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Editoriali

Le conseguenze fiscali della Brexit

5 Febbraio 2020

Marco Greggi

Professore ordinario in diritto tributario, Università di Ferrara

Di cosa si parla in questo articolo

Il 29 gennaio scorso il Parlamento europeo ha formalmente chiuso, con un voto ad ampia maggioranza, la prima parte del percorso di uscita del Regno Unito dall’Unione europea (2018/0427(NLE)). La mozione approvata ha riguardato un itinerario che era cominciato il 23 giugno 2016 con il voto referendario anglosassone, e che si era sviluppato per tre anni in modo tormentato, erratico, tra tentativi di correzione e complesse mediazioni. L’articolo 50 del Trattato, che regola l’abbandono dell’Unione europea da parte di un Paese membro, si è rivelato del tutto inadeguato a garantire, alla prova dei fatti, un’uscita ordinata (e tempestiva): segno evidente che l’ipotesi exit da parte di uno stato era stata considerata puramente scolastica. Si era sempre pensato, a buon diritto, che la costruzione della casa comune europea fosse per sua natura ispirata a “magnifiche sorti, e progressive”. Così non è stato.

Quello di gennaio è stato un passaggio formale, ma denso di valore simbolico, come la rimozione dello Union Jack dal Consiglio europeo, o l’abbandono dell’emiciclo da parte degli europarlamentari britannici.

Dal punto di vista tributario bisognerà attendere ancora poco meno di un anno per vedere i primi effetti: fino al 1 gennaio 2021 (e salvo ulteriori proroghe a questo punto improbabili) nulla cambierà. In questo lasso di tempo dovrebbero essere negoziati tutti gli aspetti giuridici che la Brexit porta con sé. Tra questi, quelli di natura fiscale evidentemente giocano un ruolo centrale, in ragione dell’impatto economico che finiranno per avere su tutti gli stati membri dell’Unione, e non solo.

Essenzialmente sono tre temi che gli accordi di Brexit dovranno regolare: dogane, IVA e imposte dirette. Unitamente alle accise, infatti, i più significativi interventi dell’Unione europea nei decenni scorsi hanno riguardato questi temi, sia dal punto di vista sostanziale (con regolamenti e direttive tesi ad armonizzare o uniformare le legislazioni dei singoli stati) che procedimentale (mediante direttive finalizzate a comporre controversie tra stati concernenti la doppia imposizione). Per converso, dovrebbero continuare a valere per il Regno Unito i principi sanciti dalla Convenzione europea per i diritti dell’Uomo e le libertà fondamentali (CEDU), dal momento che l’appartenenza del Regno Unito al Consiglio d’Europa non è in discussione almeno (per ora).

Si tratta di disposizioni di fondamentale importanza anche per il diritto tributario, dato che lambiscono la tutela della proprietà (da forme di tassazione irragionevoli o discriminatorie, art. 1 del primo protocollo addizionale), i principi del giusto processo (art. 6) e la tutela della riservatezza del contribuente (art. 8).

Dal punto di vista del diritto doganale, il Regno Unito a seguito della Brexit sarà essenzialmente considerato un Paese terzo a tutti gli effetti, e alle merci movimentate verso il continente troveranno applicazione i dazi previsti, a seconda della categoria merceologica di riferimento, nell’ambito degli accordi della WTO (alla quale comunque il Regno Unito dovrà accedere). Tutto questo, naturalmente, solo qualora non si riesca in questi mesi a raggiungere un accordo tra Regno ed Unione, sulla falsariga di quanto già avviene con paesi terzi sì, ma in particolari rapporti con l’Europa: è il caso della Turchia (decisione 1/95 del Consiglio di associazione EU-Turchia, 96/142/EC) e della Svizzera (sin dall’accordo di libero scambio del 1972) che beneficiano di una disciplina doganale speciale, e derogatoria, rispetto a quella normalmente applicabile. Altra soluzione, allo stato, potrebbe essere quella di riportare il Regno alla Associazione europea di libero scambio (che aveva contribuito a fondare nel 1960) con gli altri Paesi che ancora ne fanno parte e dalla quale in fin dei conti la Gran Bretagna nel 1973 era uscita proprio per accedere all’Unione.

