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Approfondimenti

Sicurezza sul luogo di lavoro e responsabilità penale da Covid-19

29 Maggio 2020

Leonardo Cammarata e Agata Russo, Arata e associati

Di cosa si parla in questo articolo

L’equiparazione tra infezione da Covid-19 e infortunio sul lavoro ha dato luogo nelle ultime settimane a un intenso dibattito, complice anche una non sempre corretta elaborazione giornalistica sul tema che ha creato apprensione nel mondo dell’imprenditoria. Nonostante il tema nascesse da una circolare INAIL emanata per questioni di natura assicurativa [1], la discussione ha finito con abbracciare anche le tematiche della penale responsabilità del datore di lavoro per l’ipotesi di infezione da Covid-19 patita dal dipendente.

L’indubbia tensione di questo momento storico, unitamente alla gravità delle possibili conseguenze delle questioni in gioco, ha portato a una discussione accesa ma non sempre lucida circa le ripercussioni penali della produzione legislativa emergenziale.

Le questioni sul tavolo, lo si anticipa, a volte non consentono di fornire risposte definitive e univoche; in ogni caso, è però opportuno cercare per quanto possibile di mettere a fuoco le problematiche connesse all’astratta configurabilità di responsabilità penale del datore di lavoro collegata al contagio da Covid-19.

1. Le precauzioni da adottare in caso di svolgimento dell’attività lavorativa: le linee guida anti-contagio

Nell’ambito della regolamentazione dello svolgimento delle attività imprenditoriali per le quali era prevista la prosecuzione anche durante il periodo di lockdown, il Governo aveva provveduto a individuare alcune norme precauzionali atte a consentire lo svolgimento delle mansioni lavorative in sicurezza.

Il punto di riferimento in questo senso è senza dubbio il Protocollo 14 marzo 2020 (così come integrato dal Protocollo del 24 aprile 2020) condiviso tra Governo e Parti sociali, nel quale sono state individuate le misure da attuare all’interno delle imprese che proseguono le proprie attività imprenditoriali.

I principali ambiti in tema di sicurezza individuati dal Protocollo possono essere così schematizzati:

  • Obbligo di informazione ai lavoratori e sui comportamenti igienico-sanitari da adottare.
  • Pulizia e sanificazione periodica dei locali.
  • Messa a disposizionediadeguati dispositivi di protezione (guanti, camici, mascherine, gel igienizzanti).
  • Obbligo di regolamentazione dell’accesso agli spazi comuni(mense, spogliatoi, ecc..).
  • Riorganizzazione aziendale (turnazione, trasferte, smart working) al fine di ridurre la presenza del personale e limitarne gli spostamenti non necessari.
  • Sorveglianza sanitaria.

2. Conseguenze penali per il datore di lavoro

2.1. Le contravvenzioni ex D.Lgs 81/2008

Il sopra ricordato Protocollo del 14 marzo 2020, che – come visto – aveva provveduto a delineare i comportamenti precauzionali che devono essere posti in essere nell’ambito dell’esercizio dell’attività d’impresa, ha indubbiamente un impatto sulle contravvenzioni già previste dall’ordinamento al Testo Unico sulla Salute e Sicurezza nei luoghi di lavoro (D.Lgs. 81/2008), ridisegnando dunque in concreto i contenuti degli obblighi in capo al datore di lavoro.

