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Editoriali

Salvate l’apertura di credito in conto corrente!

15 Settembre 2015

Mario Comana

Professore Ordinario di Economia degli intermediari finanziari, Università LUISS Guido Carli di Roma

Di cosa si parla in questo articolo

Il nuovo testo proposto per l’art. 120 Tub sull’anatocismo, insieme a molti difetti, ha anche qualche pregio. Per dare a Cesare quel che è di Cesare, prima di tornare a trattare prossimamente delle sue tante incertezze e criticità, è doveroso evidenziare anche un aspetto positivo.

Bisogna partire dalla consapevolezza che il divieto assoluto di capitalizzazione degli interessi e, soprattutto l’assenza di una esigibilità effettiva, avrebbe decretato la morte della forma tecnica dell’apertura di credito in conto corrente, che costituisce una forma importantissima di finanziamento delle imprese italiane, specialmente di media e piccola dimensione. Non solo il rendimento dell’operazione ne avrebbe risentito, cosa ovviabile con una opportuna revisione del tasso nominale, ma sarebbe stata compromessa la possibilità di pianificare l’incasso degli interessi attivi, il cui pagamento sarebbe stato di fatto rimesso al buon cuore del cliente. Con il meccanismo previsto dal nuovo art.120 Tub è fissata almeno la data a partire dalla quale la banca può pretendere il versamento e se, come è immaginabile, si diffonderà la prassi dell’autorizzazione all’addebito in conto, il 2 marzo (l’1 negli anni bisestili) si ripristina una condizione di relativa certezza dell’adempimento delle obbligazioni del cliente. Una volta a regime la nuova disciplina, l’operatività resterà sostanzialmente simile a quella odierna, anche se le differenze introdotte non sono così banali: la capitalizzazione annuale invece che trimestrale, la gratuità dei primi 60 giorni (almeno), l’indeterminatezza degli incassi quando il cliente chiede di pagare con le future successive rimesse

Io mi aspetto che le banche e i clienti continueranno ad avvalersi di questo strumento che, è bene ricordarlo, consente molti più vantaggi al finanziato che al finanziatore. Le piccole e medie imprese italiane, capaci di tanti prodigi in termini di tecnologia, di prodotto e di marketing, sono notoriamente scarse dal punto di vista della qualità della gestione finanziaria. Così la loro pianificazione dei fabbisogni di credito è spesso lacunosa quando non assente. Di qui l’utilità di una forma di finanziamento massimamente flessibile come l’apertura di credito in conto corrente, che richiede solo l’individuazione del tetto massimo del fabbisogno e poi lascia il cliente libero di utilizzare la disponibilità secondo le proprie effettive necessità. E spesso anche il tetto del fido non è così rigido. Una volta pagata la commissione di affidamento, che oggi sembra ingente perché i tassi di interesse sono bassissimi, anche il mancato utilizzo non è sanzionato. Ecco perché le aziende vi ricorrono in misura estremamente diffusa, direi quasi prioritaria, affiancandola all’altra tipica forma tecnica dell’anticipazione salvo buon fine dei crediti verso la clientela. Con questi due strumenti viene sostanzialmente saturato tutto il fabbisogno a breve termine, senza preoccupazioni soverchie dal punto di vista della predisposizione delle fonti di cassa. Dal punto di vista dei costi, l’indicizzazione all’Euribor garantisce il pagamento di un saggio di interesse sempre allineato al mercato. Se questa tecnica ha un difetto è, paradossalmente, nella sua flessibilità: proprio perché è talmente facile da fruire, spesso finisce per sobbarcarsi anche il compito di soddisfare il fabbisogno finanziario a medio e lungo termine, conducendo a una struttura patrimoniale sbilanciata che, a lungo andare, si rivela un fattore di vulnerabilità per l’impresa.