Operativamente, la reintroduzione della linea doganale comporta la reviviscenza di controlli fisici anche sulle frontiere di terra tra Unione e Regno, come quella che insiste sull’eurotunnel ed in Irlanda (cui si dovrebbe aggiungere in linea di principio anche quella tra Gibilterra e Spagna). Di queste, naturalmente, la più complessa (per notorie ragioni storiche) è quella irlandese (mentre Gibilterra non ha mai fatto parte dell’unione doganale). La soluzione verso la quale ci si sta orientando dovrebbe salvare l’unità dell’isola mediante la previsione di dogane europee nei porti inglesi (come Belfast) nei quali l’amministrazione finanziaria inglese agirebbe per conto di quella europea (come una sorta di proxy) riscuotendo tributi alla merce importata (da paesi terzi, evidentemente) in Irlanda, e che poi potrebbe circolare liberamente nell’isola senza soluzione di continuità.

L’applicazione dell’imposta sul valore aggiunto sarà parimenti caratterizzata da cambiamenti significativi, sempre ammesso che il Regno intenda continuare ad applicarla nel lungo periodo. La movimentazione di merci da e per l’isola sarà infatti considerata, rispettivamente, importazione e cessione all’esportazione, determinando così un aggravio della disciplina di compliance da parte degli operatori europei, nonostante gli indubbi passi in avanti che la gestione degli adempimenti doganali ha compiuto negli ultimi anni. Non va dimenticato che il Regno Unito è un importatore netto di commodities dall’Unione europea (importa cioè più di quanto non esporti): è dunque un mercato prezioso anche per l’industria italiana (in particolare l’agroalimentare) che si troverà a competere con tutti quei paesi (in primis le ex colonie come Australia e Nuova Zelanda) che hanno salutato con soddisfazione l’abbandono della Gran Bretagna dall’Unione in ragione del recupero di competitività delle proprie merci su quelle del vecchio continente.

Le imposte dirette, infine, costituiscono l’incognita maggiore dell’uscita del Regno dall’Unione. L’Europa nel corso degli anni (dal 1990 in avanti) era riuscita faticosamente ad approvare una serie di direttive finalizzate ad un’armonizzazione della tassazione dei passive income e di determinate operazioni straordinarie d’impresa. Più recentemente, aveva adottato una serie di stringenti misure finalizzate al contrasto dell’elusione fiscale internazionale e dell’erosione delle basi imponibili. La Brexit non dovrebbe caducare immediatamente le legislazioni domestiche che hanno attuato queste direttive, ferma restando la possibilità per gli stati di abolirle progressivamente, rivitalizzando così in vita i trattati (bilaterali) contro la doppia imposizione.

Più difficile, dal punto di vista giuridico, ipotizzare che l’Unione possa adottare una strategia comune con il Regno, in queste tematiche. L’Europa non ha infatti competenza diretta nell’armonizzazione delle imposte dirette, salvo le esigenze del mercato comune. Quest’ultima necessità ha costituito la base giuridica per l’armonizzazione della tassazione transfrontaliere di dividendi, interessi e royalty. È quantomeno dubbio che la stessa base giuridica possa essere utilizzata per regolamentare in modo armonizzato la tassazione con un paese terzo, se non nei casi in cui questo non vada a costituire tassello di un più ampio accordo (come accadde ad esempio con la Confederazione elvetica).

Più che probabile, quindi, è che il Regno unito tenti nei prossimi anni un approccio divide et impera come proprio la Svizzera provò (con un certo iniziale successo, poi svanito) ai tempi degli accordi cd. “Rubik” riguardanti lo scambio di informazioni.

Per converso, e proprio per contrastare quello che si profila per essere un forte competitor nell’industria dei servizi bancari, finanziari e assicurativi in generale, l’Unione dovrebbe perseguire un approccio quanto più unitario ai negoziati, evitando fughe in avanti di membri dell’Unione maggiormente interessati a un rapporto privilegiato con il Regno. Dovrebbe tentare, cioè, quello che in altri secoli, in altri contesti, e per ben altri fini, è stato definito un “Blocco continentale” per impostare i rapporti con un nuovo, ingombrante vicino. Questa volta ciò dovrebbe avvenire dal punto di vista fiscale, nell’ottica di preservare per quanto possibile le basi imponibili continentali, ed evitare che la Brexit diventi occasione di nuove forme di base erosion e profit shifting: e magari di pianificazione fiscale aggressiva.

Un auspicio che si scontra tuttavia, con l’insegnamento della storia: i blocchi continentali non hanno mai avuto ragione dell’isolamento anglosassone. Se questo valga anche per il diritto tributario, ce lo diranno i prossimi anni.

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