In particolare, le prescrizioni di cui al Testo Unico possono essere certamente oggi declinate alla luce delle disposizioni anti-contagio Covid-19, disegnando in capo al datore una serie di responsabilità specificamente connesse alla contingente situazione pandemica quali, per citare le più rilevanti, l’aver omesso di «effettuare la valutazione dei rischi derivanti dall’esposizione agli agenti biologici presenti nell’ambiente»; l’aver omesso di «informare i lavoratori circa il pericolo esistente, le misure predisposte e i comportamenti da adottare»;non aver fornito ai lavoratori «i necessari e idonei dispositivi di protezione individuale» e aver omesso di nominare il medico competente per l’effettuazione della sorveglianza sanitaria aziendalenei casi previsti dal Testo Unico; non aver richiesto «l’osservanza da parte dei singoli lavoratori delle norme vigenti, nonché delle disposizioni aziendali in materia di sicurezza e di igiene del lavoro e di uso dei mezzi di protezione» per aver omesso di programmare gli interventi da attuare «in caso di pericolo immediato»; ovvero, in caso di affidamento di lavori a un’impresa appaltatrice o a lavoratori autonomi all’interno della propria azienda, per avere i datori di lavoro omesso «di cooperare nell’adozione di misure di prevenzione e protezione dai rischi» e «di coordinare gli interventi di protezione e prevenzione dai rischi cui sono esposti i lavoratori». [2]

La natura contravvenzionale delle norme in esame comporta che l’inosservanza di tali precetti, indifferentemente a titolo di dolo o di colpa, è di per sé fonte di responsabilità penale anche a prescindere dall’effettiva lesione alla salute dei lavoratori: si tratta infatti di reati nei quali tendenzialmente si esprime, in forma coercitiva, la regolamentazione disciplinare della vita associata da parte dell’autorità amministrativa preposta alla cura di diversi settori (sanità, commercio, ecc.). [3]

Si tratta di reati sanzionati con l’arresto entro i sei mesi unito ad ammenda o, in taluni casi, con la sola ammenda. Qualora al datore di lavoro venga contestata la violazione di taluna di dette ipotesi, è prevista la possibilità di ottenerne l’estinzione mediante l’accesso ad una c.d. oblazione speciale la quale prevede l’obbligo di eliminare le conseguenze dannose e/o pericolose del reato nel termine imposto dall’Autorità amministrativa che ha riscontrato la violazione e versare una somma corrispondente a 1/4 del massimo edittale dell’ammenda applicabile al reato contestato.

2.2. Il delitto di lesioni colpose gravi o gravissime e il delitto di omicidio colposo

Ben più problematico, è invece il diverso piano della tutela penale dei cosiddetti “diritti naturali”, quali la vita e la salute, che, per restare nel campo che ci riguarda, concerne l’ipotesi in cui uno o più dipendenti abbiano contratto il Covid-19 nello svolgimento della propria attività lavorativa e che tale evento sia in qualche modo attribuibile a titolo di colpa al datore di lavoro.

In questi casi, il datore di lavoro risponderebbe delle ben più gravi ipotesi delittuose di lesioni personali colpose, gravi o gravissime o di omicidio colposo, entrambe aggravate dalla violazione delle norme in materia di salute e sicurezza sul luogo di lavoro, sanzionate dagli artt. 590, comma 3 c.p. e 589, comma 2 c.p..

Si versa nel campo della cosiddetta colpa specifica, vale a dire l’attribuzione di responsabilità a titolo di colpa per “inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline” (art. 43 comma 3 c.p.).

Non esistendo nell’ambito del diritto penale alcuna possibilità di imputazione esplicita a titolo di responsabilità oggettiva, tali reati potranno essere contestati qualora concorrano le seguenti condizioni: che il contagio si sia effettivamente verificato all’interno dell’ambiente di lavoro, e che l’evento si sia verificato a causa del mancato rispetto da parte del datore degli obblighi imposti dalla Legge.

Anzitutto, il luogo del contagio.

Ovviamente un discorso a parte deve essere fatto per la tutela dei lavoratori delle strutture sanitarie dedicate alla cura dei malati da Covid-19: si tratta in effetti di ambiti lavorativi in cui il rischio contagio è senz’altro definibile come rischio direttamente correlato all’attività lavorativa e che dunque merita un discorso a parte.

Al di fuori dei predetti casi, l’ipotesi di contagio in azienda da Covid-19 non costituisce invece un rischio direttamente connesso all’attività lavorativa.

