebbe beneficiare del Regime, mentre i restanti 4/5 sarebbero soggetti a tassazione ordinaria. Limitando quindi l’analisi alla remunerazione in oggetto, potrebbe risultare maggiormente conveniente optare per il regime ex art. 24-bis TUIR, in quanto consentirebbe di assolvere l’onere tributario su 4/5 del reddito in questione mediante pagamento dell’imposta forfettaria di 100.000 euro [20].

 

[1] Con riferimento alla previgente versione del Regime, l’Agenzia delle Entrate aveva invece già chiarito che la condizione dello svolgimento dell’attività lavorativa presso un’impresa residente poteva ritenersi soddisfatta anche nel caso in cui il lavoratore prestasse l’attività lavorativa presso la stabile organizzazione italiana della società estera di cui era già dipendente (cfr. Circolare 23 maggio 2017, n. 17/E, § 3.3).

[2] Si fa riferimento alla risposta ad interpello della Direzione regionale dell’Agenzia delle Entrate del Lazio menzionata da M. Ascenzi, Non sempre si applica il regime degli impatriati con smart working dall’Italia, in Eutekne.info del 16 ottobre 2020.

[3] Le conseguenze potrebbero infatti variare a seconda che il reddito sia inquadrato come “Income from employment” ovvero come “Directors’ fees” (assumendo che la convenzione applicabile segua il Modello OCSE). Infatti, nel primo caso, verrebbe assicurata la potestà impositiva esclusiva dello Stato di residenza (in questo caso, l’Italia), in considerazione del fatto che l’attività lavorativa è prestata nel territorio dello Stato; nel secondo caso, invece, le disposizioni convenzionali accorderebbero potestà impositiva concorrente ad entrambi gli Stati contraenti.

[4] Su cui cfr. M. Ascenzi, cit.

[5] Alcuni ordinamenti esteri prevedono, ad esempio, limitazioni temporali allo svolgimento di un’attività lavorativa sul proprio territorio da parte di soggetti fiscalmente residenti in altri Stati. Ciò potrebbe, in concreto, limitare la possibilità per un manager trasferitosi in Italia (nel cui territorio svolge prevalentemente la propria attività lavorativa) di continuare a recarsi periodicamente presso la sede e/o la clientela estera del proprio datore di lavoro.

[6] La Risposta richiama a supporto l’orientamento espresso nella Circolare 23 dicembre 1997, n. 326 (§ 3.1), che sembrerebbe peraltro confermato anche dalla Circolare 7 luglio 2015, n. 25/E, p. 35.

[7] Secondo una certa chiave di lettura della prassi di riferimento, gli obblighi di sostituzione d’imposta graverebbero sul datore di lavoro estero al ricorrere dei seguenti presupposti alternativi: (a) la presenza di una stabile organizzazione nel territorio dello Stato; (b) la produzione di altri redditi (es., redditi fondiari, redditi di capitale, redditi diversi) in Italia, cui si ricolleghi l’obbligo di presentazione della dichiarazione dei redditi. Cfr. M. Negro, G. Odetto, Società estere sostituti d’imposta solo con stabile organizzazione, in Eutekne.info del 25 luglio 2019 e G. Marianetti, T. Creta, Obblighi di sostituzione d’imposta per i datori di lavoro stranieri, in il fisco n. 13/2019. Tale lettura troverebbe peraltro riscontro in un risalente documento di prassi (R.M. 8 luglio 1980, n. 649).

[8] Cfr. Commentario all’art. 5 Modello OCSE, par. 18: “Where, however, a home office is used on a continuous basis for carrying on business activities for an enterprise and it is clear from the facts and circumstances that the enterprise has required the individual to use that location to carry on the enterprise’s business (e.g. by not providing an office to an employee in circumstances where the nature of the employment clearly requires an office), the home office may be considered to be at the disposal of the enterprise”.

[9] Su questi aspetti, cfr. D. Avolio, La stabile organizzazione, in Fiscalità internazionale e dei gruppi, a cura di D. Avolio, 2021, pp. 174 ss. ed i riferimenti ivi citati.

[10] In una ipotesi come quella descritta, peraltro, andrebbero attentamente valutate la natura, la fonte e l’ammontare dei redditi attesi negli anni futuri, in quanto – nel caso in cui siano attesi importi significativi di redditi finanziari di fonte straniera, ad esempio derivanti da fondi d’investimento esteri – a certe condizioni potrebbe risultare maggiormente conveniente l’adozione del c.d. regime dei neoresidenti di cui all’art. 24-bis TUIR (ricorrendone i relativi presupposti).