La possibilità di mantenere questo tipo di operatività è tutt’altro che banale, e probabilmente giustifica le scelte discutibili che sono state compiute in sede di stesura del provvedimento. La finalità di preservare la tecnica di finanziamento di cui parliamo, soprattutto nell’interesse delle imprese, è esplicitata anche nella relazione accompagnatoria. Per capire l’importanza di questo passaggio bisogna pensare a quali alternative sarebbero state possibili altrimenti. Prima della pubblicazione della bozza di decreto, avevo provato a immaginare e a studiare con qualche banca le soluzioni che sarebbero state possibili per continuare a finanziare le imprese in modo flessibile assicurando comunque la certezza della riscossione degli interessi. Ebbene, si possono configurare diverse soluzioni, ma fondamentalmente si sarebbe andati verso uno schema di tipo americano, dove non esistendo l’apertura di credito in conto corrente il cliente chiede un finanziamento pari al fido che desidera e se lo vede accreditato su un conto attivo (per lui). Ovviamente pagherà gli interessi sul finanziamento per l’intero ammontare e riceverà gli interessi sulla giacenza del suo conto attivo, corrispondente alla quota di finanziamento non utilizzata. Se il tasso attivo e quello passivo fossero uguali il cliente finirebbe per pagare gli interessi sulla parte di fido che effettivamente utilizza. Se invece i tassi non fossero reciproci l’onere sarebbe superiore, e la differenza costituirebbe l’equivalente della nostra commissione di affidamento.

Dunque una soluzione tecnica ci sarebbe, ma certamente con maggiori complessità e rigidità e con la necessità di adeguare i contratti, le procedure e il modus operandi dei cliente e delle stesse banche. Molto meglio così, quindi, almeno finché un altro genio non troverà il modo di stravolgere anche questo assetto.

Ma c’è una cosa molto buffa nascosta in questa soluzione alternativa, che fortunatamente non è stato necessario percorrere. Nel meccanismo descritto gli interessi sono pagati all’estinzione del finanziamento, che può avere durata trimestrale, annuale o diversa. Poiché in Italia non si tratta di un’esigenza temporanea ma strutturale, sarebbe normale assistere al rinnovo sistematico di questi finanziamenti. Pensiamo bene a cosa succede al rinnovo. Se questo avviene per lo stesso ammontare nominale del precedente, la banca incassa effettivamente gli interessi della prima operazione; se si rinnova per il montate del primo finanziamento (nominale più interesse) di fatto gli interessi vengono capitalizzati. In conclusione, gli interessi sarebbero fruttiferi dal momento della maturazione, come la logica e la matematica finanziaria vorrebbero. E se qualcuno avesse contestato questo approccio, qualificandolo come elusivo della disciplina, c’era pronta la contromossa: l’incasso anticipato degli interessi. Tecnicamente funziona così: a fronte di un prestito di 1000 euro si eroga il valore attuale, cioè il nominale diminuito degli interessi, diciamo per esempio 950. La somma di 1000 euro restituita alla scadenza del prestito è palesemente solo quella che i legali chiamano sorte capitale, quindi anche se rinnovo il prestito per altri 1000 non sto praticando anatocismo! Avete capito l’assurdità della presa antianatocistica? La maturazione degli interessi sugli interessi è vietata, ma gli interessi anticipati, molto più sfavorevoli al debitore, sono consentiti, come nei Bot che colloca lo Stato! La verità è che questa rappresentazione non è altro che un gioco delle tre carte, perché così come non esiste un problema anatocistico, non esistono neppure gli interessi anticipati. Infatti, in ogni operazione di prestito il flusso di cassa iniziale (che il creditore dà al debitore) è inferiore al flusso di cassa finale (che il debitore paga al creditore), la differenza essendo gli interessi. Come si fa a riconoscere se sono anticipati o posticipati? Divertitevi voi a scoprirlo, giacchè a me interessano solo i flussi di cassa e il momento in cui avvengono. Tutto il resto è materia di qualificazione giuridica irrilevante dal punto di vista finanziario.

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