Non ci si trova infatti al cospetto di malattie riconducibili con sufficiente certezza a specifiche attività (come l’asbestosi da amianto o talune forme tumorali connesse all’esposizione ad agenti patogeni), ma a un’infezione di natura pandemica alla quale è potenzialmente esposta tutta la collettività e non solo coloro che lavorano nell’azienda.

A meno di situazioni limite, quali quelle in cui un rilevante numero di dipendenti della medesima sede lavorativa abbia contratto il Covid-19 in una percentuale assolutamente non fisiologica e per le quali dunque appare presumibile che l’epidemia si sia diffusa in quell’ambiente, risulta in genere particolarmente difficile poter individuare le coordinate spazio/temporali del contagio.

Il tempo di latenza del virus, tra i 2 e i 12 giorni secondo le indicazioni del Ministero della Salute, rende praticamente impossibile stabilire il momento (e dunque il luogo) in cui è avvenuto il contagio.

Con riferimento all’individuazione della colpa, alla luce di quanto detto sopra, è del tutto evidente che la mancata adozione delle misure di sicurezza a tutela dei lavoratori possa astrattamente configurare il rilievo di colpa specifica di cui all’art. 43 comma 3 c.p..

Le insidiose modalità della malattia rendono comunque non semplice la prova del nesso causale tra il contagio e la cautela omessa, vale a dire l’individuazione controfattuale di quello specifico comportamento che il datore avrebbe dovuto tenere e che, ove posto in essere, avrebbe evitato l’evento.

Guardando la questione da un’altra prospettiva, ci si chiede invece se, una volta soddisfatti tutti gli obblighi collegati al dovere di informazione al dipendente e alla messa a disposizione dei dispositivi di protezione individuale, il datore possa considerarsi al riparo da qualsiasi possibile contestazione di natura penale.

A parere di chi scrive, alla luce dell’orientamento giurisprudenziale in tema di sicurezza sul lavoro, la questione non può essere liquidata in maniera così netta.

La costante giurisprudenza della Suprema Corte ha ravvisato la responsabilità datoriale anche nel caso in cui, nonostante l’esistenza di corrette disposizioni in tema di sicurezza, l’imprenditore non abbia vigilato sull’effettivo rispetto delle norme anti infortunistiche da parte del lavoratore. In particolare ‘[i]n tema di infortuni sul lavoro il datore di lavoro deve controllare che il preposto nell’esercizio dei compiti di vigilanza affidatigli, si attenga alle disposizioni di legge e a quelle, eventualmente in aggiunta, impartitegli; ne consegue che, qualora nell’esercizio dell’attività lavorativa si instauri, con il consenso del preposto, una prassi “contra legem”, foriera di pericoli per gli addetti, in caso di infortunio del dipendente, la condotta del datore di lavoro che sia venuto meno ai doveri di formazione e informazione del lavoratore e che abbia omesso ogni forma di sorveglianza circa la pericolosa prassi operativa instauratasi, integra il reato di omicidio colposo aggravato dalla violazione delle norme antinfortunistiche’ (così Cass. pen. sez. IV, 14 marzo 2018, n. 26294).

2.3. L’ipotesi dello “scudo penale”

Parallelamente alle ricordate indicazioni da parte dell’INAIL circa la natura di infortunio sul lavoro del contagio da Covid-19, è stata auspicata da parte del mondo imprenditoriale l’introduzione di un c.d. “scudo penale” e cioè un intervento di natura normativa volto espressamente a proteggere l’imprenditore che ottempera alle disposizioni di legge dai rischi dell’imputazione penale per il contagio in azienda.

La sola prospettazione di questa ipotesi ha generato forti reazioni contrarie da parte di coloro che ritenevano che si trattasse di una misura eccessivamente deresponsabilizzante per il datore dal momento che, in ogni caso, l’imprenditore in regola con le normative in tema di sicurezza del lavoro non avrebbe avuto comunque nulla da temere: in pratica la trasposizione in termini giuridici del principio di senso comune “male non fare, paura non avere”.