[11] Peraltro, si ricorda che, seppur ai diversi fini del regime dei neoresidenti, l’Agenzia delle Entrate, nell’ambito della Circolare n. 17/E del 2017, aveva sottolineato (§ 2.2.) che “la peculiare condizione soggettiva della persona fisica che ha optato” per il regime agevolativo “rende irrilevante ai fini impositivi l’attrazione in Italia, ai sensi dell’articolo 73 del TUIR, della residenza fiscale di entità estere, ove la stessa fosse fondata sul solo rapporto con il contribuente che fruisce dell’imposizione sostitutiva”. Il chiarimento non è stato replicato con riferimento al Regime, rispetto al quale dovrebbero dunque rimanere applicabili le regole ordinarie.

[12] Per la prassi, cfr. Circolare 5 agosto 2011, n. 41/E, § 15 e Risposta n. 146 del 28 dicembre 2018. Per la giurisprudenza cfr. CTP Milano, Sez. 17, 13 febbraio 2018, n. 632 e CTP Milano, Sez. 8, 17 luglio 2018, n. 3302. In favore di una differente interpretazione della norma, cfr. CTR Lombardia, Sez. 16, 8 novembre 2017, n. 5413, secondo cui l’addizionale è “applicabile nel caso che la parte variabile superi il triplo della parte fissa della retribuzione ma … la base imponibile per l’applicazione dell’addizionale è rappresentata dalla parte variabile eccedente l’importo corrispondente alla parte fissa”.

[13] L’addizionale è tipicamente applicata dal sostituto d’imposta al momento della erogazione del reddito. In caso di datore di lavoro estero, non tenuto agli obblighi di sostituzione in Italia, l’applicazione dell’addizionale è demandata al lavoratore residente, che deve liquidare e versare la relativa maggiore imposta con le medesime modalità di versamento dell’IRPEF (cfr. Circolare 15 febbraio 2011, n. 4/E, § 13.4).

[14] L’intervento normativo si ricollega alle decisioni assunte in sede di G-20, volte ad eliminare gli effetti distorsivi prodotti, sul sistema finanziario e sull’economia mondiale, dai premi erogati sotto forma di bonus e stock option legati agli andamenti del mercato.

[15] Una conclusione in sostanza analoga era già stata affermata, in realtà, nell’ambito della Risposta n. 78 del 2020.

[16] Ci si riferisce, ad esempio, ai redditi derivanti da piani di incentivazione classici (es., piani di stock option o di stock grant) o da piani di co-investimento (es., proventi da carried interest) i cui proventi non si qualifichino, ai sensi della normativa domestica, come redditi di natura finanziaria.

[17] La convenienza dovrà essere attentamente valutata tenendo in considerazione anche le eventuali imposte estere applicabili sul medesimo reddito. Infatti, in questi casi, lo Stato della fonte conserva tipicamente la propria potestà impositiva (cfr. art. 15 del Modello OCSE e Commentario all’art. 15, § 2.2)

[18] Ciò potrebbe dipendere dalla mancata integrazione dei requisiti di cui all’art. 60 del D.L. n. 50/2017 e, più in generale, dalle carattertistiche del piano (ad esempio, ogniqualvolta il manager non sia effettivamente esposto al rischio di perdita del capitale investito).

[19] In tale senso, si è espressa, del resto, la stessa Agenzia delle Entrate con riferimento all’ipotesi di assegnazione di Restricted Stock Units in favore di un manager dipendente di una consociata estera, che viene in seguito assunto da una società italiana del gruppo(cfr. Circolare n. 17/E del 2017, § 2.1). In tale ipotesi, l’Agenzia (rinviando al paragrafo 12.14 del Commentario all’arti. 15 del Modello OCSE) ha infatti precisato che, al fine di individuare il reddito che si considera prodotto all’estero, occorre fare riferimento al rapporto tra il numero di giorni durante il quale la prestazione lavorativa è stata esercitata nel Paese estero e il numero totale dei giorni necessari ad acquisire il diritto a ricevere le azioni. Il medesimo criterio è stato applicato anche con riferimento alla fattispecie esaminata nell’ambito della Risposta n. 78 del 2020.

[20] Tale valutazione dovrà essere naturalmente effettuata tenendo anche in considerazione l’eventuale tassazione del reddito prodotto all’estero, nello Stato in cui è stata svolta l’attività lavorativa.

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