È evidente che si tratta di una lettura eccessivamente semplicistica che non risolve affatto gli enormi problemi, per certi aspetti inediti, che la natura pandemica del Covid-19 trascina con sé.

Il fulcro della questione non è certo quello di consentire una generalizzata impunità rispetto alle sacrosante esigenze di tutela dei lavoratori quanto piuttosto di evitare che gli imprenditori che abbiano potuto dimostrare di avere adottato tutte le misure richieste a tutela della salute dei lavoratori, possano restare coinvolti in gravosi procedimenti penali che, a prescindere dal loro esito finale, possono essere di per sé esiziali per la vita dell’azienda.

A prescindere dalla concreta fattibilità di un intervento normativo in questa direzione, i problemi sottostanti a questa richiesta sono infatti reali.

È infatti ormai consolidato indirizzo giurisprudenziale che l’avere il responsabile sicurezza informato correttamente i lavoratori dei rischi correlati alla lavorazione e avere correttamente dotato dei dispositivi di protezione per la lavorazione non è di per sé sufficiente a escludere la penale responsabilità del datore, avendo costui altresì l’obbligo di verificare l’effettiva osservanza delle pratiche da parte dei dipendenti.

Il tema dell’omesso controllo è evidentemente collegato alla dibattuta questione della condotta scorretta del lavoratore che sia incorso in infortunio avendo violato le disposizioni a lui impartite. Su tutte, la Cassazione con sentenza n. 39888 del 2008, nel ribadire l’orientamento della Corte, asserisce che ‘il datore di lavoro, quale responsabile della sicurezza sul lavoro, deve operare un controllo continuo e pressante per imporre che i lavoratori rispettino la normativa e sfuggano alla tentazione, sempre presente, di sottrarvisi anche instaurando prassi di lavoro non corrette’. [4]

Ha sostenuto la Suprema Corte che la condotta dell’infortunato, per porsi quale causa esclusiva dell’evento e dunque non imputabile al datore di lavoro, debba essere imprevedibile e cioè quando ‘non preventivamente immaginabile e non già quando l’irrazionalità della condotta del dipendente sia controllabile, pensabile in anticipo.’ [5]

La circostanza che un dipendente non rispetti le regole sul distanziamento o sull’uso di prodotti igienizzanti difficilmente può essere definita ‘abnorme e imprevedibile’: da questo consegue che la condotta richiesta al datore per evitare l’attribuzione di responsabilità penali, dovrebbe in teoria essere costituita da un controllo permanente e capillare sui lavoratori, all’atto pratico difficilmente attuabile e che nella sostanza si tradurrebbe in un’attribuzione di colpa al limite della responsabilità oggettiva.

Con riferimento alle specifiche tematiche del Covid -19, appare dunque evidente che un approccio eccessivamente sbilanciato verso la condotta da esigere dal datore di lavoro sia, non solo ingiustamente punitivo, ma rischi di essere disfunzionale rispetto agli scopi prefissati dalla norma, anche perché, a differenza di quanto accade nella comune casistica degli infortuni di lavoro (ove il mancato rispetto delle prescrizioni in tema di sicurezza da parte del lavoratore mette in pericolo esclusivamente, o principalmente, l’incolumità dello stesso), la mancata adozione delle procedure anti-contagio da parte del dipendenti colpisce principalmente altri soggetti.

Tanto più che le norme di cautela poste per prevenire il contagio da Covid-19 sui luoghi di lavoro non sono collegate, come detto, agli specifici rischi della lavorazione aziendale ma si riferiscono a condotte, quali il distanziamento sociale o l’uso della mascherina, alle quali tutti sono indistintamente tenuti, anche al di fuori dell’attività lavorativa.

3. La responsabilità dell’impresa ex D.Lgs. 231/2001

La commissione dei reati di lesioni o omicidio colposo con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul luogo di lavoro (art. 25 septies, D.Lgs. 231/2001) può, come noto, comportare il rischio di irrogazione di sanzioni previste dal D.Lgs. 231/2001 anche nei confronti dell’Ente.

Con riferimento alle specifiche tematiche in trattazione, vale forse la pena di soffermarsi sul profilo del vantaggio o interesse dell’Ente che è requisito imprescindibile per l’ascrizione di responsabilità amministrativa: come noto, dopo l’introduzione dei delitti colposi nel catalogo dei reati presupposti, originariamente non previsti nel decreto 231/01, la giurisprudenza si è più volte soffermata sui criteri da adottare per individuare l’interesse anche nei reati in cui difetti l’elemento volitivo.

Pare opportuno sottolineare che, nel contesto odierno di emergenza da Covid-19, il vantaggio dell’Ente – anche sulla scorta dei principi sanciti della celebre Cass. Pen., SS.UU. 38343/2013 “sentenza Thyssenkrupp” – ben potrebbe essere costituito dal profitto derivante dalla mancata chiusura di un’attività soggetta a sospensione o ancora dal risparmio di spesa o di tempo derivanti dal mancato acquisto di Dispositivi di Protezione Individuale o dal loro mancato utilizzo per non rallentare i tempi di produzione.

Sul punto, la Suprema Corte si esprime in termini rigorosi. ‘Il profilo dell’interesse/vantaggio per l’ente riveste una notevole importanza in quanto, dato il tenore letterale della disposizione, l’evento dannoso deve essere il risultato della mancata adozione di specifiche misure di prevenzione a fronte di un interesse rilevante dell’ente a porre in essere l’attività pericolosa nonostante la consapevole condotta colposa. Ciò significa che la mancata adozione delle misure di prevenzione deve aver garantito all’ente un vantaggio sia in termini di concreto risultato economico dell’attività posta in essere senza le dovute cautele, sia e soprattutto, in termini di risparmio dei costi attuato mediante l’omissione delle misure in questione. In altri termini il giudice, ai fini della responsabilità dell’ente, deve stabilire se la condotta di chi ha cagionato l’infortunio sia stata o meno determinata da scelte effettivamente rientranti nella sfera di interesse dell’ente o se abbia comportato un beneficio alla società sia in termini assoluti sia rispetto alle dimensioni della singola impresa, all’impatto sul risparmio dei costi ed al correlativo potenziale guadagno.’ (cfr. Cass. Pen. sez. IV, 23 febbraio 2016, n. 40033). Ancor più recentemente, in tema di imputazione oggettiva all’Ente per reati colposi di evento a seguito di violazione di norme antinfortunistiche, nell’esigere al contempo l’interesse e il vantaggio dell’Ente, la Cassazione ha ravvisato ‘il primo, quando l’autore del reato abbia violato la normativa cautelare con il consapevole intento di conseguire un risparmio di spesa per l’ente, indipendentemente dal suo effettivo raggiungimento, e, il secondo, qualora l’autore del reato abbia violato sistematicamente le norme antinfortunistiche, ricavandone oggettivamente un qualche vantaggio per l’ente, sotto forma di risparmio di spesa o di massimizzazione della produzione, indipendentemente dalla volontà di ottenere il vantaggio stesso’. (cfr. Cass. Pen. Sez. IV, 19 settembre 2019, n. 39471).

Alla luce della ricordata giurisprudenza, l’interesse dell’ente – evidentemente un requisito imprescindibile – sarà senz’altro ravvisabile nel caso in cui manchino totalmente i presidi di sicurezza, di talché il vantaggio rilevante ai sensi del D.Lgs. 231/2001 potrà senz’altro essere ravvisato nel risparmio di spesa conseguente al mancato acquisto dei dispositivi di sicurezza. Più problematico invece appare poter identificare un interesse nella chiaramente diversa situazione sopra ricordata in cui il datore abbia comunque provveduto a dotare i lavoratori di tutti i necessari dispositivi, ma vi sia stata un’omissione in termini di controllo dell’effettivo utilizzo delle procedure e dunque, in termini patrimoniali, non sia possibile parlare di un vero e proprio risparmio: in tale condotta di mancata verifica dell’attuazione delle disposizioni aziendali, come visto pur astrattamente idonea a ingenerare profili di penale responsabilità, appare però complicato ravvisare l’esistenza di un vantaggio dell’ente, a meno di ricorrere ad artifici retorici estranei allo spirito della norma.

Per verificare la tenuta del sistema in relazione alle prescrizioni del D.Lgs. 231/2001 e del Modello Organizzativo adottato dalla società, risulta decisivo il ruolo dell’Organismo di Vigilanza. Quest’ultimo, invero, è da subito chiamato a supportare l’ente, attivandosi prontamente per verificare se l’azienda ha posto in essere le misure necessarie per prevenire il rischio di contagi e se il Modello Organizzativo e di Gestione possa ritenersi a tal fine efficace.

La verificadell’adozione delle precauzioni anti-contagio vagliata correttamente dall’OdV potrebbe infatti certificare l’effettiva delle spese sostenute dall’imprenditore e dunque quell’assenza di un interesse/vantaggio dell’Ente di cui si è detto sopra e che eviterebbe l’irrogazione della sanzione ex 231/01.

4. Conclusioni

Deve essere chiaro che le circolari INAIL intervenute sul tema Covid-19, sia con riguardo all’equiparazione contagio/infortunio sul lavoro, sia le successive rassicurazioni, non hanno alcun impatto sui criteri di attribuzione della responsabilità penale.

Il datore di lavoro ha l’obbligo, pena l’irrogazione delle sanzioni di cui alle contravvenzioni già ricordate, di porre in essere ogni misura idonea a garantire al lavoratore un ambiente sicuro, non solo in relazione ai rischi specifici della lavorazione aziendale ma anche rispetto ai pericoli endogeni da infezione pandemica Covid-19.

La morte o la lesione personale del dipendente cagionata da infezione Covid-19 contratta sul luogo di lavoro è astrattamente fonte di penale responsabilità del datore e dei soggetti preposti alla sicurezza dei lavoratori, qualora sia dimostrato che il contagio sia avvenuto con ragionevole certezza nell’ambito dello svolgimento dell’attività lavorativa e a causa dell’inosservanza degli obblighi di legge da parte del datore.

E’ auspicabile che le evidenti e insanabili difficoltà di ricostruire la genesi del contagio dissuadano dall’instaurare procedimenti penali dall’esito necessariamente incerto nati sotto la spinta emotiva della tragedia sociale della pandemia.

La rimodulazione degli obblighi imposti all’imprenditore impone necessariamente il conseguente adattamento dei modelli organizzativi aziendali alla luce degli specifici rischi connessi al contagio dei lavoratori dipendenti pena il rischio di sanzioni ex D.Lgs. 231/01 per le quali andrà però sempre dimostrato l’interesse o il vantaggio effettivo.

 

[1] Si fa qui riferimento alla Circolare dell’INAIL n. 13 del 3 aprile 2020 e chiarificata dalla successiva n. 22 del 20 maggio 2020, nelle quali è stato precisato – forse inutilmente – che il riconoscimento di un caso di infezione Covid-19 come infortunio per il quale interviene la tutela INAIL non determinerà alcun presupposto per individuare una responsabilità civile o penale ai danni dell’azienda.

[2] Artt. 282, co. 1 e 2, lett. a, 55, co. 5, lett. a, d, e, c, d del D.Lgs. 81/2008.

[3] Cfr. Tullio Padovani, Diritto Penale, Giuffrè editore.

[4] Cassazione penale sez. IV, 08 ottobre 2008, n.39888.

[5] Cassazione penale sez. IV, 27 marzo 2017, n. 15124.

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